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Autore: Drops of Neverland    30/04/2016    5 recensioni
Johnlock | Teen!Lock | Alternative Universe
AU: John e Sherlock sono migliori amici al liceo, poi si perdono di vista.
Sherlock Holmes si trova ad una stupida riunione di classe con i suoi stupidi ex-compagni di classe, che rivede per la prima volta dopo vent'anni. Ora è quello che ha sempre voluto essere, il primo consulente investigatuvo al mondo, eppure quando si ritrova con le vecchie compagnia nulla sembra cambiato; è ancora lo strano, l'escluso di cui prendersi in giro. L'unica nota positiva della serata è che, forse, potrà rivedere John Watson, il suo migliore amico del liceo, e forse qualcosa di più, perso di vista dopo la scuola.
Una fanfiction che si alterna tra il 2014 e il 1994, una Teen!Lock tutta Johnlock, che esplorerà il rapporto di Sherlock e John durante il liceo e, nel frattempo, vedrà il ricontrarsi dopo vent'anni.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Classe 1994
Chapter 3 - #still
Riunione di Classe
Londra, 27 Novembre 2014
 
Sherlock svoltò l’angolo di uno dei numerosi corridoi che conosceva così bene. Dall’ultima volta che era stato lì era passato così tanto tempo. Si ritrovò davanti alla solita maniglia di legno lucida. Tutto lì dentro era pulito e lustrato fino all’ultimo dettaglio. Almeno quel posto era ordinato, e con estrema cura, a dirla tutta. Sherlock avrebbe saputo ritrovare qualsiasi cosa lì in poco tempo. Ovviamente, il tempo era relativo. Quelli che per lui erano pochi secondi, al massimo pochi minuti, scopriva sempre essere ore per gli altri.
E lo scuotevano urlando il suo nome, con rabbia, tristezza, paura, perché c’erano state delle volte in cui non era riuscito a trovare l’uscita di quel posto.
In quel momento chiuse gli occhi e afferrò la maniglia, entrando di getto nella stanza, non pensando a cosa ci avrebbe trovato. Eppure eccoli lì tutti quei ricordi, un tornado che lo avvolse, gettandolo a terra, quasi cercando vendetta per tutto il tempo in cui Sherlock aveva fatto finta di dimenticarlo, chiudendo i suoi ricordi del liceo nell’anfratto più buio e lontano del suo Palazzo Mentale. Ma ecco che si ribellavano, si rinfrescavano, ecco che tutti quei volti familiari lo costringevano a scendere laggiù, a ricordare. Il dolore che lo colpì nel petto non era neanche paragonabile ad una pallottola, che aveva già sperimentato una volta in vita sua. Era più profondo, più aggressivo. Era un dolore emotivo che non riusciva a contrastare, che lo sommergeva e lo annegava, e i polmoni esplodevano, il cuore implodeva.
John, resta, ti prego, resta, resta, resta…
 
*
Casa Watson
Londra, 27 novembre 2014
 
John Watson si accorse subito di quanto fosse cambiata la sua casa nel corso degli anni. L’aveva ereditata dai suoi genitori, quando si erano trasferiti anni fa. Sembrava che l’abitazione avesse deciso di smettere di rincorrere il tempo,  che si fosse semplicemente arresa alla verità: il mondo andava avanti senza di lei. John in cuor suo sapeva come ci si sentiva.
Il bastone stretto in mano, a sorreggerlo nonostante non avesse neanche un quarantina d’anni, ne era la prova. Era sempre lì per ricordargli che il mondo era andato avanti mentre lui era in guerra, a farsi sparare per delle persone di cui preferiva il ricordo che aveva di loro durante la guerra. In battaglia, la vita da civile sembrava così… semplice. Aveva scordato i continui litigi con sua sorella Harry, le persone scortesi per strada e la noia che puntualmente lo assaliva alla sera, dopo un’altra lunga, estenuante giornata di quotidianità.
Sedeva sul letto, lo sguardo perso nel vuoto. Lui non pensava a niente di particolare, ma i pensieri  lo travolgevano, come sempre.
Eccolo lì, l’ennesimo cadavere, sporco di terra e di sangue nero. Il caschetto mimetico a pochi metri da lui, rotolato lì probabilmente dopo la caduta del cadavere. Un solo foro, una sola pallottola. Aveva avuto sfortuna, e John non era arrivato lì in tempo. Avrebbe potuto fermare l’emorragia e salvare quella vita umana. Invece era stato troppo lento, e ora la famiglia del soldato piangeva lacrime amare, rimpiangendo le ultime parole mai dette e il cadavere tenuto nascosto alla loro vista. Eppure era solo uno dei numerosi caduti di guerra. La storia si ripeteva sempre, inesorabilmente. E John si era chiesto più di una volta se la sua famiglia l’avrebbe rimpianto così, se a qualcuno sarebbe mancato, se qualcuno si sarebbe mai strutto sopra il suo cadavere senza vita.
Scosse la testa, piano. Si stropicciò il viso sbuffando, doveva necessariamente allontanare quei pensiero, o avrebbe ricevuto una lavata di capo dalla sua psicanalista. Guardò l’orario sul cellulare. Le 19.30.
John sapeva che riunione di classe era quella sera – lo aveva avvertito Mike Stamford qualche giorno prima, incontrato per caso in un parco. Lo aveva accusato di non aver mantenuto i contatti con nessuno dei suoi vecchi compagni di classe. John si chiese come poteva biasimarlo.
Fino a quel momento non aveva avuto intenzioni di andarci. Non ne aveva voglia e non si sentiva in vena. E poi, rivedere i suoi compagni di scuola? No, grazie. Aveva chiuso per sempre quel capitolo della sua vita, inutile ritentarci. Nonostante fosse sempre stato considerato uno popolare non aveva ricordi troppo piacevoli. O meglio sì, erano piacevoli, ma confusionali. Erano passati vent’anni, e lui non aveva fatto altro che scappare dai quei ricordi, cercando di non dover mai fare i conti con tutto quello che era successo. La sua mente si era ormai abituata a non pensarci. In guerra, aveva completamente rimosso quei ricordi. Non aveva tempo per il suo io interiore in Afghanistan, ed era riuscito a passare mesi senza che certi pensieri gli tornassero in mente. Da quando era tornato alla vita civile lì a Londra cercava di pensare a cosa succedeva nel mondo esterno, e non cosa succedeva dentro di lui, i pensieri erano tornato a tormentarlo.
Vent’anni. Dio, lottava davvero con quei pensieri da venti, lunghissimi anni? Certo, c’erano stati dei periodi di stacco (la guerra, e qualche fidanzata) durante i quali quei pensieri non si azzardavano neanche a disturbarlo. Ma tornavano sempre a bussare, ad alloggiare nella sua mente cercando di attirare l’attenzione. Niente era stato mai alla sua altezza. In tutti i sensi possibili. E John non vedeva l’ora di tornare in cima.
“Al diavolo” pensò “andrò a quella dannata riunione di classe”.
 
*
Riunione di Classe
Londra, 27 Novembre 2014
 
Sherlock non aveva idea di dove si trovasse, o di che giorno fosse, o di come fosse arrivato lì. Non gli importava granché, a dire il vero. Avvertiva qualcosa di molto comodo e morbido sotto di lui. Un materasso? Una coperta? Forse era in uno di quei covi dove le persone come lui si incontravano. Era decisamente possibile, a pensarci bene. Non sarebbe stata la prima volta, e probabilmente neanche l’ultima. A volte gli succedeva: si risvegliava in uno di quei posti, magari un magazzino abbandonato o un vecchio edificio di cui nessuno si curava più, in mezzo a persone che non conosceva, nella sua stessa condizione, se non peggiore, senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Era quasi abituato. Quasi. Del resto, era maledettamente inglese, e non avrebbe mai rinunciato al suo lungo cappotto scuro e alla sua sciarpa blu, alla sua poltrona e al 221B di Baker Street. Il suo lavoro veniva prima di tutto, era la sola cosa che davvero amasse, insieme al suo intelletto. Qualche volta, però, una pausa da Londra e dalla  sua vita gli serviva, per ragionare su qualche caso, o per dimenticarsi della sua costante tristezza.
Decise che non avrebbe aperto gli occhi. Di solito era la prima cosa che faceva, per rendersi conto della situazione e cercare di ricordarsi qualcosa. Normalmente la memoria gli tornava dopo un quarto d’ora o giù di lì. Sherlock la reputava una cosa totalmente inutile: deduceva cos’era successo sempre prima che la memoria gli tornasse, e non sbagliava mai.
Si sentì chiamare da una voce lontana, ovattata. Chi poteva essere? Raramente altri drogati avevano voglia di fare due chiacchiere, a meno che non fossero per racimolare qualche altro grammo di sostanze stupefacenti, e finivano sempre tutti per fare a botte.
Sherlock decise che non avrebbe risposto.
« Sherlock? Sherlock Holmes? ».
Aveva detto Sherlock. Quello lì non era il nome che usava normalmente in quelle occasioni. Shesar. Avrebbe dovuto chiamarlo Shesar. Ebbe paura, per un attimo, che Mycroft o che Lestrade l’avessero trovato, e sperò vivamente di no, perché non era proprio in vena di una ramanzina.
Quando decise finalmente di aprire un occhio, dopo quella che gli sembrò un’eternità, tutta la verità gli piombò addosso, e si ricordò improvvisamente ciò che era davvero successo. Si agitò per un attimo, rendendosi conto che in effetti quello non era un materasso buttato per terra in qualche edificio abbandonato, ma il divano nella casa di un qualche suo ex compagno di scuola. Perse l’equilibrio, e cadde malamente dal sofà, atterrando sulla schiena. Il colpo gli tolse il fiato.
L’unica cosa che riuscì a pensare  fu che lui era Sherlock Holmes, e aveva appena fatto la più idiota delle cadute difronte a qualche suo compagno di classe infinitamente più idiota.
Si risollevò sul divano su cui pochi secondi prima giaceva a fatica. Era decisamente frustrato, non gli andava giù che qualche imbecille, vedendolo dormire, l’avesse svegliato. E per cosa, poi? Perché andavano a scuola insieme, vent’anni prima.
“Forse vuole semplicemente prendermi in giro” pensò, mentre  si lasciava cadere sul divano a occhi chiusi, con un certo sollievo “Mi prenderà in giro per un po’, e poi se ne andrà. Come hanno sempre fatto”.
Sherlock non rimaneva mai spiazzato, mai. Tranne che quella volta, quando alzò lo sguardo, e vide John Watson, vent’anni più  vecchio, con un bastone a sorreggerlo, con un sorriso timido sul volto.
« Sto sorridendo, ma solo perché sono ancora, terribilmente arrabbiato con te, nonostante siano passati troppi dannati anni ».
Il suo volto, solcato dalle lievi rughe di chi ha visto troppo, era un tornado di emozioni, che si susseguivano l’una dopo l’altra veloci: gioia, malinconia, rabbia. Sherlock non poteva biasimarlo; lui stesso non sapeva cosa provare, o come sentirsi.
« John Watson, sei invecchiato senza di me » disse, lanciandogli uno sguardo scrutatore. Vent’anni prima non avrebbe mai immaginato che sarebbe potuto succedere, e solo ora si accorgeva che era una realtà. Durante quel lasso di tempo, aveva sempre immaginato che avrebbe rincontrato John, un giorno, e lui sarebbe stato ancora un ragazzino con l’uniforme, i capelli biondi pettinati con il solito ciuffo a destra e gli occhi marroni pieni di vita.
« Tu non sei cambiato di una virgola. E neanche le tue abitudini, a quanto vedo » lo squadrò da capo a piedi, con il solito vecchio sguardo preoccupato.
« Il mio dottore preferito si è preso una pausa, negl’ultimi vent’anni ».
« Oh, non fare il sentimentale » rispose John.
« Sei tu quello ancora arrabbiato ».
« Ti ho mandato delle lettere, Sherlock, per anni. Ti ho chiesto di incontrarci. Ho scritto data e luogo, e tu non sei mai venuto » il rancore nella sua voce spinse Sherlock a spostare lo sguardo. Sperava vivamente che si fosse dimenticato di tutto quello che era successo.
« Ti ho scritto delle lettere per i primi cinque anni di servizio militare. E tu non mi hai mai risposto. Ti ho cercato, quando sono tornato a Londra, ma nessuno sapeva dove fossi. Non sei mai venuto agli incontri di cui ti avevo scritto e lo sapevi, lo sapevi, dannazione, che potevo tornare a Londra raramente. E che volevo poter passare quei pochi giorni all’anno con te. Non hai mai voluto vedermi ».
« Potrei non aver mai ricevuto quelle lettere, per quanto ne sai » Non avrebbe dovuto comportarsi così. Stava rovinando tutto, di nuovo. Lui rovinava sempre tutto.
« Non devi dire - » John si fermò, cercando di calmarsi « so che le hai ricevute ».
Sherlock fece l’unica cosa che gli sembrò ragionevole: si alzò dal divano e con un pardon uscì dalla stanza, attraversò il corridoio e tornò in salotto, in mezzo alla gente.
Immaginò che John lo stesse seguendo, per chiedere spiegazioni, o magari per fermarlo e cercare di continuare la conversazione.
Si affiancò a Mike, che sembrò alquanto sollevato nel vederlo « Sherlock! » esclamò « Sei sparito per quaranta minuti, pensavamo che te ne fossi andato senza dire niente ».
« Pensavamo? » Ripeté lui, scettico.
« Be’, pensavo. Comunque, non mi avrebbe sorpreso ».
« Ovviamente ».
Mike spostò il peso da un piede all’altro, altalenante. Sherlock dedusse che era nervoso e, da come lo guardava, quasi non vedeva l’ora di chiedergli qualcosa. Era evidentemente stato lui a dire a John Watson che sì, Sherlock era lì quella sera ma che no, non sapeva dove si trovasse in quel momento. Doveva averlo mandato a cercarlo. Del resto, Mike si ricordava dell’amicizia che c’era stata tra lui e John ai tempi della scuola, dei migliori amici che finivano nei guai insieme, e che puntualmente venivano umiliati dal preside davanti a tutta la scuola.
“Oh, non prendiamoci in giro”, pensò Sherlock “nessuno si dimenticherà del divertimento quotidiano fornito da quel bastardo del preside Atkins a spese di noi due… di me e Watson”.
« Prima che tu mi chieda qualunque cosa » sospirò, frustrato « ho parlato con John ».
« E? » chiese Mike, la voce tesa.
Sherlock non rispose, aspettando di veder comparire la bassa immagine di John di lì a poco. Le sue aspettative non vennero deluse, e John fece il suo ingresso nella stanza, zoppicante, con il bastone in mano e un’espressione contrariata sul viso. Si diresse verso di loro.
« Ammetto di averle ho ricevute » disse Sherlock, mentre il suo sguardo si poggiava su di lui « e smettila di utilizzare quel bastone, è solo una ferita psicosomatica. Anche se forse, in un certo senso, ne avresti il diritto, essendo stato sparato in Afghanistan. Ma oh, tu hai sempre amato questo genere di cose, come dimostra il fatto che il tuo migliore amico è un sociopatico iperattivo ».
« Lo era. Vent’anni fa ».
« Lo è tutt’oggi ».
« Come fai a sapere che non ne ho uno nuovo? Un soldato, magari? ».
« Lo so e basta. E lo sai anche tu ».

Mike seguiva quello scambio di battute così familiare, nascondendo un sorriso.
salve!
non so se si capisca qualcosa,
ma ce l'ho fatta. che bella la vita.

sono senza internet, per giunta,
sto rubando hotspot a mio padre
(con il computer già).

sarò veloce: spero che siate riusciti
a capire qualcosa, che vi sia

piaciuto e che recensirete!
risponderò a tutte le recensioni

non appena avrò wifi
sono senza 3G, tra l'altro, sigh.

miss neverland

 
  
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