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Autore: Happy_Pumpkin    07/04/2009    0 recensioni
Tento di contrarre le ossa ma si frantumano nella stretta del cancro che, vergine, banchetta su di me; mi fa sentire simile ad una prostituta raffinata su cui vengono versate bibite costose e carezze con guanti d'amianto.
Sollevo la mia bandiera fatta di mutande usate, ricordi coperti da elmetti militari – quante volte sono stati bombardati nonostante avessero una croce in testa – e alla fine sospiro dichiarando la resa in uno squillare di trombe.
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A volte mi sento accaldato nella mia passionale ricerca di uno schema nuovo, una delle tante direttive vitali che circondano i fattori numerici dell'esistenza.

Eppure mi accorgo di essere una condizionale strisciante che viene continuamente scartata, l'involucro di vetro gettato in un acquario di carta pronto per scoppiare; a quel punto allora formo la mia anonima famiglia, un riquadro borghese di cornici in feltro che puzzano come un tappeto stantio, immerso nei liquami della deliziosa indifferenza.

Arranco valicando fortezze, create nei secoli con pietre di gommapiuma e bandiere di carta igienica, infine trovo un portone dorato – deliziosi riccioli di canapa che pungono la pelle a circondarlo – e incontro un pallone da riempire d'acqua fino a che non scoppierà.
Le mie gocce si confondono con il sudore spremuto dalla mia fatica; grazie a questa confusione si genera il mio clone femminile dotato di colline che io non avrò e dell'astrusa capacità di muovere i peli degli occhi per spedire disponibilità aerea a chiunque captasse le interferenze di luce.

Così, scherzando con il signore che porta l'orologio nascosto tra le mutande, passando al supermercato promotore di sconti famiglia mi sono ritrovato nel carrello due donne; una che ha condiviso la sua tessera fedeltà con me, l'altra contenuta nel suo sacchetto spesa in mezzo ai liquidi sparsi del detersivo la cui bottiglia, priva di tappo, è stata rovesciata.

Studio il sistema per sommare i capelli prima di sottrarli dal lucido del cuoio, conto con le unghie graffianti le pieghe dei tovaglioli che mi ricoprono e piango siccome nessun altro è disposto a mutare pelle con me; nessuno ricorda la mia ombra vagare tra i mattoni perché mi infilo nelle tubature e sparisco, fingendo di lavorare al sistema per salvare il mondo dall'estinzione, così che non finiamo per dissolverci tutti in lattine al titanio foderate di grasso.

Mia moglie scompare e apre la sua disponibilità sorridente, increspata come quel foulard che aveva sputato il gatto, troppo nauseato dopo aver inghiottito la sua stessa coda; gli invitati nel suo piccolo nido d'amore, soffocato dai profumi scadenti con un retrogusto banale, iniziano a slacciare le dita disinibendo il respiro per affannare sopra la sua passione falsamente estinta.

Mia figlia controlla il proprio riflesso sporco, cancellando con il gomito inumidito di sangue le macchie sulla pelle di plastica, sognando il silicone che sigillerà il piatto della sua tavola. Arriccia le ciglia piegando i capelli, dipinge le pupille colorando i cuscini per poi rendersi conto di essere un bicchiere incartapecorito per effetto di un pugno; il mio pugno di solitudine che mi fa vomitare lo stomaco riempiendomi di tinta il cervello.

Provo a inghiottire ma inevitabilmente il male ritorna anche se a volte persino lui sembra dimenticarsi di me; bussa, lo sento bussare, ticchetta senza riuscire a capire dove sia finita la lancetta dei minuti, quella dei secondi invece non è mai stata messa nella piazza, priva di numeri scritti col gesso.
L'ora continua a girare su sé stessa, sputa un tempo infinito che si riavvolge come un vecchio nastro legato attorno ad un pacco regalo mai scartato, finito per sbaglio sotto un piede grande ma talmente leggero da ammaccare appena gli angoli bucati.

Il giorno in cui rientro dal mio lettino, dopo aver perso la parrucca grigia, cammino tra le stanze deserte, colme di sabbia, e non vedo altri che me.
In lontananza, nell'universo cosmico del tradimento, avverto i segnali che gemono sotto il mantello e mi comunicano indirettamente che non avrei più visto affetto nelle sculacciate comprate con lo sconto in gioventù. Allo stesso modo i cartelli stradali sulla porta della ragazzina – che da anni convive sotto il mio stesso cumulo di paglia – mi informano di trovarmi su un cantiere proibito: un passo falso e rischierei crollare, proprio mentre sono intento ad attraversare uno dei ponti che lei ha eretto.
Lo sento scivoloso oltre che traballante quel ponte, il mio primo senso mi dice che è stato lubrificato tra un'asse e l'altra, potrebbe quindi spuntare un chiodo un giorno che la taglierà all'altezza della ferita aperta. Io non sarò in grado di fare niente, non avrò il filo nell'ago per ricucire quel pupazzo morto, strapazzato da mani troppo grandi ed inesperte come un gattino alla prima poppata.

Così mi accontenterò di sospirare, beandomi della mia ignoranza evanescente e di essere un oggetto vecchio, un soprammobile malamente assemblato durante la fabbricazione ad opera di artigiani che si sono curati poco di plasmarmi; mi hanno lasciato incompleto, spostando il braccio destro all'altezza della caviglia così che potessi prendermi a calci in culo con una spinta.
Casco nel fango, affondo nell'aria inquinata dall'inerzia dei gas, volteggio un istante sul terreno polveroso raschiando con la saliva che mi permette di scivolare ancora, sempre più giù, fino a non venir toccato dalla falce.

Rimango allora, debole come un cane che ha visto l'eutanasia mordendo le cinghie impregnate di sonnifero, sulla mia bara di lino e nessuno mi vuole sfiorare, rifiutandosi di accontentare quella mia dannata voglia di ruzzolare nel marsupio caldo degli altri; così vengo cancellato dall'elenco telefonico con un colpo di spada e sputacchio inchiostro che Lei pulirà grazie ad un energico giro di capelli vaporosi.

Prima di chiudere le serrande – troppa luce catalizza il mio processo di idrolisi – sbircio fuori la mia Venezia, fatta di gondole e coccodrilli che soffiano cerchi cristallini avvolti da un alone di fumo, e le vedo stringere il cappio attorno al mio collo, sperando che si pieghi come un angolo smussato da cartavetro.
Le mie bottiglie sono vuote e spremendo il succo di frutta questo non piange, forse il limone acido bucherebbe il papiro con cui sono avvolto; resto solo con la signora che regala l'aria ai miei panni, la quale accarezza la sfera che pende sul mio capo e, caramellata, sussurra ai pori della mia pelle che non dovranno più dilatarsi.
Sussurra e io sento, con le orecchie stese ad asciugare, il calore di una fiamma che cerca di essere soffocata dal soffio di uno stolto, così da ingigantirsi fino a non corrodere le superfici arrugginite della mia auto, il cui tettuccio da tempo è stato sfondato.

Colpa dell'elefante che cercava una nocciolina prelibata quando purtroppo ha trovato nient'altro che un topo; l'ho visto correre via in questi giorni, tentava di volare spalancando le grandi orecchie, invece è ruzzolato in una gabbia di sole tre pareti, mentre il topo ha vomitato l'arachide sulla pozza di umido, sfociata dalle lacrime di quell'aperitivo troppo amaro bevuto l'ultima volta al bar.

Muori, mi dicono le mie due prefiche, così il mondo si ricorderà di te e creeranno un altro anello attorno a Giove accalappiando quel cane fuggito lontano, uccidendo il gatto zoppo chiamato Insuccesso.
Noi – stridono, mi lacerano il ventre per scavare un tesoro che ho nascosto assieme al pennarello a righe di cobalto – prenderemo quel poco che hai tenuto nel taschino dei documenti, le chiavi della bicicletta a motore, i soldi del tuo stipendio come supereroe delle fogne che gocciolano arie fluttuanti e regaleremo le medicine all'anziana ornata di rughe che sta passando; lei ha più diritto di te a soffiare, tu invece annaspi anidride carbonica e ti gonfi di morte appestandoci.

Tento di contrarre le ossa ma si frantumano nella stretta del cancro che, vergine, banchetta su di me; mi fa sentire simile ad una prostituta raffinata su cui vengono versate bibite costose e carezze con guanti d'amianto. Infine sollevo la mia bandiera fatta di mutande usate, ricordi coperti da elmetti militari – quante volte sono stati bombardati nonostante avessero una croce in testa – e sospiro dichiarando la resa in uno squillare di trombe.
Ricordo un vecchio che porta la panciera per sollevare i chili e nasconderli in un buco nero, oppure un giovane che ingrossa il pacchetto regalo così da sembrare amico di un estintore, senza rendersi conto che il vetro di protezione era stato già rotto da qualcuno tempo prima.
Infine, al momento di andarmene, sembro solo un bambino intento a stropicciarsi il ventre, portando con sé un orsacchiotto che nasconde una palla di cannone la quale, passo dopo passo, sfonda il pavimento facendo saltare le assi che rompono le calze a rete appese ad una porta costantemente chiusa.
E' chiusa perché non ci sono i cardini, sparati da una pistola calibro nove contro un bersaglio morbido fatto di zucchero a velo, e perché oltre il tavolo di legno altro non c'è che un muro con scritte inneggianti allo schiavismo dei sentimenti.

Io finalmente, lanciando la mia palla senza che affondasse nella gommapiuma, perforo quell'occhio incastrato in rigida pelle rossiccia e vi passo attraverso; rendo cieco Polifemo, per una volta giocando a pocker con gli altri, e ad un passo dalla caduta imparo a non rimpiangere il promontorio dal quale ho imparato a volare, rimbalzando su di una tavola male avvitata.
Le mie ali non hanno colla, a reggerle solo la saliva dolceamara delle due donne che morderanno i loro fegati spugnosi d'alcol; già... non ci sarà nessuno a controllare i canali di scolo e gli allacciamenti ora che me ne sono andato.

Annegate nell'eredità inesistente, maledite la mia inettitudine fatta di bolle in plexigas perfette ma incrinate dai raggi lunari che le trafiggono, urlate in una stanza vuota – ho progettato a lungo le pareti imbottite di talco affinché sembrasse cenere una volta che sarebbero esplose – e scappate dai vostri rapitori notturni così che possano rubare ancora quel poco che rimane di noi.

Fate ciò che più vi aggrada mentre io cammino nel mondo ctonio, senza stagioni e vento che possa sollevare le mie gonne fatte di cuoio dei palloni da calcio e copertoni di biciclette; fatelo, perché tanto io sarò troppo sordo per vedervi.
Riderò, mangiando le mie lacrime e il veleno che voi mi avete somministrato in una zuppa ospedaliera farcita con un cucchiaio d'amore – ahimé plastificato e insacchettato come una porzione monouso – per mascherare il disgustoso sapore dell'indifferenza.
Alla fine – ne converrete con me – probabilmente sarebbe bastato scaldare appena quella minestra insipida e io mi sarei accontentato, crogiolando alla ricerca di qualche legume nel mare acquoso; ora invece, nelle mie assenze, nei miei silenzi d'ottone vibrante, sarete costrette a ricordarvi di me, quell'appuntamento sull'agenda che non arriva mai impossibile da cancellare o rimandare.

Sollevate le scarpe imbottite di pelo e arrendetevi all'inevitabile; io galleggio coperto d'oro, reso invitante da piume di corvo e nastri che arricciano il mio naso coprendo le imperfezioni dell'ultimo salto, macchiando i lividi con cipria profumata: sono più in alto di voi due e fluttuo in una schiuma marina senza soffocare, travolto dalla valanga di neve che un giorno vi investirà.
Solo che voi, a differenza di me, annasperete mentre io vi guarderò contorcervi come spumante che travasa da un bicchiere, leccherò il bordo dall'alto delle mie Muse – colonne sonore immortali pronte a sorreggermi – lasciando che precipitiate sotto forma di vapore alcolico.
Già, la solitudine della vita mi ha reso imbevibile ma soddisfatto, un economico aperitivo analcolico dimenticato su di uno scaffale troppo alto per poter essere raggiunto.

Un giorno forse ci ritroveremo tutti e tre chiusi in una villa a poco prezzo, senza serrature d'uscita o ombre nelle quali nuotare coi nostri braccioli trivellati da pallottole, così finalmente impareremo ad imbustare i nostri sentimenti per regalarceli a vicenda, in modo da sorridere senza timore che un colpo possa frantumare la lingua e attorcigliare i denti, rendendoli simili a pezzi di vetro su un muro.
Allora ci ameremo, ubriachi di felicità dopo esserne rimasti astemi per troppo tempo, fino a non esplodere e disperderci in una galassia diabetica fatta di glassa che scivola aggrappandosi alle nostre pareti; noi, questa volta, non la lasceremo cadere.


Non so quanto ci sia di me. Probabilmente niente, forse è solo il risultato di un'intera mattinata passata a sostenere esami universitari.
Però rileggendo il racconto ho provato compassione per quest'uomo che, effettivamente, meritava la sua rivincita.
   
 
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