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Autore: Seth_    27/04/2016    1 recensioni
Dal testo:
"Lety aveva parlato di come le cose fossero rimaste le stesse anche durante la mia assenza. Di come tutti si erano fatti una ragione del mio improvviso trasferimento. Compreso lui.
Lui, che credevo disperato per la mia perdita, ora stava con una ragazza che nessuno aveva mai visto prima d’ora. Si chiamava Thaira, e secondo la mia "amica", non mi faceva onore. Diceva che si aspettava di meglio, del resto Victor, aveva sempre puntato in alto. A detta sua, lui aveva trovato me, e mi aveva presa. Senza nemmeno chiedere il permesso.
Io smisi di ascoltare a quel punto. Non credevo ad una sola parola di ciò che diceva, ed allo stesso tempo,mi sembrava troppo vero perfino da far male. Sapevo che lui lo avrebbe fatto, prima o poi, ma avevo sempre nascosto a me stessa il perché. Ora mi era chiaro.
Io non ero abbastanza.
E non lo sarei mai stata."
.
.
.
"And everything you love will burn up in the light
And every time I look inside your eyes
You make me wanna die"
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Castiel, La zia/La fata, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
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Show me all the things that Ishouldn't know.
 
 
“L'avvenire ci tormenta il passato ci trattiene il presente ci sfugge”
Gustave Flaubert




Quando aprii gli occhi la mattina avevo un gran mal di testa. 
Francamente non potevo nemmeno lontanamente comprendere quanto cazzo potesse farmi male la testa.

Non ero mai stata così male.

Le ragazze della mia età, o tutte le ragazze normali, avevano malesseri regolari, prendevano la pillola, andavano in discoteca, tradivano il loro ragazzo..
Ma a me non era permesso andare in discoteca.
Io non avevo bisogno di prendere la pillola.

Io non potevo stare male.

Dicevano tutti che ero delicata, ma solo io e qualcun altro sapevamo che non era così. Ero davvero molto resistente. Ero forte, quando volevo esserlo, quando dovevo lottare per la vita.
Per il resto ero la più inutile ed indifesa ragazzina della mia età.
Avevo le mani fredde, come sempre, e le posai sulla fronte bollente, cercando un briciolo di conforto. Era davvero una goduria. La sensazioni delle mie mani gelide che raffreddavano la mia fronte, e della mia fronte che riscaldava le mie mani lentamente.

Avrei voluto rimanere così per sempre.

Ero in diagonale, sul mio letto. I due cuscini erano appoggiati alla testiera in legno, così che la mia testa restasse in alto. Le coperte coprivano solo le gambe, ed indossavo unicamente una maglietta rosa ed un paio di mutande.

Perfetto.
Non mi serviva altro per stare bene.

A parte un corpo maschile di mia conoscenza che mi avrebbe potuta abbracciare e confortare tutta la notte, lasciando baci sul mio casino di testa.

Volevo solo questo.

Dopo anni ed anni di storia e soprusi ingiusti, l'uomo ha raggiunto la brillante idea che ‘il diritto alla felicità’ dovesse essere un diritto indiscutibile. 

Dunque, perché io non potevo essere felice?
Perché non ci riuscivo?
Perché non ne avevo le forze?

Sospirai, spostando la mano dalla mia fronte, e guardando il soffitto della mia camera. Guardavo annoiata quelle stelline fosforescenti colorate, appese al soffitto, constatando che alla luce del sole, non brillassero. Era ovvio.
Ma era ancora più ovvio che io fossi a letto, di mattina tarda, mentre il resto dei ragazzi della mia età erano a scuola ad ‘imparare’.

Mi alzai dal letto cercando la sveglia, sul comodino affianco a dove stavo poltrendo.
Erano le dieci e venti del mattino, e la mia classe, probabilmente, aveva appena visto entrare in classe la professoressa di scienze naturali. Non era male quella donna, ma non mi piaceva nemmeno. 

I denti sporgenti, i capelli crespi, le macchie della vecchiaia sulla pelle e quello strano modo di pronunciare le parole sputacchiando sui quaderni dei disgraziati in primo banco… alias, me e Castiel.

Castiel.

Per un secondo mi chiesi se si stesse annoiando in classe da solo, senza nessuno da tormentare. Forse aveva appoggiato lo zaino sul mio posto, anzi, scuramente lo aveva fatto. Aveva poi fatto passare le cuffiette sotto il felpone grigio, dentro la manica, fino a tenerla nella mano. La prof aveva iniziato a parlare,e lui aveva appoggiato la testa sulla mano, fingendosi interessato, mentre in realtà, ascoltava la musica. Una cosa sicuramente da Castiel.

In quel momento, avrei tanto desiderato vestirmi ed andare a scuola, per non essere sola, per poter stare con lui.

Mi vergognai.
Era per questo motivo che interrompevo i miei pensieri depressi? Per… lui?

Scossi la testa imprecando. Dovevo imparare a diventare più forte, per me stessa, non per gli altri. Non serviva forse a questo il mio ‘esilio’?
Ah no, il mio esilio serviva per ‘imparare la lezione’, una lezione che non serviva imparare perché ero consapevole di ciò che avevo fatto, di quanto grave fosse stato tradire la mia famiglia in quel modo.
Ecco, i sensi di colpa mi tormentavano anche a Le Havre, come non fosse abbastanza.

Mi alzai dal letto, e lentamente, mi comportai come si trattasse di una comune domenica mattina a Le Havre. ''Non pensare a Parigi, non pensare a Parigi'' mi ripetevo mentalmente, pesando inevitabilmente alla mia familiare Parigi.



La domenica mattina mi svegliavo sempre tardi. 
''Non prima delle dieci'' diceva mia mamma il sabato sera, ma io puntualmente, mi svegliavo all’una passata.

Avrei tanto voluto avere un sonno normale, riposato, rifocillatore, ma non era così.
Dopo l’una di notte, i miei genitori crollavano in un sonno davvero pesante, tanto pesante, da non sentire la porta blindata aprirsi e chiudersi.

Chiamavamo l’ascensore, tenendo sotto braccio il cappotto, e le chiavi chiuse, strette, nel pugno della mano destra, mentre con la sinistra, accendevo le luci delle scale.
Abitavo al terzo piano di un condominio a tre scale, ed era difficile passare inosservati di giorno. 

Tutti sapevano tutto di tutti.
Tutti parlavano.
Tutti stavano zitti al momento giusto.

Tenevo le scarpe fuori dalla porta di casa, e le indossavo dentro ascensore, mentre questo raggiungeva il piano zero. 

Mi ero sempre meravigliata della sua lentezza a salire e scendere. Tre minuti totali. Effettivamente, avrei impiegato meno tempo a scendere le scale a piedi, ma avrei fatto molto più rumore, qualcuno avrebbe guardato dallo spioncino, ed avrebbe parlato.

Questo sarebbe poi accaduto un lunedì mattina, il giorno libero di mia mamma, durante il quale il vicino della seconda scala, andò da mia madre e le dirà dove mi ha vista.. Ma prima..

Ero scesa dall’ascensore, ed avevo fatto il corridoio al buio, per evitare che l’accensione della luce svegliasse qualcuno.
Avevo aperto il portone principale cigolante lentamente, ed avevo aperto il cancelletto esterno con il pulsante accanto al portone da cui stavo uscendo.

Guardai la strada.

Le macchine erano rade, ma passavano ancora. 
Ogni volta ci pensavo: ''dove vanno quelle persone? Stanno tornando a casa? Stanno andando via? Non hanno una casa dove tornare? Perché sono fuori a quest’ora?''

Poi però, mi rendevo conto dell’assurdità dei miei pensieri, anche io ero fuori a quell’ora. Perché?
Non dovevo starmene nel mio letto a dormire come tutte le ragazze normali della mia età?

Uscita dal cancelletto guardai a sinistra ed a destra, prima di scendere dal marciapiede ed attraversare la strada, per raggiungere quello della casa di fronte alla mia. 

Girai a sinistra, e percorsi quasi dieci metri, prima di girare a destra, e percorrerne altri cento.

Era una strada normale, tagliata da un cornicione con dell’erba verde florida, illuminata solo dalla luce dei lampioni. Io stavo sul marciapiede di destra, aspettando la macchina rossa che mi sarebbe venuta a prendere.

- Avanti Joe, dove sei? - mi chiedevo camminando. Andai avanti.

Joe mi aveva sempre detto di non aspettarlo in un punto, destava sospetti. 
Perciò dovevo camminare fino a che non lo vedevo arrivare, poi lui avrebbe accostato, ed io sarei salita in macchina.

Quando mi sedetti lo guardai sorridente, come sempre del resto,
lui mi disse mi allacciarmi la cintura, ed io non lo feci.

- Non ti importa di fare un incidente? - mi chiese, io ridacchiai con voce bassa, mi sentivo bella quando lo facevo. Mi sentivo grande.
Lui sbuffò, guardando sempre la strada.
- Se facessimo un incidente, cosa penserebbe il tuo ragazzo? - disse – Se facessi un incidente, cosa penserebbe di te? Perché ti trovavi nella mia macchina? - 
- Penso sarebbe più preoccupato per la mia salute. -
- Ne sei sicura? -

Allacciai la cintura.

- Anche se io indossassi una cintura, non credo che se tu facessi un incidente potrei tornarmene a casa tanto facilmente, sarei ferita, e sarebbe impossibile nascondere l’incidente. -
- Allora scappa di casa - propose lui, e io sorrisi. 

Sarebbe stato bello. 
Non sapevo perché, ma solo l’idea di stare lontana da casa mi rendeva felice. 

– Lascia tutto, scappa di casa, nasconditi dal tuo ragazzo…e spiegagli come ti sei ridotta così. - 

Detto questo stetti zitta per il resto del viaggio. Ecco perché Joe era il capo, ecco perché era Joe a gestire la mia vita, ecco perché era Joe che mi era venuto a prendere in macchina.

Era Joe quello responsabile, io ero solo il suo giocattolo per giocare, quando si annoiava. Quando si sentiva bisognoso di fare la parte del ragazzo adultero e protettivo. Ecco.

Joe era un vulcano dormiente, pericoloso ed esplosivo, ma questo, lo avrei imparato dopo.




Ho sempre avuto la brutta abitudine di fare la doccia calda. 
Talmente tanto calda che quando prendo il sapone per il colpo e lo applico ho una scarica di freddo improvvisa.

Successe anche quella volta.

Ebbi una scarica di freddo tanto forte da far inturgidire la pelle fino alla base della nuca, dove sentii i miei capelli rizzarsi.

Perché i miei capelli dovevano rispecchiare il casino che avevo in testa?

Avevo sempre amato fare la doccia, anche se dopo poco mi si stancavano gambe e braccia, anche se dopo ero costretta ad uscire da quel piacevole torpore e diventare un pezzo di ghiaccio avvolto da un accappatoio verde mentre stavo seduta sul water ad aspettare il nulla.

Seduta sul water, guardavo la macchia scura del tappeto celeste diventare più larga, mentre i miei piedi piccoli si asciugavano diventando gelidi. Tenevo le mani incrociate sotto le ascelle, ed uno stupido turbante bianco a raccogliere l’acqua in eccesso dai capelli.

Mi piaceva stare da sola.

Quando sei da solo non devi rispettare i tempi di nessuno, hai tutto il tempo per te, solo per te.
Puoi fare le tue cose, puoi trovare il tempo per ciò di cui hai davvero bisogno, anche se si tratta solamente di pensieri depressi.

Perché era questo che stavo facendo, no?
Montagne di pensieri depressi. 
Di pensieri depressi che non servivano assolutamente a niente se non a deprimermi di più.
Perché io li avevo già fatti questi pensieri, giusto?



Sentivo un gran caldo, la vista era offuscata ed una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco andava pizzicando la gola.

Volevo vomitare.

Un ragazzo dai capelli neri affianco a me beveva da una stupida lattina vuota.
L’avevo vuotata io.
E faceva strani versi con il culo.
Parlava con il suo vero volto.

Poi c’era una ragazza dai capelli castani, lei rideva sguaiatamente mentre cercava di raccogliere le scarpe cadute per terra.
Aveva messo i tacchi, ma si sa, sui tacchi è difficile camminare, specialmente da ubriachi..
Rideva, e cadeva a carponi, rifacendo il gesto mentre si alzava. Che stupida.

Ed io ridevo.

Non tanto di lei, ma della situazione..
Lei che si era tolta le scarpe per camminare meglio ora vomitava in un angolo, colpa di tutte le volte che si era piegata, ed il ragazzo moro guardava insistentemente il muro affianco alla ragazza, come ci fosse qualcosa di speciale.

Era bianco.
Ed incrostrato di..cacca di piccioni.
Non c’era niente di interessante, ma mi sembrava divertente.
E così ridevo.

Ridevo e sudavo, in pace con me stessa, mentre dimenticavo quanto tutto stesse lentamente andando a puttane.




Asciugavo i capelli a testa in giù, usando il phon al massimo, e fregandomene delle mani che si seccavano, delle punte dei capelli che si spezzavano.
Amavo avere il vento fra i capelli.
Amano ricordare il mio passato squallido quando mi asciugavo i capelli.

Lo faccio tutt’ora.



- Fault, dovrei dirti una cosa - mi disse mia zia, mentre prendevo un biscotto alla cannella dalla teglia. 

Mi girai constatando che quel biscotto mi sarebbe andato di traverso prima o dopo, perché il suo viso era tremendamente cupo, e sembrava pronta a farmi un discorso lungo e stressante, non reagii. 

- Mi hanno offerto una proposta di lavoro a Parigi, ed io dovrei.. Trasferirmi lì se mi prendono. Oppure prendere il treno tutte le mattine ed andare lì. - prese una pausa, mentre mi faceva digerire quelle parole.

Parigi.
Casa mia.
Lei avrebbe dovuto trasferirsi li. 
Ed io con lei. 
Sarei stata maledettamente vicina a casa mia, anzi, forse ci sarei anche tornata. 
Deglutii. 

- Sarebbero due o tre ore di treno.. - disse lei, come per scusarsi, come per farmi capire che ci sarebbe stata un’unica probabile soluzione, la prima che aveva detto.
Temetti il peggio. 

Mia zia capì subito quanto non mi andava di tornare a Parigi.
''In quell’inferno?? Stiamo scherzando?!''

- Però ci sarebbe un signore... Un caro amico che sarebbe disposto a venire tutti i giorni a controllare il tuo stato di salute, a portare la spesa.. -

Mia zia parlava incessantemente delle cose che quest’uomo avrebbe fatto in casa mia.
Mia?
Mia.
La sentivo mia.

Ormai erano mesi che ci abitavo, e mia zia aveva dolcemente sostituito quel vuoto lasciato dai miei genitori. Un solo vuoto era stato colmato, ora si riapriva quella ferita?

- Ma.. Che lavoro vai a fare? Non ce n’è uno qui?-
- Beh.. Sì. Ma a Parigi prenderei il doppio, e potrei permettermi di mantenerti meglio di adesso. -
- Ma adesso sto bene! -
- Oh, piccola Fault. -

''Non sono piccola!'' avrei voluto urlare, 
purtroppo la mia voce non uscì dalla gola, e mi limitai a tenere le labbra serrate.

- Non ho molta scelta… Non c’è nessuno di cui mi fido abbastanza da lasciarti completamente in affidamento. - spiegò - Io domani mattina parto, e vado a vedere il posto… Se tutto va bene dico di si e… Troveremo un modo. - aggiunse.


Misi in bocca il biscotto e masticai, sempre rimanendo appoggiata al mobile della cucina. Perché diavolo doveva farsi tutto più complicato? 

- Perché non credo che tu voglia tornare a Parigi adesso. -

Parigi.
Mi stava offrendo l’opportunità di tornare a casa.
Casa.
La mia vera casa.
Dai genitori che mi avevano gettata tra le braccia di una vecchia zia.
Dalle persone che non vedevo da mesi, che mi avevano sempre guidata verso le strade più tortuose, più buie.
Da Joe, dai soldi che non avevo e che gli dovevo.
Da Victor, e dal suo terribile silenzio.
Dalla memoria.
Dai miei errori.
Dal mio passato.

C’era una possibilità concreta che io potessi riappacificarmi con il mio passato…
Ma lo volevo davvero?
Tutto sommato non mi andava poi così male a Le Havre..
Le Havre era la mia nuova casa, ora.
Ed io non volevo andare da nessun’altra parte.



Tornata in camera e mi sdraiai sul letto, fingendo che la mia pelle ricoperta dalla canotta bianca ed avvolta dai pantaloni grigi della tuta fosse asciutta sicuramente avevo lasciato aloni più scuri dell’acqua sul sedere, ed in mezzo alle cosce. 
Ma ero a casa da sola, e di quello non mi preoccupavo più di tanto.

Mia zia era a Parigi quella mattina.
Da distesa a pancia in su, mi trovai a girarmi su un fianco, mentre infilavo i piedi sotto le coperte, per cercare calore.

Chiusi gli occhi.



Aprii gli occhi, rendendomi conto che il corpo al mio fianco era ancora caldo. 
Mi strinsi di più a quel corpo, ignorando il sudore che iniziava a spuntare fuori.

- Ho caldo. - disse lui. 
Lo ignorai. 
– Ho.. Caldo. - disse di nuovo.

Mi alzai sui gomiti, guardandolo dall’alto, mentre i capelli ricadevano scompostamente sul viso, sulla schiena, accarezzando le braccia…amavo quella sensazione.
- Lo so. - dissi – Ma voglio starti abbracciata. Anche se hai caldo. -
- Non puoi aspettare che il calore passi? -
- Non puoi mettere via Flippy Bird mentre stai a casa della tua ragazza? - sbottai mettendomi seduta. 

Lui serrò le labbra in una linea sottile continuando a giorcare. Affondato.

- Che noiosa. - disse lui sbuffando.

Perché un vetro graffiato è affascinante, mentre un cuore graffiato è da buttare?

Mi sporsi in avanti, strappandogli il telefono dalle mani ed appoggiandolo a terra, sul mio scendiletto indaco, quando tornai a guardare il suo viso, era scuro in volto.

- Sei una scassa palle. -
- Mi hai scelta tu. -
- Mai stata scelta peggiore. - disse con freddezza dandomi la schiena. 

Sentii gli occhi pungermi, per diventare lucidi
- So che mi ami comunque. - dissi ostentando sicurezza.

Come mai non ero poi così sicura? Forse il tradimento di settembre, forse il tradimento di aprile, forse tutti quei cazzo di tradimenti che non dovevano esserci stati, ma che lui aveva compiuto lo stesso?
Ma se voleva altre donne, perché non mi lasciava?

Una parte di me credeva che se ogni volta si fosse scusato credendosi pentito, si sarebbero trattati di piccoli episodi da dimenticare.
Ma io non riuscivo a dimenticarli, non ci riuscivo no.

- Sto scherzando, idiota. - disse lui girandosi di nuovo e guardandomi negli occhi.
Perché i tuoi sembrano così risolti e pacifici? Perché, nonostante tutto, non mi fanno paura?
- Come fai a dire certe cose con… Leggerezza? - chiesi
- Sono bugie, è facile. - spiegò.

Bugie.

Sì, era facile mentire, ma.. 
A me le bugie pesavano. Mi facevano male, mi riempivano il petto di massi che non avrei mai voluto sopportare. Non faceva per me, per niente. Ma non avevo davvero voglia di pensare a tutto ciò che avevo fatto, a tutte le bugie che avevo detto.

Victor sembrò intuire i miei pensieri, perché per uno stupido attimo mi guardò perplesso 
- Tu non menti mai? - chiese, scossi la testa.

Ovvio che si.

- Solo se si tratta del nostro rapporto. - dissi, alludendo alle bugie perpetue che raccontavo ai miei genitori per poterlo incontrare
- A me? Hai mai detto stronzate? - chiese, io scossi la testa.

Sì.
Sì, gli avevo detto una montagna di cazzate. 

Come quella volta che avevo detto che tornavo a casa sempre prima delle sei perché mia mamma era preoccupata per me, quando in realtà passavo da Joe a montare i video.

Come quella volta che spogliandomi aveva visto le gambe interamente ricoperte di lividi, così come le braccia e l’addome, gli avevo spiegato che dei ragazzi, fuori dalla scuola, mi avevano picchiata; invece, era stato proprio Joe a ridurmi in quello stato.

Joe, era colpa sua se mentivo così tanto. Era colpa di ciò che io facevo per lui che non riuscivo a dormire la notte, a stare tranquilla, ad avere paura del buio.
Non avevo più paura del buio, perché avevo paura di qualcos’altro, di qualcuno che mi avrebbe fatto più male di un fantasma, o di uno spettro.

JOE.

Joe era il mio fantasma, il mio spettro, era il mio incubo fatto carne che mi veniva a prendere ogni sera.

- No. - menti, cercai di ignorare la sensazione di fastidio quando vidi Victor prendere in mano il telefono.
C’era qualcosa che avrei potuto fare per attirare la sua attenzione? Una dichiarazione, pensai, cosa c’era di più intimo e puro?
– Perché ti amo.-

Ma io non ero pura, e ciò che facevamo non era più intimo, come le prime volte, sempre se per lui, intime, lo erano mai state.

Lo schermo illuminò il suo volto, e quella fastidiosa musichetta ripartì, insieme al gioco
- Meglio così. - disse lui, io chiusi gli occhi, asciugandomi velocemente una lacrima che era uscita rigandomi la guancia.

Perché faceva così male?

Mi alzai dal letto, superandolo, mentre velocemente mi rivestivo ed andavo in bagno per lavarmi.

- Fault? - mi chiamò dalla mia stanza Vic, io velocemente tornai indietro, sperando in qualche scusa, magari in un momento di dolcezza.

Presi al volo il preservativo chiuso, e lo guardai allibita.
- Dato che sei in piedi, buttalo. - chiarì lui. 

Io feci retro font, con il preservativo annodato in mano. 
Lo buttai nel water, e spinsi il pulsante. 

Presi un grosso respiro, e mi lasciai sfuggire un singhiozzo, per poi soffiarmi il naso energeticamente.
Speravo che con quel rumore, lui non avesse sentito i miei singhiozzi. Perché non avrei mai voluto fargli vedere quanto ero rotta, quanto cazzo stavo male. 

Avrei preferito mille volte vedere lui soffrire. Vedere soffrire lui e Joe. Ed andarmene.

Perché mi dicevo che senza di loro sarei potuta morire, ma poi, pensavo, che sarei potuta morire anche con loro.

Quando ero tornata nella stanza. Victor aveva messo via il cellulare, e guardava curioso alcuni miei disegni.. 

– Ti ho mai detto che sei davvero brava a disegnare? - disse, io annuii. 
Non me lo aveva mai detto chiaramente, però me lo aveva fatto capire, incollando i miei disegni al muro bianco della sua parete, e tappezzandola interamente. 

Sotto la sua parete c’era il letto, dove lui dormiva e suonava. Mi diceva che era quello il posto preferito della stanza, ed era proprio lì che amava suonare, proprio sotto ai miei disegni. 

In un certo senso, mi sentivo davvero lusingata da queste sue parole. Mi facevano sentire importante. Poi però, ripensavo alle ragazze che oltre a me c’erano state in quella stanza, alle ragazze che lui aveva scopato senza pensare al dolore che avrebbe mai potuto causarmi. 

– Vorrei tatuarmi un tuo disegno, un giorno. - disse. 
Io sorrisi sarcasticamente, pensando, che non aveva molto senso ciò che lui mi diceva.

Mi tradiva, scusandosi, per poi rifarlo.

Era sempre stato così, passava da una ragazza all’altra, da un corpo all’altro, da un disegno perfetto ad un altro più perfetto. Sarebbe mai stato in grado di tenersi un mio ricordo, sulla pelle, per il resto della sua vita? Scossi la testa

- I tatuaggi sono permanenti. - dissi, come se non lo sapesse.
- E sarà bello in modo permanente. -
- Dovresti esserne convinto. -

Dissi sedendomi sul mio letto, mentre spostavo i miei capelli su una spalla sola, raccogliendoli in una coda di fortuna. Non avevo affatto voglia di essere bella per lui, non avevo affatto voglia di contare qualcosa per qualcuno che dopo pochi mesi mi avrebbe lasciata.

Ma io avrei lasciato mai lui?
No.

Lo guardai implorante, sapevo che non poteva percepire il flusso dei miei pensieri, ma sapevo anche che un qualsiasi altro essere umano dotato di intelletto avrebbe capito che mi sentivo a pezzi.
E l’unico pezzo di cui mi importava davvero qualcosa se ne fregava di me.

Vorrei ricordare che Victor, quel giorno, mi guardò preoccupato, prendendomi il volto tra le mani mentre mi baciava teneramente. Vorrei ricordarlo, perché forse, era l’unica cosa di cui avevo bisogno al momento. Ma non successe, lui mi guardò determinato, mentre io seguivo la sua stupida idea alzando un sopracciglio.

- Lo sono. - disse con una certa nota di convinzione ed offesa, mentre io mi toglievo sbrigativamente i pantaloni infilandomi di nuovo sotto le coperte. 

Lui pensò, probabilmente, che io non avessi sentito la sua risposta, 
e quindi la ripetè, stavolta con meno convinzione.

Eccola, la crepa che sentivo, la crepa che era stata coperta da montagne di bugie.

Non ne era davvero convinto, lui credeva solamente di poterlo fare, perché si trattava di lui. 
Si sopravvalutava in una maniera così infantile, che mi sarebbe potuto dimostrargli, ritorcendogli contro tutti i suoi tradimenti, quanto si sbagliava.

Lo guardai scettica, sarcastica, e magari anche un po’ inviperita. 
- Terresti un mio disegno sul corpo, per il resto della tua vita? Davvero?! -

Lui aggrottò le sopracciglia, guardandomi stupido ed offeso.
La crepa di allargava.

- Che hai? - chiese quasi oltraggiato. 
Odiavo quel tono di voce. Odiavo quando si rendeva conto di quanto fossi arrabbiata per causa sua, ma lui, piuttosto che cercare di capirmi ed ammettere il suo errore, cercava di capirmi, facendomi capire che era colpa mia se stavo male.

Era colpa mia se me la prendevo così tanto.
Era solo colpa mia.

- Niente. - sbuffai dandogli la schiena, in quel momento non avrei mai voluto ingaggiare uno scontro con lui, solo stare tranquilla a letto, a dormire. Mi sentivo così stanca ed arrabbiata.

Lui aveva alzato di poco il tono di voce, chiedendomi stupidamente il motivo del mio comportamento, ma io avevo scosso le spalle, rispondendo in modo spiccio, veloce. 
Non avevo affatto voglia di averci a che fare. Non era una litigata ciò che stavo cercando.

- E allora perché mi tratti così? - chiese lui tutto d’un tratto, io mi girai alzandomi sulle braccia, mentre lo fissavo truce. Davvero?!
- Tu cos’hai fatto fino ad adesso? - chiesi retoricamente, senza lasciarlo parlare. 

Francamente, trovavo che avesse parlato pure troppo, che mi avesse trattato anche troppo male.
Perché faceva così? Perché faceva così solo con me? Perché era convinto, che alla fine, avrei ceduto? In quell’attimo di rabbia, risposi acidamente, tappandogli la bocca con la mano, per non farlo parlare. 

- Hai giocato con il tuo fottutissimo gioco ignorandomi come niente. Continua pure, ora che voglio solo dormire! - dissi.

Lui mi leccò la mano, ed io in tutta risposta me la pulii su di lui, che mi fece distendere ancora sul letto, posizionandosi sopra di me.

Sapevo come disarcionarlo, ma non lo feci, aspettavo un’uscita brillante, una dichiarazione d’amore, una qualche illuminazione divina. Ma le mie aspettative furono calpestate ancora una volta

- Sei gelosa di un gioco? - disse lui, prima di baciarmi. Io lo lasciai fare, cedendo ancora.
- Ti odio quando fai così. - dissi lasciandolo sorridere, prima di baciarmi ancora, ed ancora, prima di insinuare le sue mani fredde sotto la mia canotta bianca.


Avevo ceduto, e molto probabilmente, non ci sarebbe mai stata l’ultima volta. 
Avrei sempre ceduto per prima, perché di lottare, non avevo la minima intenzione. 
Io lottavo già per la vita, tutte le sere, perché dovevo lottare per l’amore, ora che avevo lui?
Perché lui era mio, giusto? Lui mi apparteneva così come io appartenevo a lui, giusto?




Quando chiusi gli occhi, per qualche minuto, non mi ero affatto accorta di averli tenuti aperti tutto quel tempo. Dopo qualche secondo, decisi di riaprirli, quella sembrava proprio una giornata ‘no’, una di quelle che non fai altro che annaspare tra i ricordi alla ricerca di un attimo di felicità, che però, non ottieni. 

Quando li riaprii, mi resi conto che il mio cellulare vibrava, e che qualcuno bussava alla mia finestra.

Non mi ero accorta di quei rumori, forse perché la mia testa era molto impegnata a soffocarmi con sensi di colpa e momenti di debolezza, cosa che incideva sul casino del mio cuore, che pareva momentaneamente assente.

Dove sei, ora che hai la possibilità di ricominciare?

Mi alzai lentamente dal letto, guardando sbalordita la mia finestra, che aprii subito dopo aver realizzato chi fosse la persona alla mia finestra.
Questo entrò, rovesciando aggraziatamente tutte le cose sulla mia scrivania.

- Ma perché dalla finestra?? - gli chiesi.

Castiel alzò le spalle, chiudendo la finestra dietro di se, mentre poggiava sulla scrivania lo zaino che prima portava su una spalla.

- Al campanello non rispondevi, e quando sono tornato a casa ho realizzato che abbiamo i balconi attaccati. - spiegò. 

Io mi piegai a terra per raccogliere fogli e penne che aveva rovesciato a terra, e lui mi aiutò sistemando il porta gioie, il mio quaderno degli scarabocchi ed il cellulare. 

- Ho rovesciato tutto. - ammise, e io la presi come una sottospecie di scusa, come se mi stesse dicendo ‘scusa se ho rovesciato tutto’, quindi annuii, spiegando che non era successo niente di importante.

Non ancora.







Angolo dell'autrice:

Ciao a tutti!
Chiedo scusa per il mio immenso ritardo, ma ho avuto un sacco da fare con la scuola ed una montagna di problemi da affrontare con i miei compagni di classe. Dunque, spero che il capitolo non sia stato troppo noioso, ma avevo idea di presentare un po’ meglio il passato di Fault, prima di passare a miglior vita iniziare le vere avventure a Le Havre.
Dunque, essendo un capitolo di ricordi sparsi, non vi chiedo di tenere tutto a mente, non sono ricordi particolarmente incisivi sulla vita della protagonista, ma se dovessi raccontarli tutti, credo che la mia testa esploderebbe, quindi, ho messo questi per presentarvi (all’incirca) i personaggi ‘cattivi’ della storia, che sarebbero Joe e Victor. So che non sono stati ben definiti nel capitolo, ma..la verità è che non saprei come definirli. Sono persone reali, che non ho mai ben capito come cazzo avessero intenzione di comportarsi…perciò…questo.
Due persone descritte e mosse in base ai miei ricordi, che possono non rispecchiare fedelmente chi fossero quelle persone nella realtà.

Inoltre, i miei peggiori ricordi di affacciano proprio su un periodo confuso della mia vita. Sono successe uno sfacelo di cose, e non…ricordo molto bene nemmeno io come mi sono trovata in determinate situazioni… questo è quanto; ora, logicamente, capirete perché non ci sarà nessuna descrizione dei due personaggi menzionati prima.
Lascerò che siate voi a descriverli (mentalmente), a dare loro una scheda identificativa.
A presto.

Seth_
 
   
 
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