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Autore: _Frame_    24/04/2016    5 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Angolo delle inutili curiosità.

L’Acheronte è famoso per essere il primo fiume che scorre nell’Inferno di Dante, navigato da Caronte per traghettare le anime dal mondo dei vivi fino ai meandri dell’Oltretomba. Forse non tutti però sanno che il fiume Acheronte esiste davvero. E indovinate dove si trova? Esatto, in Grecia! Più precisamente, ha la sua sorgente a Gianina, nell’Epiro, esattamente dove adesso Romano sta combattendo.

Quando si dice che il caso non esiste... 

 

.

 

78. Kalamas e Acheronte

 

 

Il cielo di pioggia si spalancò in due come una tenda, sotto la corsa di Romano che sguazzava in mezzo al fango pastoso e tra le colonne di fumo grigio e nero che turbinavano lungo il campo di battaglia crivellato dalle esplosioni e dai bombardamenti. Romano resse la bretella del suo fucile con un braccio, stringendola sopra la spalla, e sollevò l’altro braccio per ripararsi il viso mitragliato dal getto della pioggia ghiacciata che picchiava sulle guance. L’acqua inzuppava l’uniforme, la stoffa grattava contro la pelle, bruciava come un abito di cartavetrata. Gli stivali lerci di fango pesavano come macigni, le suole si scollavano a fatica dal terreno che era diventato molle come una distesa di pece. I rivoli di pioggia grondavano dall’attaccatura dei capelli zuppi, gli finivano negli occhi, dentro le orecchie, e tra le labbra boccheggianti, avide di aria. La gola bruciava. Romano respirava a grandi boccate ingollando asfissianti sorsate di fumo.

Tre esplosioni scoppiarono una di seguito all’altra. Il suolo vibrò sotto la corsa di Romano, gli fece traballare le ginocchia, le gambe tremarono fino alle ossa, ma i piedi non smisero di correre e di schizzare fango attorno al suo passaggio. L’eco dello scoppio alla sua destra si abbassò, soffiò una ventata di calore che lo travolse di lato, bruciandogli il viso e il braccio ancora sollevato davanti alla fronte. Romano si chinò, si strinse nelle spalle per ripararsi dal fumo e dal calore, e socchiuse gli occhi.

Lo strato di fumo si abbassò, scoprì la carcassa di un carro veloce italiano capovolto e sventrato sul fianco. Il metallo carbonizzato affogava nel pavimento di fango che continuava a crescere, a salire di livello, alimentato dal diluvio.

Romano schivò la carcassa del carro con uno scatto, si piegò di lato, passò attraverso la colonna di fumo che si era inchinata sotto il getto di pioggia e vento, e saltò una scia fatta di acqua corrente e sassi. Passò in mezzo a ombre di soldati che correvano nella sua stessa direzione, superò un cannone da mortaio che ancora emetteva fumo dalla bocca, e continuò la corsa lasciandosi guidare dal suono del fiume. Le onde d’acqua ruggivano, lo scroscio superava il frastuono delle grida dei soldati, delle esplosioni e del rimbombo causato dalle scosse del terreno.

Romano chiuse gli occhi sotto l’ombra del braccio ancora piegato davanti alla fronte. Si lasciò cullare dalla sensazione dell’acqua che scivolava lungo il viso, giù dai capelli e dalle ciglia, e creò uno spazio vuoto nella mente lontano dalle immagini del campo di battaglia.

Isolò i rumori.

Anche a piedi, pensò.

Lo spiraglio di un ricordo si aprì nella sua testa. La debole luce del giorno filtrata dalla finestra, il viso di Italia illuminato dal riverbero chiaro e polveroso, il calore delle mani avvolte dalle sue. Le dita intrecciate le une alle altre che avevano appena lasciato piovere a terra il foglio dell’ultimatum rifiutato. La dichiarazione di guerra giaceva ai loro piedi.

“Veneziano,” sospirò il ricordo della sua stessa voce. “Io sono tuo fratello.”

Nel petto tornò il grumo di paura che era nato alla lettura della parola ‘όχι’ sulla pagina dell’ultimatum. Le mani chiuse attorno a quelle di Italia strinsero, espansero un senso di calore e sicurezza che sciolse il freddo nodo di timore che gli imprigionava i battiti del cuore.

“No, anzi...”

Il coraggio e la forza di combattere la paura per il bene di suo fratello ruggirono in una fiammata rovente che bruciò il petto e la pancia. Romano ricordò il suo stesso sguardo determinato che si specchiava negli occhi di Italia, le mani che tremavano, il sangue che ribolliva, il cuore che bruciava.

“Io e te siamo parte della stessa cosa. Abbiamo fondato questo paese con le nostre forze, ne abbiamo condiviso assieme il peso e continueremo a farlo.”

E l’ultimo, avido, disperato abbraccio che li teneva uniti nella penombra della stanza. Le dita gli passavano fra i capelli, carezzandogli la testa, le labbra si accostavano all’orecchio.

“Come diavolo potrei pensare di lasciarti solo?”

Una ventata di aria che odorava di zolfo gli soffiò in faccia, spazzando via il tepore del ricordo, il profumo dolce di suo fratello, la sensazione morbida dell’abbraccio, e l’onda di malinconia che lo aveva travolto.

Romano concentrò tutto il bruciore che gli ardeva in corpo nei piedi e nei muscoli delle gambe. Fece un salto più lungo, corse più forte, e il fischio del vento che gli soffiava nelle orecchie tappò i rumori del campo di battaglia. Romano strinse i denti, strizzò le palpebre bagnate, e cercò ancora la presenza del fiume.

Attraverserò quel fiume anche a piedi.

La massa di dolore esplose nella gamba, all’altezza del polpaccio. La scossa si espanse a raggio, aprendosi come i petali di un fiore, e raggiunse il ginocchio, stritolandogli la rotula in una gabbia di filo spinato. Nessuno gli aveva sparato. Romano inciampò in avanti, strinse il grido fra i denti, ma non si fermò. Avanzò con le mani strette alla gamba, a spalle chine, e i piedi zoppicanti. Solo fango e acqua correvano fra le dita tremanti. Niente sangue. Allungò un passo saltellante e il dolore premette anche sull’anca. Romano si girò di scatto verso il male e l’osso della spalla gemette. Romano staccò un palmo dal ginocchio e serrò le dita sulla scapola. Gracchiò un guaito di sofferenza, ma corse.

Aria appesantita dal fumo e dalla pioggia passò attraverso le labbra umide e boccheggianti, scese con un sibilo lungo la gola in fiamme, e riempì il petto. Respirare gli faceva male. A ogni boccata d’aria, era come essere colpito da una pugnalata allo sterno che sbriciolava le ossa e lacerava i polmoni.

Una martellata di capogiri rimbalzò sulla sua tempia, rovesciò il campo sottosopra, mescolando i colori del cielo a quelli del terreno, in una spirale grigia e nera.

Il corpo bruciava.

Romano si prese il viso fra le dita di una mano. Sgranò gli occhi e sigillò le labbra, trattenendo il respiro e il dolore nel petto.

Fu come quella volta.

La sensazione delle ferite sanguinanti che non gli appartenevano tornò a scivolargli dall’uniforme, lungo la pelle, strisciando attraverso il corpo in tanti rigagnoli caldi e appiccicosi.

Salì un’ondata di panico ghiacciato.

Oh, no.

Romano rallentò la corsa. Le gambe, l’anca, la pancia e le spalle pulsavano di dolore, il corpo tremava a ogni passo, i piedi si trascinavano nel fango, il fucile stava cominciando a scivolare dalla schiena.

Un flash di luce gli esplose davanti agli occhi. Seguì il rumore sordo e vibrante dell’esplosione.

Romano sbatacchiò le ciglia, la luce sfarfallò alternandosi alle immagini.

Un soffitto bianco, un braccio che si alzava, avvolto nelle bende fino alle prime falangi della mano, le dita che si muovevano, sottili e indebolite. Le ombre di due uomini che fluttuavano davanti a lui, davanti allo spazio bianco e ovattato che somigliava a una stanza dalle pareti di stoffa. Una macchia rossa sul tessuto avvolto attorno al palmo, la mano che si tingeva di sangue, l’alone cremisi che fioriva attraverso le bende. Macchie di fumo nero galleggiarono davanti alla vista, gli sfocarono la mente.

Romano scrollò il capo, schizzò via la pioggia dai capelli, e si stampò uno schiaffo sulla guancia.

Strinse i denti.

Non di nuovo, ti prego. Non adesso!

Riaprì le palpebre, sbatté le ciglia, scrollando via i cristalli d’acqua e i lampi di luce, e il campo di battaglia tornò ad aprirsi davanti a lui.

Il cielo sfumò di viola. Le nuvole si gonfiarono, alimentate dai fumi che risalivano il terreno, e crebbero spumose e bitorzolute come spugne imbevute e gocciolanti. Artigli di fulmine graffiarono il cielo, si aggrapparono alle nubi e ne illuminarono i vapori. Viola e bianco si alternavano in una serie di flash che coloravano il cielo, scuro come una distesa di carbone.

La luce dei lampi splendette sul campo di battaglia, lo fece brillare come un palcoscenico.

Getti di fumo rovente soffiarono dalle crepe che spaccavano il terreno, inghiottivano i corpi dei demoni che vi passavano attraverso, si ritiravano, spegnendosi come il fischio di un bollitore, e scoprivano le sagome dei diavoli affogati nel fango fino alle ginocchia.

L’acqua del Kalamas era nera. Bolle grandi come palle di cannone gorgogliavano sulla superficie del flusso, si gonfiavano in grossi bitorzoli ed esplodevano, schizzando un’acqua densa e collosa come pece che si appiccicava alle rocce e tra le gambe dei demoni più vicini agli argini.

Braci di fuoco brillavano nel cielo passando attraverso i lampi che artigliavano le nubi violacee. Le palle ardenti fischiavano piovendo dalle nuvole, tracciavano spesse scie di fumo grigio dietro il loro passaggio, ed esplodevano. Il terreno tremava, larghi crateri si aprivano nel suolo, ingigantivano le crepe dalle quali soffiavano i vapori di gas, e ingrossavano le colonne di fumo che salivano toccando il cielo.

Romano smise di correre. Sentiva le ginocchia deboli, i piedi doloranti, il sangue ghiacciato, e le ossa pesanti.

Si fermò tra due spire di fumo e vapore che gli inumidivano le guance. Erano calde e scottavano anche attraverso i vestiti bagnati. Romano respirò a grandi boccate, inalò l’odore dello zolfo che si era fatto più intenso e bruciante, come se fra le crepe di vapore bollente stessero cuocendo delle uova marce sepolte sotto uno strato di polvere da sparo. Il denso strato di fumo che lo circondava riusciva ad arrestare il getto della pioggia tiepida, strizzata dalle nuvole viola come melanzane. Solo sudore ghiacciato scivolava lungo il corpo tremante di Romano, grondava dall’attaccatura dei capelli e colava lungo il viso, fino al mento, giù per il collo, e fino in fondo alla schiena.

La pioggia di braci eruttò una sfera di fuoco che precipitò più vicino a lui. La vampata di calore e luce rossa lo investì, Romano compì un passo all’indietro e si riparò il viso con il braccio.

Sollevò lo sguardo senza abbassare il braccio. Le grida dei demoni, il frastuono delle esplosioni e dello scroscio del fiume ribollente rintronarono nel cranio, spingendolo a guardare verso il corso d’acqua nera.

Un’ombra scura si ergeva sulla riva opposta del Kalamas. Un’aura grigia lo isolava dal nero del fiume che continuava a esplodere e a ribollire attorno a lui. Un manto di stracci gli avvolgeva il corpo, gli incappucciava la testa nascondendogli il volto sotto l’ombra del lembo di stoffa. Il vento alzato dalle esplosioni e dagli scoppi delle bolle di pece scuoteva l’intreccio di panni attorno al suo corpo. La stoffa aderiva alla figura scheletrica, metteva in risalto le ossa sporgenti dai fianchi e dalle spalle.

La figura sollevò un braccio, la manica strappata scivolò fino al polso e scoprì la mano scheletrica. La creatura piegò le dita verso il palmo, lasciò solo l’indice teso e ne abbassò la punta verso i suoi piedi.

Romano seguì con lo sguardo la direzione indicata dal demone incappucciato.

L’indice puntava una piattaforma ai suoi piedi, immersa fra gli scoppi delle bolle nere che ne macchiavano i bordi. L’imbarcazione oscillava fra le onde del fiume, dondolava sotto la spinta del vento e dei getti di vapore che andavano a schiantarsi contro le acque di pece.

Era un chiaro invito a salire.

Romano sfregò via il sudore dal viso, gettò il braccio sul fianco, aggiustò la posizione del fucile contro l’anca, serrando la mano attorno alla cinghia, e ricominciò a correre.

Non ebbe paura.

Il vento caldo e odorante di zolfo gli soffiava in faccia, i fulmini di luce e le esplosioni di fuoco lampeggiavano davanti agli occhi, gli annebbiarono la vista e la mente.   

 

La manina di Romano si infilò fra le due pagine del librone che teneva steso sulle gambe. La copertina rigida, foderata di pelle rugosa, gli toccava la pancia e andava oltre le ginocchia piegate contro l’orlo della sedia. Romano sfogliò la pagina, si aiutò con l’altra manina per paura di strappare la carta, e svelò il contenuto di quelle successive. Alla facciata sinistra, il testo continuava, affiancato da numeretti che ordinavano ogni verso. La facciata destra era riempita da un disegno.

Romano sentì Italia avvicinarsi a lui, premere la spalla contro la sua, e tendere il viso verso l’illustrazione. Le piccole dita si aggrapparono alla maglia di Romano, l’ombra della testolina coprì la pagina con il testo.

Romano stese il piccolo indice che sbucava da sotto la manica lungo il quadro raffigurato a destra. Discese il cielo viola tappezzato di nuvole nere che venivano attraversate da saette ramificanti verso terra, verso il suolo melmoso. Diavoli armati di forconi, con il fuoco alla bocca e le braci sotto gli zoccoli, danzavano attorno ai corpi degli esseri umani nudi e intrappolati nel fango.

“Vedi, qua ci sono questi diavoli nel fango,” disse Romano, e il suo indice risalì le nuvole, seguendo le scie tracciate dai chicchi di ghiaccio. “E questa invece è la grandine che gli viene addosso assieme alla pioggia. Tutta la schifezza che scende dal cielo è una tortura che li tiene incollati a terra e gli impedisce di muoversi.”

Il corpicino di Italia tremò contro il braccio di Romano, le piccole dita paffutelle strinsero sulla stoffa della maglia. Italia premette la fronte contro la spalla del fratello e continuò a sbirciare il quadro con un occhio solo.

L’indice di Romano scivolò lungo l’illustrazione. Si posò su due demoni neri con le lingue di fuori che saltellavano sulle gambe caprine. Uno di loro stringeva una donna per i capelli biondi, l’altro le trafiggeva il ventre sanguinante con gli artigli delle mani. Vicino alla scena, un uomo caduto nel fango era morso su una gamba e sul braccio nudi da altri due demoni che sbavavano schiuma rossa dalle fauci. Il viso dell’uomo, contratto dal dolore, si innalzava verso le nuvole cariche di pioggia e grandine.

Romano batté il piccolo dito contro la scena di sangue.

“E ci sono tipo anche questi altri diavoli qua che li mordono e li graffiano di continuo per non lasciarli scappare.”

 

Ombre di demoni corsero ai suoi fianchi come pellicole che rullavano attraverso la macchina da presa. Romano sentiva i loro fiati rantolargli dietro le orecchie, mescolarsi allo scroscio della pioggia che aveva ripreso a martellargli contro la schiena e le spalle.

La sua corsa verso il fiume continuava.

Romano scavalcò una crepa in mezzo al terreno, saltò attraverso il fumo, trattenne il respiro per non inalare l’odore di zolfo, e atterrò in mezzo al fango. Il pantano gli salì fin sopra le caviglie, fasci di tentacoli di fango gli strinsero le gambe e trattennero la presa, imprigionandolo al suolo. Romano strinse i denti e diede degli strattoni con le ginocchia. I tentacoli di fango si sciolsero e lui ricominciò a correre in mezzo al fumo e alla pioggia.

Spari a ripetizione vibravano attraverso l’aria e gli schizzavano vicino. Le ombre nere dei demoni che rantolavano dietro il muro di fumo crollavano a terra, innalzavano le braccia contro il cielo e spalancavano le bocche coronate da denti aguzzi. Lingue biforcute scivolavano giù dalle labbra, accompagnate da nuvole di fiato bianco e gonfio come il vapore che soffiava fuori dalle crepe.

 

Romano riuscì a sfilare il braccio dalla presa di Italia che se lo teneva avvinghiato al petto, e girò altre due pagine aiutandosi con entrambe le manine. I fogli erano grandi, sollevavano soffi d’aria al profumo di inchiostro che gli agitavano i capelli sulla fronte a ogni voltata.

Romano trovò un’altra illustrazione e si fermò. Questa volta non erano raffigurati dei demoni, ma solo uomini intrappolati nel fango scuro, sotto un cielo nero come carbone, che si affogavano a vicenda. Le dita graffiavano i volti, unghie lunghe e scheggiate affondavano nelle guance sanguinanti e nelle palpebre, fiotti di sangue sbrodolavano dalle ferite ed entravano nelle bocche spalancate.

La voce di Romano si scosse in una maligna risata di bimbo.

“Questi altri qua sono immersi nel pantano, invece, e non è che ci sono i demoni che gli fanno male, se lo fanno da soli perché sono completamente scemi.”

Spostò la punta del dito nell’angolo dell’illustrazione e indicò due uomini aggrappati uno all’altro, con il fango alla gola che entrava nelle bocche aperte per il dolore e la paura.

Romano scosse le spalle, fece l’indifferente. “Oppure cadono da soli nel fango e lì rimangono.”

 

Una sagoma nera emerse dalle acque del fiume, spinta dalle onde nere che annaffiavano le rocce sulla riva. Le braccia del demone si aggrapparono a una seconda figura demoniaca, affondarono gli artigli nella spalla e nel petto, e lo scaraventarono a terra. Il diavolo cadde nel fango, schizzi di acqua e pantano scavarono un cratere attorno al suo corpo che giaceva a terra. L’ombra demoniaca scivolò via dal corpo. Tornò umano. Il soldato si prese la spalla sanguinante, si voltò sul fianco e rantolò con voce bassa e grave. Una seconda ferita fiorì sul petto, colorò l’uniforme italiana di nero, inzuppandogli tutto il busto.

Il diavolo che lo aveva aggredito abbassò la punta del forcone verso il soldato caduto. Una scia di luce corse lungo il profilo dell’arma, la trasformò in un fucile tenuto sottobraccio da un secondo soldato. Il soldato si avvicinò di un passo, tirò indietro la sicura, spinse l’indice sul grilletto e...

 

La pagina del librone si adagiò, svelando altre due facciate: una di testo – questa volta a destra – e di nuovo un quadro che riempiva la pagina sinistra.

Italia strinse le manine attorno al gomito di Romano, si nascose dietro la sua spalla, trattenendo un gridolino terrorizzato, e tremò come una foglia scossa dalla bufera. Le piccole gambe di Romano, stese sotto il libro, non toccavano terra, e dondolarono di eccitazione alla vista della nuova immagine.

Romano spinse subito l’indice sulla raffigurazione dell’Inferno, illustrò a Italia il percorso del fiume scuro, denso e colloso, che eruttava fiammate rosse ogni volta che le bolle sulla superficie esplodevano.

“E poi c’è anche il fiume di sangue bollente che si mescola con la pece.”

Le fiammate inghiottivano uomini e donne nudi che finivano trascinati dalla corrente e divorati dal flusso di sangue e pece.

Romano spostò il dito sulla riva del fiume, dove altri diavoli armati di forconi, impugnati come giavellotti, rincorrevano altrettanti uomini ustionati dalla pioggia di fuoco e dagli schizzi bollenti provenienti dal fiume.

“E questi altri qui invece sono condannati a correre senza mai fermarsi.”

La testolina di Italia sbucò solo per metà da dietro la spalla del fratello. Romano sentì la sua vocina impaurita tremare vicino al suo orecchio.

“Neanche per un riposino?”

Romano scosse il capo mimando espressione severa. “No, nemmeno.” Batté il dito su uno dei diavoli che aveva raggiunto un uomo già ferito dalle ondate del fiume. Il demone gli stava addentando la spalla. “Altrimenti i diavoli li acchiappano e se li mangiano. Oppure, ecco, guarda questi.”

Romano voltò la pagina. Trovò subito l’illustrazione che cercava.

Atri uomini correvano sotto il cielo nero, attraverso il suolo fumante.

Romano indicò un uomo steso a terra, con il viso urlante e contorto dal dolore, e le braccia tese al cielo. Un demone gli stava graffiando il collo, le fauci chiuse attorno al cranio del poveretto. Un secondo diavolo aveva scavato un lacero nel suo stomaco, dagli artigli pendevano frattaglie sanguinanti che scendevano dal busto dell’uomo e gocciolavano mescolandosi alla poltiglia di fango.

“In pratica,” spiegò Romano, indicando la pancia lacerata dell’uomo, “sono sbudellati di continuo, e le ferite non si possono mai chiudere perché i diavoli le tengono aperte.”

“Aah!”

Italia si rannicchiò dietro la spalla di Romano, si fece piccolo, nascosto contro il suo braccio. La vocina tremava di terrore.

“Per piacere, Romano, metti via il libro, mi fa tanta paura.”

Romano gli lanciò un’occhiataccia di rimprovero da sopra la spalla. “Sei un frignone!”

Italia piagnucolò in risposta e si fece ancora più piccolo.

Romano sbuffò. Prese il libro con entrambe le mani, stringendo le dita sulla copertina rigida, e lo richiuse sulle ginocchia.

“Come puoi avere paura?”

Un fascio di luce passò sulla copertina di pelle rossa, lucidò le incisioni dotate che componevano il titolo.

‘Dante Alighieri – Divina Commedia’.

Romano si strinse nelle spalle. “È solo un libro di fantasia.”

“Sì, ma se poi è vero?”

Romano sbuffò di nuovo, passò le dita sopra il titolo dorato. “Non esiste l’Inferno. E anche se ci fosse, le nazioni non ci vanno.”

 

Romano fermò la corsa, piegò le spalle sentendo il peso del suo fucile premere in mezzo alle scapole, e si prese la testa china fra le mani. Scosse il capo, le dita strinsero immaginando di fermare i pensieri e i ricordi che frullavano fra le pareti del cranio come un turbine di fuoco e fumo.

Romano strinse la mandibola e prese un doloroso respiro fra i denti.

La testa pulsava, gli faceva male. L’emicrania piantava le radici artigliate dietro la nuca, risaliva il capo dietro le orecchie, sulla mascella, poi si arrampicava fino alle tempie e lì stringeva in una morsa d’acciaio che martellava e fischiava come un trapano. Romano dovette socchiudere le labbra per riuscire a prendere qualche debole boccata d’aria al sapore di ferro.

Che cosa mi sta succedendo?

Nella sua mente, le illustrazioni del libro che da piccolo aveva sfogliato, tenuto sulle ginocchia e letto assieme a Italia, si mescolarono a quelle che gli scorrevano davanti agli occhi. Le immagini del libro ora odoravano di sangue e di zolfo, avevano il sapore del ferro che scivolava in gola come la pioggia che picchiava sul suo corpo e gli infreddoliva i muscoli, urlavano come bestie sventrate, si muovevano nel fango schizzandogli addosso getti viscidi di pantano.

Romano allentò la stretta dei polpastrelli fra i capelli fradici. Socchiuse le palpebre, sbatté le ciglia. Le luci lampeggianti bianche e rosse del campo di battaglia arrivarono come un pugno in mezzo agli occhi.

Perché sto rivivendo ora questi ricordi?

Gli occhi gli facevano male come la testa. L’emicrania affondava gli artigli nei bulbi oculari e li spremeva all’interno del cranio.

Fu il suono del fiume che riuscì a fargli aprire le palpebre e a guardare attraverso il velo appannato di dolore e confusione. Romano sollevò lo sguardo, seguì il vortice nero del fiume che scrosciava fra le rocce, nel suo letto di fango e sangue.

Non c’erano più demoni incappucciati in piedi su zattere galleggianti fra le acque del Kalamas.

Profondi occhi verdi brillarono in mezzo alle palpebre socchiuse e profonde, sotto l’ombra dei capelli scuri e gocciolanti, incollati alle guance e alla fronte. L’intenso sguardo di sfida incrociò quello di Romano, gli trasmise una vibrazione che arrivò come una saetta elettrica che si arrampica lungo la schiena. La saetta schioccò in testa. Romano spalancò gli occhi e sentì gli ingranaggi del cervello che si riattivavano, facendo ripartire le rotelle, rapide e stridenti.

La visione di Grecia che lo aspettava dall’altra parte del fiume gli strinse un laccio attorno al cuore.

Ti ho trovato, figlio di puttana!

Romano scrollò il capo, raschiò via uno strato d’acqua dalla faccia, e riprese a correre controvento, con le vampate di aria rovente evaporate dalle esplosioni che gli aprivano la strada. Saltò dentro un muro di fumo che era emerso dal terreno come una cresta, si riparò il viso per non inalarne i vapori brucianti, compì la parabola e rimise i piedi a terra.

Le esplosioni continuavano a far vibrare l’aria e il campo, sopra, sotto, davanti e dietro. La terra si apriva come la cima di un vulcano e soffiava fiotti di fumo accompagnati dalle ventate di fuoco degli spari e degli scoppi, il suolo vibrava come assalito da profonde e continue scosse di terremoto.

Il corpo gonfio e ribollente del fiume nero pece si aprì davanti alla vista di Romano.

Romano accelerò. Spinse tutto il peso sulla punta di un piede e slanciò l’ultimo passo verso una delle rocce che emergevano dalle acque del fiume. Saltò in mezzo agli schizzi neri che si infransero contro il cielo, sentì l’acqua bagnargli la faccia e bruciare come una soffiata di schegge di vetro, e atterrò su una roccia umida circondata dalle onde a spirale. Piegò le spalle in avanti, poggiò le mani sulla roccia per non cadere, e rimase a ginocchia flesse.

L’acqua ruggì, le onde si ingrossarono e generarono una spirale nera e profonda attorno alle pietre che emergevano dal letto del fiume. Il fumo delle esplosioni e la nebbia grigia formata dalle gocce di pioggia isolarono lo spazio di fiume su cui Romano era saltato. Sopra l’occhio del ciclone, il cielo divenne viola, ricoperto di nuvole gonfie e plumbee, lacerate da lampi e saette bianchi e sottili.

Romano chiuse i pugni contro la roccia su cui era atterrato, grattò le nocche, e sollevò lentamente lo sguardo, a palpebre socchiuse, scrutando in mezzo alla spirale di acqua, fumo e aria che aveva circondato entrambi.

Altre rocce piatte e larghe emergevano dagli spruzzi delle onde che continuavano a scuotere le acque del Kalamas, formavano una strada attraverso il suo flusso che portava verso la seconda figura atterrata in mezzo al fiume. Il disco d’acqua vorticante circondava Romano e Grecia in uno spazio isolato dalle immagini e dai suoni esterni del campo di battaglia. Occhi vivi e accesi si scrutavano a vicenda, ombreggiati dai capelli che si agitavano davanti al viso, mossi dal vento della spirale in cui erano immersi.

Uno davanti all’altro.

Romano raddrizzò le spalle e staccò le mani dalla roccia. Si rimise in piedi, traballò di lato sotto una soffiata d’aria più violenta, e riprese l’equilibrio. Gli occhi non avevano mai lasciato quelli di Grecia. Gli sguardi si studiavano come quelli di due animali selvatici che stanno per azzannarsi al collo, le espressioni rigide e grigie come maschere di pietra rimanevano impassibili anche sotto il getto dell’acqua che continuava a schizzare contro le guance e sui capelli.

Romano respirava piano, il cuore batteva lento, regolare, le pulsazioni che gonfiavano le vene riuscivano ancora a contenere il ribollio di rabbia che gorgogliava in fondo allo stomaco e formicolava attraverso le braccia e le gambe.

Grecia fu il primo a sollevare di poco il mento, ma mantenne gli occhi bassi e placidi, rivolti verso quelli di Romano.

Parlò lentamente. Il vortice del fiume spingeva le parole nel suo flusso e le amplificava. “Perché sei ancora qui?” Voce calmissima. Non c’era traccia di sfida o di provocazione nel timbro.

Romano restrinse le sopracciglia, espanse l’ombra attorno agli occhi che rimasero intensi e luminosi. Inasprì il tono senza alzare la voce. “Chiudi la bocca.” Il tono vibrava direttamente dal petto. Romano sfilò la sua beretta dall’astuccio allacciato al fianco e tese il braccio, immergendo l’arma sotto il getto di onde che si infrangevano attorno a lui. La canna della pistola scintillava, le gocce nere circondavano la bocca di fuoco e formavano sottili rivoletti che colavano di nuovo nel fiume. “O te la riempio di piombo.” Strinse la mano attorno alla pistola, l’indice scivolò nell’anello del grilletto. “Qui le domande le faccio solo io, chiaro?”

Grecia lo ignorò. Solo una piega di irritazione gli attraversò lo sguardo, indurendo la luce negli occhi. “Perché sei ancora qui?” replicò. Compì un piccolo passo avanti, lungo la superficie della sua roccia. Allungò di più il piede e balzò sulla pietra successiva. Non aveva ancora toccato il fucile riposto dietro la sua spalla. “Vi avevo dato la possibilità di –”

Lo sparo esplose dalla beretta.

Il braccio di Romano tremava, era arretrato sotto il rinculo del colpo, mentre il bossolo schizzava fuori dal caricatore, scintillando e affogando in mezzo alle onde.

Grecia spostò solo un piede e scivolò di lato, mettendosi di fianco. La scia del proiettile gli sfiorò la spalla e finì inghiottita dal fumo che li circondava, senza toccare il suo corpo rigido e impassibile.

Lo sguardo di Grecia rabbuiò di colpo. Una sottile scintilla di impazienza brillò in mezzo agli occhi scuri e ristretti sotto i capelli gocciolanti. Il primo vero sguardo di sfida volò in direzione di Romano, arrivò come una frecciata di fuoco.

La rabbia che friggeva nello stomaco di Romano risalì il petto e ribollì nel cuore, espandendo un alone di calore rovente che non gli fece sentire il gelo dell’aria e dell’acqua. Romano strinse i denti, gorgogliò un gemito di rabbia tra un respiro e l’altro, e sentì le fiamme ingoiargli il corpo e riempirgli la testa di fumo.

Abbassò di scatto il braccio che impugnava la pistola, lo gettò sul fianco, e indirizzò il fuoco che friggeva attraverso le vene verso i piedi. Prese la rincorsa e saltò verso il masso più avanti, superando la cresta spumante di un’onda nera. Atterrò. Gli schizzi d’acqua e la spinta del vento a forma di vortice lo fecero traballare. Romano allargò le braccia, abbassò le spalle, e spinse bene le piante di piedi contro la roccia, in modo da non scivolare. Aspettò che un’onda si ritirasse, e saltò di nuovo. Poggiò la gamba contro l’orlo frastagliato del masso, qualche frammento di roccia si frantumò sotto la suola dello stivale e piovve nel fiume. Sentendo il terreno cedere, Romano percepì la paura pungerlo in fondo alla schiena. Scattò in avanti. Incespicò sulla superficie piatta del masso, incrociò i piedi e si rimise dritto, impugnando la pistola con entrambe le mani.

Grecia seguì con gli occhi i suoi movimenti, lanciò uno sguardo rapido alla beretta che era rimasta chiusa fra le dita di Romano, e abbassò anche lui le spalle per non perdere l’equilibrio in mezzo alle zaffate di vento.

Romano sollevò il braccio che impugnava pistola, fiotti d’acqua scesero dalla manica della giacca e scivolarono unendosi a quelli che grondavano dal calcio dell’arma. Sparò tre colpi di seguito. Lampi bianchi esplosero davanti a lui, nascosero gli abbagli d’argento dei bossoli volati via dal caricatore.

Grecia non dovette nemmeno spostarsi per schivarli. Romano non aveva preso la mira, tanto era accecato dalla rabbia.

Romano gettò un’occhiata da sopra la spalla e seguì la traiettoria dei proiettili che schizzavano alle sue spalle, verso il muro di nebbia a forma di vortice attorno a loro.

Romano ritirò il braccio sopprimendo un ringhio di frustrazione fra i denti. Puntò con lo sguardo una seconda roccia circondata dalle onde che sbattevano come grosse pinne muscolose, e saltò un’altra volta. Non aspettò di atterrare. Si girò sul fianco, lasciandosi avvolgere dal turbine di vento e acqua, e tese il braccio verso Grecia. Schiacciò il grilletto altre due volte. Gli spari infransero il suono degli scrosci del fiume.

Grecia saltò verso di lui. Gli andò incontro.

Un’onda nera del Kalamas gettò una secchiata d’acqua contro una roccia vicino ai suoi piedi, la schiuma nera si ritirò e lasciò libero lo spazio piatto circondato solo dal turbine.

L’eco degli spari cessò, e Grecia atterrò sulla roccia che aveva inquadrato dopo essere saltato via. Si piegò sulle ginocchia e abbassò le spalle. Il vento gli avvolse la schiena e lo tenne in equilibrio, l’acqua scivolò giù dalla pietra, già asciugata dall’aria, e andò a comporre il vortice di isolamento attorno a lui.

Romano sollevò le sopracciglia, spalancò gli occhi. Un’improvvisa realizzazione gli trafisse il cranio come una scossa elettrica.

Il campo del fiume si plasmava a suo sfavore e a favore di Grecia.

Gemette di nuovo di rabbia.

Strinse la beretta con entrambe le mani, le dita sbiancarono per lo sforzo, le braccia tremarono, e tenne entrambi gli occhi aperti sotto i capelli bagnati per prendere la mira.

Il calcio avvolto dalla sua presa emise uno scricchiolio, quasi si stesse spaccando. Romano schiacciò il grilletto immaginandosi di sbriciolarlo. Trattenne il fiato, irrigidì i muscoli, e attese l’esplosione.

Click.

Sollevò un sopracciglio. Il proiettile non era esploso.

Romano abbassò la pistola, la resse con una mano sola, girandola di lato, e riprovò.

Click, click.

Scarica. Aveva già svuotato il serbatoio.

Grugnì fra i denti, spinse il polso contro il calcio, raggiunse la levetta, e lasciò cadere il caricatore vuoto in mezzo ai piedi. Il serbatoio rimbalzò due volte e finì in acqua. Romano affondò le dita nella tasca esterna della giacca, rimestò il contenuto, ed estrasse una piastrina nuova. La girò dalla parte giusta, la avvicinò alla pistola.

Lo sparo gli fischiò vicino all’orecchio. La sfrecciata del proiettile contro la spalla lo fece sbandare di lato, calore e bruciore gli graffiarono il tessuto della giacca e morsero la pelle. Romano si torse, non mollò la pistola retta dal braccio colpito, e si afferrò la spalla. Strinse le dita, arricciò il naso in una smorfia di dolore, e si lasciò sfuggire un gemito.

“Argh!”

Traballò di due passi incrociati, e la risalita di un’onda d’acqua più grossa lo fece arretrare di nuovo.

Strinse la mano sulla spalla e il sangue cominciò a colare fra le dita. Il proiettile era volato via, non si era conficcato nella carne, ma la ferita bruciava come una leccata di fuoco.

Grecia abbassò il braccio che reggeva la sua rivoltella. Il calore propagato dalla canna rovente formò una sottilissima nebbiolina tutt’attorno alla mano che impugnava la pistola.

Romano inspirò forte dal naso, ed espirò dalla bocca. Rauche sorsate d’aria passavano attraverso la gola, sibilavano fra i denti stretti, gli facevano tremare il corpo fradicio e ferito, in bilico sulla roccia in mezzo al vortice di acqua nera. La fiamma d’ira e frustrazione continuava ad alimentare la luce degli occhi. A ogni respiro, le pieghe di rabbia che stropicciavano il viso di Romano si infittivano, corrugavano la fronte e arricciavano la punta del naso, creavano uno spazio d’ombra che accentuava il colore infuocato delle iridi.

Romano fece strisciare un piede lungo la roccia e premette un passo in avanti. La mano strinse sulla spalla ferita, il sangue spremette fuori dagli spazi delle dita.

“Dov’è mio fratello?”

Grecia sollevò un sopracciglio, piegò leggermente il capo di lato, come se non avesse capito. Il braccio che reggeva la pistola rimase basso sul fianco. Solo in quel momento, Romano si accorse della fasciatura che gli bendava la spalla sopra la giacca. Quell’immagine arrivò come una scoccata di freccia dritta in mezzo al cranio.

Se è ferito, vuol dire che hanno combattuto. Ma allora perché lui e qui? Perché riesce ancora a muoversi? Perché non ha perso?

Romano inspirò dal naso e fra i denti, fino a sentire i polmoni bruciare come la gola. Strizzò gli occhi, spremendo via la pioggia dalle ciglia, ed esplose di botto, come un ruggito nella valle.

Che cosa gli hai fatto, bastardo?

Una vena offesa attraversò lo sguardo di Grecia. Gli occhi si restrinsero di poco, un abbaglio di irritazione scintillò fra le pupille. “Perché non avete accettato l’armistizio?”

Romano sussultò. Uno spasmo interruppe il suo respiro, le palpebre si allargarono, il viso rigato dalla pioggia pietrificò. “Quale armistizio?” Cominciò a tremare. Una scossa di dolore lo colpì all’altezza della spalla ferita, Romano chiuse di più le dita e sentì il calore del sangue formicolare sulla pelle intorpidita dal freddo. Spinse un altro passo avanti, vacillò. Il vortice nero che turbinava sotto i suoi piedi lo sentiva ruggire direttamente dentro la sua testa assalita dalla confusione. “Di che cazzo stai parlando?” I battiti accelerarono, il petto si alzava e abbassava ritmicamente, le spalle cominciavano a fargli male, il frullio nella testa stava iniziando a diventare un sottile ronzio. Romano tornò a strizzare gli occhi e cacciò un altro urlo rauco, bagnato dalla pioggia che scivolava tra le labbra. “Dimmelo!”

Non aspettò risposta.

Allungò una gamba, immerse la punta dello stivale dentro la cresta di schiuma di un’onda che si era impennata dal vortice, e spinse sull’altro piede per gettarsi sulla roccia successiva. Atterrò piegandosi sulle ginocchia, premette a terra la mano che non impugnava la beretta, trattenne un respiro aspro fra i denti, e diede un’altra spinta avanzando di due passi. Grecia seguì la sua parabola con lo sguardo, gettò una rapida occhiata alle sue spalle e inquadrò una seconda roccia. Scivolò all’indietro, un’onda si ritirò, creando uno spazio vuoto nell’acqua che gli scavò un passaggio, e la schiuma si inchinò in avanti. Si schiantò sulla pietra sulla quale era appena atterrato Romano.

Romano gettò il braccio contro il viso e piegò le spalle di lato, riparandosi dagli spruzzi ghiacciati che gli bruciarono la faccia. Abbassò il gomito, il fuoco negli occhi ruggì e ingoiò le pupille, infiammandogli il viso di rabbia. Romano caricò una corsa di tre passi, si impennò sulle punte dei piedi, tese il ginocchio in avanti e superò la cresta dell’onda che lo aveva bagnato. La gamba scese, la punta del piede in parabola sfiorò l’orlo della roccia successiva, quella più vicina a Grecia.

Un barlume di allarme attraversò gli occhi gelidi di Grecia.

Grecia sollevò il braccio libero e scostò una manata d’aria, come se stesse dissolvendo del fumo.

L’onda nera ruggì obbedendo al suo comando. Si gonfiò spalancando le acque contro Romano, e lo investì di lato.

La pressione lo schiacciò a terra. Romano non riuscì a poggiare i piedi, la massa d’acqua lo costrinse a chinare le spalle e lo sbatté contro la roccia. Strinse le braccia attorno alle rientranze della pietra, stette immobile a terra con una guancia premuta sulla roccia, le gambe distese e le unghie aggrappate alle crepe, per non farsi portare via dalla corrente. L’onda finì di corrergli sopra la schiena, si portò via il flusso gelido e viscido che gli aveva impregnato i vestiti. Il suono dei vortici sotto di lui sostituì quello dello scroscio del cavallone.

Romano sputacchiò due sorsi d’acqua che sapevano di ferro e di zolfo. Fece leva sui gomiti, le braccia tremarono, brividi di paura e di fatica attraversarono tutto il corpo, gli indebolirono i muscoli. Romano tornò a cadere sbattendo la pancia. Gli mancò il respiro.

Grecia trasse un piccolo sospiro e fece un passo avanti. Anche lui si strinse la spalla ferita durante il combattimento contro Italia, massaggiò il punto del braccio avvolto dalla benda di panni rattoppati.

“Perché non vi siete ancora ricongiunti?” chiese di nuovo Grecia.

Romano stridette un lamento di sofferenza con le labbra a sfioro della roccia su cui era sdraiato a pancia all’ingiù. Chinò la fronte, chiuse i palmi e graffiò le unghie contro la roccia. “Ma di che cazzo stai parlando?” La voce ondeggiò, rotta da un principio di pianto.

Grecia inarcò le estremità delle sopracciglia. “Avevo detto a tuo fratello di andarsene.” Avanzò di un passo. “Di richiedere un armistizio e di tornarvene a casa.”

Romano sollevò la fronte, il mento sfiorò la roccia. “Cos...” Scosse il capo, schizzò via dell’acqua dai capelli, e sbatacchiò le ciglia. Armistizio. Armistizio? Quale armistizio, dannazione? Socchiuse la bocca. “Ma non...”

Uno sparo esplose vicino alla spalla già colpita, l’altro scoppiò all’altezza del fianco, fecero entrambi vibrare la pietra sotto di lui.

Romano rotolò via riparandosi la nuca e tenendosi stretto nelle spalle. L’eco degli spari nella valle morì. Romano sollevò un braccio davanti alla fronte, riaprì le palpebre, e le due piccole colonne di fumo che evaporavano dai fori carbonizzati nella pietra si specchiarono nei suoi occhi lucidi di panico.

Ma quando cazzo...

L’ombra di Grecia lo investì.

Romano sollevò di scatto gli occhi e le suole del suo nemico atterrarono, schizzarono sottili goccioline di acqua contro di lui. Grecia piegò il braccio sopra la spalla, sfilò il fucile dalla scapola, e lo strinse con entrambe le braccia. Impennò il gomito che reggeva il calcio, puntò la cima della baionetta contro Romano e socchiuse un occhio. L’acqua grondò giù dalla punta lucida della lama, disegnò una cascata di perle che rotolarono a terra.

Romano gemette. Il cuore compì una capriola e pompò una martellata di sangue alla testa, infiammandogli il corpo.

Romano tornò a scivolare sul fianco, estrasse anche lui il suo fucile impugnandolo in diagonale, con entrambe le mani, e tese le braccia davanti al petto, contro la punta di quello di Grecia.

La lama della baionetta greca andò a piantarsi sul legno del Carcano.

Romano strinse i denti, forzò le energie verso le braccia tese e tremanti, le mani che reggevano il fucile in orizzontale bruciavano. I freddi occhi di Grecia lo fissavano da dietro il profilo del suo fucile inclinato verso il basso che spingeva contro quello di Romano. Occhi di sfida.

Romano sentì un conato di rabbia risalire lo stomaco e grugnì fra i denti, avvicinando il viso al suo fucile teso davanti al naso. 

“Dov’è Veneziano?”

Grecia piegò le spalle di lato, fece scivolare la punta della baionetta contro il profilo del Carcano, e spinse Romano a rotolare di nuovo, liberandolo dalla pressione che lo schiacciava con la schiena contro la roccia.

Romano non si alzò dopo il ruzzolone. Tirò su il fucile, reggendosi sui gomiti, e puntò la canna contro il petto di Grecia.

“Dimmi dove cazzo è mio fratello o ti faccio saltare la testa!” urlò.

Grecia raddrizzò la schiena e scosse le spalle. Negli occhi era tornata a galleggiare quella pacifica aria da indifferente. “Non so dove sia, ora.”

Romano sgranò gli occhi. Allora sa davvero dov’è!

Grecia abbassò lo sguardo su Romano. Non cambiò espressione, si limitò a sbattere le palpebre dietro le ciocche di capelli appiattite dal diluvio. “Ma quando ci siamo separati non si muoveva più, non credo che abbia fatto molta strada.”

Romano sentì qualcosa spezzarsi dentro di lui, come lo scoppio di una lampadina che esplode lasciando la stanza avvolta in un buio pesto. Si aggrappò alla roccia sui cui era ancora steso, fece strisciare le ginocchia contro la pancia, si mise gattoni, reggendo il fucile con un braccio solo, e cominciò a respirare a scatti, trattenendo i bollori di rabbia. Sollevò una gamba, si aiutò con il fucile per rialzarsi, e stette a spalle gobbe. La voglia di ammazzare Grecia a mani nude e sentire tutto il calore del suo sangue che gli colava dalle dita ed entrava sotto le unghie gli fece formicolare le braccia. Non gli sparò, gli corse addosso.

Bastardo!

Saltò di due rocce passando attraverso le onde che si erano infrante contro di lui. Atterrò a ginocchia piegate, premette la mano contro la roccia, e si diede un’altra spinta. Tornò a estrarre la beretta – dimenticandosi che fosse scarica –, la gettò davanti a sé, verso la testa di Grecia. Romano vedeva rosso. Il cielo viola era diventato una spirale che gocciolava sangue.

Grecia scivolò all’indietro prima che Romano potesse schiacciare l’indice contro il grilletto. Gli si mise di fianco, sollevò una gamba e gli diede un calcio in mezzo alle caviglie. Romano inciampò, il vento gli soffiò addosso, dandogli una spinta verso l’orlo della roccia. Un’onda crebbe dalla superficie del fiume, si aprì come una bocca e gli andò incontro. La schiuma grigia era una corona di denti aguzzi pronta a divorarlo. Romano ne sentiva l’alito che puzzava di sangue, di roccia frantumata e di polvere da sparo.

Qualcosa lo tirò all’indietro per la cinta e Romano trattenne il respiro per lo stupore.

Grecia gli diede uno strattone e lo lanciò al centro della pietra, al sicuro, lontano dall’onda dentata. Romano sbatté il fianco a terra, fece aderire la mano libera nelle rientranze di roccia per non rotolare di nuovo verso il bordo, e contenne un guaito in gola. Scosse il capo, tossicchiò tre volte, e riaprì gli occhi.

Quando vide Grecia in piedi davanti a lui, espressione piatta, occhi freddi e accusatori, e la benda fasciata sulla spalla, il sangue tornò a salirgli al cervello.

Romano scattò in piedi, ripeté il gesto scagliandogli la pistola contro.

Grecia fece roteare lo sguardo al cielo, con fare annoiato.

Romano gli schizzò contro come prima, Grecia compì lo stesso movimento con i piedi, scivolandogli di fianco. Impennò le braccia che reggevano il fucile al cielo, tenendo la volata rivolta verso l’alto. Calò il colpo, sbatté il calcio del fucile contro la nuca di Romano.

Romano flesse le spalle all’indietro, spalancò la bocca in cerca di aria, sgranò gli occhi, le pupille si restrinsero. “Gha!” Il silenzio del dolore gli ovattò le orecchie.

Romano cadde di pancia, sbatté il petto e rimase senza fiato, con la bocca socchiusa che baciava la roccia bagnata, e il corpo che tremava sotto il getto di pioggia.

Grecia saltò di una roccia all’indietro, le onde si divisero ritirando l’acqua nera dagli orli della pietra piatta che emergeva dal vortice, e stette fermo. Spalle piegate in avanti, il respiro leggermente più rapido, e le guance più rosse sotto i capelli incollati al viso.

Romano strinse i pugni contro la roccia. Si rannicchiò chiudendosi nelle spalle, tenne premuto il viso a terra, e lasciò che la pioggia gli scivolasse addosso dandogli la sensazione del suo corpo che si scioglieva. Strinse i denti, le labbra tremarono inarcandosi verso il basso, gli occhi nascosti dai capelli riversi sul viso si gonfiarono e bruciarono sotto il peso delle lacrime. La spalla ferita dal colpo di pistola bruciò. Il sangue si era fermato, ma la pioggia picchiava contro il lacero aperto facendo vibrare la pelle lucida e piagata. I pensieri vorticarono fra le pareti del cranio, collegarono tutte le immagini che gli erano lampeggiate davanti durante la battaglia.

La sensazione delle ferite non sue che pulsavano contro le ossa, i capogiri che gli erano martellati sulle tempie, le vertigini che gli toglievano il fiato e lo facevano barcollare, la benda sulla spalla di Grecia.

Due righe di lacrime gli scesero dalle palpebre. Rigarono il viso di traverso, colando lungo una guancia sola – quella schiacciata a terra – e scivolando sopra l’orecchio, perdendosi nei capelli. Romano singhiozzò. Il cuore vibrò di dolore.

“Perché...” Voltò la guancia e nascose il viso fra i pugni ancora stretti a terra. “Perché tutto questo?” Singhiozzò altre due volte, uno spasmo attraversò la schiena che si gonfiò e tornò bassa.

Grecia sollevò di più lo sguardo. Calmò il respiro, lasciò scivolare giù la mano dalla spalla ferita, e le acque attorno a lui si acquietarono. Le onde si ritirarono e i vortici decelerarono. Grecia aggrottò lievemente la fronte. Lanciò a Romano un’occhiata scocciata. “È da quando è cominciato che anche io cerco di capirlo.” Camminò di due passi in avanti. Un’aria più mite si stese sul viso, di nuovo calmo e rilassato. “In realtà speravo che foste voi a spiegarmelo.”

Romano stridette un singhiozzo fra i denti. “Io volevo solo proteggerlo.” Pianse ancora, il nodo in gola si sciolse, la voce strozzata sgorgò assieme alle lacrime che gli bagnarono le mani ancora strette davanti al viso chino. “Volevo solo proteggere mio fratello,” inspirò, ingrossò la voce, “e non sono riuscito a fare nemmeno questo!”

Grecia restrinse gli occhi. “Proteggerlo da chi?” Camminò di un altro passo. Tornò a toccarsi la spalla bendata. Una macchia rossa era fiorita nel bianco delle bende, la ferita si era riaperta. “Da me, forse?”

“Non da te!” Romano strisciò sui gomiti, spinse il peso sulle gambe e restò seduto sulle ginocchia, a spalle gobbe e braccia abbandonate sui fianchi. Prese un grosso respiro, lo trattenne. Gettò il viso lacrimante al cielo e liberò il fiato. “Da Germania!”

Gli occhi si sciolsero in lacrime. Spessi fiotti trasparenti colarono dalle ciglia e corsero lungo le guance arrossate, bagnandogli le labbra e raccogliendosi sul mento. Romano schiacciò i palmi contro il viso e pianse ancora, scosso dai singhiozzi e dai piccoli lamenti che gli bloccavano il respiro. Petto e pancia bruciavano, ma il peso nel cuore si era alleggerito, sgonfiandolo dalla pressione di un macigno.

Gli occhi di Grecia si allargarono lievemente, e tornarono stretti, scuri e freddi. La pioggia che batteva sulle due nazioni riempiva il silenzio interrotto solo dal pianto di Romano. “Sapevo che alla fine c’era lui dietro a tutto questo,” disse Grecia. Compì un passo in avanti. I piedi sfiorarono l’orlo della roccia. “Perché Germania vi ha ordinato di attaccarmi?” Piegò il capo di lato. “Per arrivare anche a Turchia? Per prendere il controllo su tutto il Mediterraneo?”

Romano fece scendere i palmi dal viso e si sfregò la manica contro gli occhi e le guance. Singhiozzò ancora. “Non è stato lui a ordinarcelo. Ha fatto tutto...” Strinse i denti, abbassò lo sguardo. “Veneziano, lui...” Gettò una mano a terra e serrò il pugno, screpolandosi le nocche. Il cuore tornò a riempirsi di rabbia, ad ardere come una brace incandescente. “Tutto questo è successo solo perché...” Guadagnò un altro respiro e gettò fuori tutto. “Perché dovevamo dimostrare di essere forti come lui!”

Grecia spalancò lentamente gli occhi. Lo sguardo brillò di soddisfazione, un’ombra di sorriso gli toccò le labbra piatte e grigie per il freddo.

“Finalmente,” disse, piano. Fu un reale sospiro di sollievo. “Finalmente è saltato fuori.”

Romano tornò a nascondersi la faccia dietro i palmi. Le lacrime non si fermarono, il respiro soffiava pesante contro le dita bollenti e bagnate dalle lacrime. Schiacciava tutto il peso contro la bocca per non far sentire i gemiti di dolore che non riusciva a tenere dentro di sé.

In testa rivide la litigata con suo fratello dopo la riunione dell’Asse, quando aveva picchiato il muro sopra la spalla di Italia, quando aveva pianto davanti a lui e si era lasciato abbracciare bagnandogli la spalla di lacrime. Le mani strette l’una nell’altra, e lo sguardo che lo implorava di rinunciare alla campagna di Grecia. L’ultimo abbraccio prima di separarsi, mentre il foglio dell’ultimatum respinto giaceva ai loro piedi come una foglia morta.

Gli girò la testa, il respiro accelerato soffiò un pugno di sabbia nera contro gli occhi nascosti dai palmi. Il corpo tremava, le ferite che non erano state inferte a lui tornarono a pulsare contro le ossa, bruciavano i muscoli e aggredivano la pelle come una pioggia di morsi aguzzi.

Romano barcollò sulle ginocchia, sentì il mondo girare attorno a lui e fischiargli nelle orecchie, diventare buio come la notte. Stava svenendo.

La voce e i passi di Grecia lo scossero.

“Sai, è proprio per questo che avevo proposto l’armistizio a Italia.”

Romano prese un respiro più profondo e fece scivolare le dita dal viso. Gli occhi rossi, gonfi e lucidi, riflessero l’immagine di Grecia che aveva compiuto un passo di lato.

Grecia continuò. “Proprio per evitare di venire a conoscenza di particolari simili.” Si fermò, una buia scintilla di rimprovero gli scurì gli occhi. “Trovo alquanto seccante che voi due abbiate invaso me per un motivo così stupido, in cui io non c’entro nulla.”

“Lui ti ha invaso,” disse Romano, fra i denti. “Lui ti ha invaso! Io non...” Sollevò le mani e strinse le dita fra i capelli, all’altezza delle tempie. “Io avrei dovuto fermarlo! Non ho avuto il coraggio di bloccarlo quando ne avevo il potere, e ora non ho nemmeno la forza di andare fino in fondo alla decisione che ho preso.” Singhiozzò un’altra volta, ma non scesero lacrime. “Io...”

Di nuovo il flash del giorno in cui avevano litigato. Il suo pugno tremante schiacciato contro il muro, sopra la spalla di Italia. Il corpicino che tremava di paura, gli occhi lucidi di tristezza e di incredulità che lo guardavano dal basso, in mezzo alla penombra. Il flusso di rimorso che aveva attraversato il cuore di Romano, consapevole di aver pensato di fare del male a suo fratello.

“Io...”

Il buio gli riempì la testa, cancellò i ricordi.

Una fitta corona di spine gli stritolò il cuore, gli aculei si piantarono dentro il muscolo pulsante schizzando getti di sangue bollente all’interno del petto.

“Non doveva andare a finire così!”

Romano riprese a correre. Il turbine di pioggia si aprì sotto il suo passaggio, circondò il suo corpo ancora piegato dal dolore. Romano guardò oltre le scintille di rabbia che lampeggiavano davanti alla vista, e puntò il sasso sul quale Grecia era in piedi.

Se non fosse stato per Veneziano, io non sarei qui.

Saltò e atterrò con un tonfo sordo. Le caviglie diedero una scarica di dolore che si arrampicò fino alle ginocchia come una scossa elettrica. Romano strinse i denti, non pensò al dolore, e gettò lo sguardo in avanti, verso Grecia.

Perché sto combattendo?

Gli corse addosso.

Grecia si spostò all’indietro, curvò il flusso del fiume sotto il suo passaggio, e si portò su un’altra roccia. L’acqua si richiuse e schizzò in faccia a Romano. Lo costrinse a strizzare gli occhi, a vedere e sentire quel nero riempito solo dalla voce della sua testa.

Perché dovrei farmi ammazzare per un suo sbaglio?

Riaprì gli occhi. Lo sguardo di sfida di Grecia lo fissava da dietro il velo di nebbia e confusione che gli appannava la vista. Romano ricambiò l’occhiataccia, e allungò una falcata di corsa.

Dovrebbe essere Germania a combattere per Veneziano. Che venga lui a salvarlo!

Guadagnò un profondo respiro, richiamò tutto il calore e tutta l’energia del corpo sulle gambe, preparandosi al salto.

Io gli sono utile...

Staccò il primo piede dalla roccia, tese la gamba, si riparò il viso con un braccio, e allungò la punta dello stivale contro la pietra successiva.

Solo quando devo rimediare ai suoi stupidi casini!

Romano completò il salto. Il piede atterrò sulla stessa roccia sulla quale Grecia era in piedi ad aspettarlo. Premette la suola dello stivale contro la pietra, la gamba spinse tutto il peso sulla pianta del piede, e Romano iniziò già a gettare le spalle in avanti per compiere lo scatto verso Grecia.

Arrivò in un lampo, come una martellata in mezzo al petto.

Il cuore pulsò in un battito di dolore che esplose fra le costole, Romano sentì il suono basso e profondo che vibrava nelle orecchie e penetrava nel cervello. Raggelò, inghiottì il fiato che aveva in bocca e gettò il viso al cielo, a labbra spalancate e occhi sbarrati, lucidi di panico e stupore.

Romano si immaginò una saetta a forma di ramo esplodere ed emettere un suono simile a quello di un piatto di cristallo che va in frantumi. La saetta gli trafisse il petto, penetrò le costole e le radici elettriche affondarono gli artigli nel muscolo gonfio e pulsante del cuore, avvolto in una rete di piccole vene sanguinanti.

Il lampo del fulmine gli abbagliò la vista. Cancellò l’immagine di Grecia davanti ai suoi occhi e gli aprì un lungo fischio nelle orecchie.

Le immagini sfilarono come una pellicola che passa attraverso il rullo del proiettore.

Mani bendate ricoperte di sangue che gocciola dalle dita, il corpo che si piega come assalito dai crampi addominali, il pavimento bianco che si avvicina, la guancia che batte a terra, i ciuffi di capelli che cadono davanti agli occhi, ginocchia estranee che si accovacciano davanti a lui, braccia forti che lo girano a pancia insù, ombre sfocate che emettono suoni simili a richiami. Di nuovo la macchia rossa che avvolge la vista, il colore scarlatto che diventa nero e il fischio che si dissolve, facendo cadere il silenzio.   

La pulsazione di dolore terminò. Il corpo di Romano si spense come un giocattolo a cui hanno strappato la batteria dalla schiena. Gli occhi divennero vuoti e grigi, le labbra socchiuse smisero di respirare, le guance sbiancarono come gesso.

Romano rivolse il viso al cielo e cadde all’indietro. Le braccia ciondolarono verso l’alto, il piede appena premuto a terra si sollevò, scivolò assieme all’altra gamba, e il peso delle sue spalle lo trascinò verso il basso. Lasciò che l’aria e gli schizzi d’acqua si aprissero sotto il suo corpo che stava precipitando nel vuoto.

Romano socchiuse le palpebre, sbatté lentamente le ciglia bagnate, e una foschia nera gli appannò la vista. La nebbia si espanse, ingoiò l’immagine di Grecia che stava correndo verso di lui.

 

“Ma, Romano, e se l’Inferno esistesse davvero?”

Gli occhi ancora lucidi di Italia, colmi di paura, guardarono Romano da dietro la spalla del fratello, nascosti dalla sottile ombra di preoccupazione che si era stesa sul viso.

Le manine di Italia strinsero con più insistenza sulla maglia di Romano, il viso si avvicinò al suo, gli parlò a una piuma dalla guancia. Gli occhi e la voce ripresero a vacillare.

“E se anche le nazioni possono andare all’Inferno dopo che sono morte? Io non ci voglio andare, Romano, ho paura!”

 

Il braccio fasciato dall’uniforme greca si tese verso di lui. Grecia si sporse dalla roccia, gettò le spalle in avanti, spalancò la mano e la buttò contro quella di Romano.

Romano aprì di più gli occhi, le palpebre bruciavano e pesavano. Ogni battito di ciglia gli faceva esplodere un’ondata di emicrania nella testa.

Dietro il velo appannato che gli sbavava la vista, oltre il palmo spalancato, oltre le dita divaricate e il braccio di Grecia teso verso di lui, riuscì a scorgere gli occhi verdi del suo nemico accendersi in una scintilla di panico.

Il tocco della mano di Grecia gli sfiorò le dita rigide e rivolte al cielo.

Grecia strinse le sue, dandogli una forma di artiglio, tentò di agguantare l’orlo della manica di Romano che ciondolava dal polso.

 

Romano abbassò lo sguardo, lo girò di lato, nascose il rossore che gli aveva imporporato le guance.

 “Se...” Strinse le dita attorno alla copertina chiusa del libro, fece dondolare le piccole gambe dalla sedia, e borbottò fra le labbra come quando piantava il broncio. “Se dovessi andare all’Inferno, allora verrò io a proteggerti e a spaccare il muso a tutti i diavoli del cazzo.”

 

Le dita di Grecia scivolarono via dal polso di Romano, strisciarono lungo il palmo umido di pioggia e di fango, e corsero lungo il profilo delle dita. Grecia chiuse di nuovo la presa, intrecciò le dita alle falangi di Romano, tirò verso di sé, e la pelle scivolò come fosse laccata di sapone.

Un secondo capogiro vorticò attorno alla testa di Romano. Dentro le orecchie ovattate, Romano sentì il suono del fiume farsi più vicino alle sue spalle.

 

Italia spalancò gli occhi. Trasse un sospiro di meraviglia. “Davvero?” Si accoccolò ancora più vicino a Romano e gli strattonò delicatamente la stoffa della manica all’altezza della spalla. “E mi farai uscire portandomi fuori con te? Questo signore qua ci è riuscito.”

“Ovvio!” esclamò Romano, quasi offeso. “Io...”

 

Le mani scivolarono l’una sull’altra. I polpastrelli scollarono le punte e si lasciarono. Il braccio di Romano precipitò all’indietro seguendo la curva compiuta dal suo corpo che continuava a cadere.

Grecia saltò di un altro passo verso l’orlo della roccia. Tese anche l’altro braccio e afferrò il vuoto. Fece lo stesso movimento curvo di chi prova ad acchiappare un pugno di mosche.

L’ultima cosa che Romano vide, prima di chiudere gli occhi, fu la sua espressione di panico. Gli occhi spalancati in un silenzioso grido dall’arme, le ciocche dei capelli bagnati scivolate lungo il viso, e le punte castane che sfioravano la bocca socchiusa.

 

Romano si fece piccolo nelle spalle, abbassò la voce così tanto, accostando le labbra alla copertina del librone, che Italia non riuscì a sentire le sue parole. “Io ti prometto che attraverserò tutto l’Inferno per venire a salvarti.”

 

Le acque del Kalamas si aprirono in uno scroscio sordo, simile allo schianto di un servizio di argenteria precipitato contro il pavimento.

Mille braccia d’acqua ghiacciate lo avvolsero e lo tirarono verso il fondo. Le onde si chiusero sopra il suo petto, il freddo premette contro lo sterno e gli mozzò il fiato, facendogli prendere un’ultima profonda boccata d’aria. L’acqua gli avvolse la gola, il viso, entrò nel naso e nella bocca.

Una bolla di silenzio lo racchiuse nell’abbraccio che lo stava trascinando verso il fondo.

Romano piegò le spalle all’indietro, gettò il petto verso l’alto e spalancò la bocca. Una colonna di bolle si gonfiò dalle sue labbra e si dissolse nell’ambiente nero del fiume.

Romano gettò le braccia verso l’alto. Il freddo irrigidì i muscoli, pietrificò le dita che rimasero dure e piegate come ami che provano ad aggrapparsi al pelo dell’acqua. Le labbra tornarono socchiuse, gli ultimi grappoli di bolle levitarono e scoppiarono contro le sue guance. Il corpo di Romano si rilassò, sentendosi tirare sempre più in basso. Lasciò che il freddo flusso dell’acqua lo cullasse, che il silenzio gli tappasse le orecchie, e che il gelo gli schiacciasse il peso sul petto.

Ho perso.

Agitò le dita. Afferrò un pugno d’acqua e tornò rigido come un manichino.

Mi sono lasciato inghiottire dall’Inferno prima di poterlo andare a salvare.

Romano socchiuse le ciglia. Due minuscole bollicine trasparenti volarono verso il singolo raggio di luce che penetrava il nero del fiume. Sbatté le palpebre, gli occhi tornarono due sottilissime linee scure in mezzo alle ciglia.

Il corpo si fece pesante, i muscoli stanchi si rilassarono, sciogliendo la rigidezza che gli stritolava le ossa. Romano smise di fare resistenza ai fasci di acqua che lo cullavano portandolo sempre più a fondo. Li sentiva massaggiargli la nuca, correre lungo il profilo delle orecchie come fini dita delicate, e disegnare piccoli cerchi concentrici sulle tempie, fra i capelli ondeggianti, rilassando la pelle del viso.

Romano chiuse completamente gli occhi.

Eppure, io...

Un flash di luce bianca fiorì dentro il nero delle palpebre abbassate. Portò con sé le immagini della riunione, quando si era visto srotolare la mappa di Grecia davanti ai suoi occhi, quando le parole dell’ammiraglio avevano provato a fermare le sue scelte.

“Quindi, la sua decisione è quella di seguire passivamente la corrente che lo travolgerà, lasciandosi trascinare?”

La sua stessa voce rimbombò nelle orecchie ovattate dall’acqua di fiume. “Non ho altra scelta, se non voglio abbandonarlo.”

Romano rilasciò l’ultima boccata di fiato che si materializzò in una sottile scia di bollicine, e rivolse il capo all’indietro, contro la schiena inarcata, come contratta da un violento spasmo. Le palpebre abbassate, le labbra socchiuse.

Già, non ho avuto scelta.

Il senso di pace e di rassegnazione si aprì in mezzo al petto come un fiore che sboccia sotto il calore del sole. I petali avvolsero Romano, lo fecero stendere in mezzo al flusso dell’acqua che strisciò sotto i vestiti, fra i capelli gonfi e mossi dalla corrente, in mezzo alle dita, e sotto la schiena.

Possa la corrente...

Girò il capo di lato. Sentì la nebbia nera entrargli nella testa, nelle ossa, nei muscoli, e divorare l’ultimo granello di luce ondulata che riusciva a scorgere.

Avere pietà di me.

Il freddo e la pressione dell’acqua scomparvero.

Ci fu solo nero.

E fu così che Romano decise di lasciarsi morire. 

   
 
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