Anime & Manga > Psychic Detective Yakumo
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Autore: Adeia Di Elferas    30/04/2016    1 recensioni
Yakumo Saito è tormentato dal suo fardello e, ripensando a una conversazione avvenuta la sera prima, si trova a pensare a come uscire dal suo stato d'animo tormentato. Ancora non sa che presto incontrerà una persona che gli cambierà la vita... [Questa storia partecipa al concorso 'Idee in libera uscita' indetto da Meryl watase sul forum di EFP e al suo interno, secondo le regole del concorso, è inserita una citazione di Ganjo Sanzo]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Haruka Ozawa, Kazutoshi Gotou, Yakumo Saito
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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~~ Yakumo si passò una mano sulla fronte, trovandola imperlata di sudore freddo. Fece un respiro profondo e poi si guardò allo specchio.
 Il suo occhio sinistro, non coperto dalla lente a contatto colorata, lo fissava con insistenza. Sembrava volesse ricordargli tutto quello che era e tutto quello che non sarebbe mai stato.
 Abbassò lo sguardo, per non dover più vedere quel cremisi che lo accusava di essere un mostro. Perché lui era esattamente quello: un mostro.
 Aprì il rubinetto, facendo scorrere per un po' l'acqua fresca, prima di sciacquarsi il volto. Aveva passato una notte orribile, preda dei soliti incubi e nemmeno quella sensazione di gelo sulla pelle sembrava riscuoterlo dai suoi pensieri.
 Se sua madre aveva cercato di ucciderlo, la colpa era solo sua. Se sua madre era morta, la colpa era solo sua. Perché lui era un mostro...
 Allungò una mano per prendere l'asciugamano e se lo passò sul viso, tenendolo premuto più a lungo del necessario sul naso e sulla bocca. Quando sentì il fiato mancargli nel petto, lo allontanò e tornò a respirare.
 Come sarebbe stato, passare dall'altro lato?
 Si guardò ancora allo specchio e trovò sempre il suo occhio rosso che lo fissava. La sua condanna, il suo tormento.
 Afferrò la scatolina contenente la lente a contatto e si mise a trafficare per coprire, come faceva ogni santo giorno, quel suo segno di colpevolezza.
 Quell'occhio rosso era la sua croce, la penitenza che avrebbe dovuto scontare tutta la vita, per espiare tutte le sue colpe.
 Giusto il giorno prima aveva litigato con Gotou. Si erano incontrati in un locale, per discutere di una caso che avevano appena risolto e il poliziotto aveva alzato troppo il gomito.
 Yakumo non era di buon umore, come suo solito, e Gotou non riusciva a sopportare la sua mestizia, perciò aveva finito per rimbrottarlo: “Ho sentito dire che per il rosso è il colore della penitenza.” gli aveva detto, alzando il bicchiere e guardandolo attraverso lo spettro ocra del cognac: “Penitenza decisa da chi?”
 Yakumo avrebbe voluto troncare subito la discussione, ma non sapeva come far tacere un ubriaco.
 Così il poliziotto aveva proseguito: “Dio?” e lo aveva fissato con gli occhi sgranati, come aspettandosi davvero una risposta.
 Dato che il ragazzo taceva, Gotou aveva fatto un sorrisetto amaro: “Dio non salva nessuno, ricordatelo. Tu sei l'unico in grado di salvare te stesso!” e fece segno al barista di riempirgli di nuovo il bicchiere che nel frattempo aveva svuotato in un unico colpo: “Sei libero di morire. È una buona via di fuga. Nel caso tu morissi, le cose resterebbero immutate. Se invece tu decidessi di vivere, qualcosa potrebbe cambiare.”
 Per fortuna, con quell'ultima frase, Gotou aveva esaurito la sua vena filosofica e si era rimesso a parlare del caso appena risolto.
 Tuttavia, quella mattina, Yakumo continuava a tornare con la memoria alle parole di quello strano uomo che l'aveva salvato tanti anni addietro. Perché l'aveva fatto?
 Doveva lasciarlo morire. Sarebbe stato meglio per tutti.
 Forse le sue parole da ubriaco erano più vere di qualunque altra cosa. Se Yakumo fosse morto, il mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui. Anzi, forse sarebbe andato avanti meglio.
 Guardò l'orologio. Si era fatto più tardo del previsto. Presto sarebbero arrivati i due polli da spennare e ancora doveva vestirsi...

 Yakumo stava mescolando il mazzo di carte, annoiato. Esisteva qualcosa di più triste e inutile che non prendere per i fondelli due ragazzi stupidi e creduloni come quelli?
 Le carte passavano nelle sue mani a velocità impressionante e, appena appoggiò il mazzo sul tavolo per cominciare il suo numero, un rumore improvviso catturò la sua attenzione e quella dei due ingenui clienti.
 La maniglia della porta si era abbassata e una voce aveva esclamato: “Scusate! Permesso...”
 Yakumo rimase immobile, limitandosi a tamburellare con il dito contro il tavolo, mentre uno dei due idioti chiedeva: “Saito... Chi è questa ragazza?”
 Yakumo mantenne la sua espressione indolente, benché in realtà fosse incuriosito dalla nuova arrivata.
 “Scusa... Tu sei Yakumo Saito, vero?” chiese la ragazza, con un'urgenza particolare nella voce.
 Yakumo annuì: “Esatto.”
 “Ecco... Sono qui perché avrei bisogno del tuo aiuto e...” cominciò la ragazza, sistemandosi la borsa sulla spalla.
 Yakumo la zittì: “Ti spiacerebbe levarti dalla porta? Se resti lì mi deconcentri. Siediti... Là, su quella sedia.”
 La ragazza eseguì e Yakumo si sentì libero di riprendere con la sua truffa, anche se ormai la sua mente era occupata solo dalla curiosità di sapere cosa mai volesse quella strana tizia.
 
 Ecco, l'aveva fatta piangere. Aveva voluto convincerla che era tutto vero, che poteva vedere i fantasmi, e l'aveva fatta scappare in lacrime dalla stanza...
 Che condanna era mai, la sua?
 Perché non faceva altro che seminare il dolore e la disperazione? Perché doveva rovinare tutto quello che sfiorava?
 Yakumo appoggiò i gomiti sul tavolo, premendosi i palmi delle mani sugli occhi.
 Aveva sentito il bisogno di dirle che il fantasma della sua sorellina era lì. Le aveva dovuto dire che era stata lei a nascondere l'anello della loro madre nel portascarpe... Aveva sentito la necessità di dirle che sua sorella non la odiava e che si scusava con lei...
 In fondo erano cose positive, erano sentimenti di perdono, di comprensione...!
 Aveva ragione Gotou: il rosso era per lui il colore della penitenza. Dio non lo avrebbe salvato, perché era stato proprio lui a marchiarlo a quel modo...
 Dio non salva nessuno, quella era la verità. Perché mai avrebbe dovuto salvare proprio lui?
 Gotou glielo aveva detto chiaro e tondo: poteva salvarsi solo da solo, senza contare su nessuno, nemmeno su Dio.
 Poteva solo levarsi di mezzo, togliendosi la vita e liberando il mondo da un mostro, o provare a usare quella sua condanna per aiutare chi ne aveva bisogno.
 Per scaricare la tensione, Yakumo afferrò la banconota che gli aveva dato quella strana ragazza e cominciò a fare un aeroplanino.
 Giurò a se stesso che, se quella fosse tornata, avrebbe fatto del suo meglio per aiutarla. Sentiva che era l'unico modo per sentirsi meglio, meno in colpa.
 Mentre faceva l'ultima piega nella carta, dei passi rapidi in corridoio catturarono la sua attenzione e in pochi secondi rivide il volto di Haruka Ozawa affacciarsi alla sua porta.
 “Sait...” iniziò a dire la ragazza, ma la voce le si fermò in gola, perché Yakumo le aveva lanciato contro il suo aeroplanino, in un gesto infantile e forse discutibile.
 “Cosa stai facendo?” chiese Haruka, interdetta.
 “Passavo il tempo... Mentre ti aspettavo...” rispose Yakumo, con voce strascicata: “Sapevo che saresti tornata...”
 

   
 
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