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Autore: Hermione Weasley    01/05/2016    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 30
~

 

Ormai andava avanti per inerzia da almeno un paio d'ore. Il freddo intenso arrivava fin dentro la serra mischiandosi all'umidità soffocante delle piante che vi erano state disordinatamente ammucchiate.

La pala si tuffava nella terra e ne strappava via un cumulo ad ogni affondo. Piccoli rilievi montuosi gli si erano formati tutt'intorno e, senza accorgersene, aveva continuato a scendere e scendere e scendere...

I muscoli gli bruciavano da un pezzo e la sensazione di far fatica a respirare era andata peggiorando di minuto in minuto, ma ormai era diventato parte di quel meccanismo ben oliato: infila, ritira, getta, infila, ritira, getta, infila, ritira, getta. Se si fosse fermato anche solo per riposarsi qualche minuto, non avrebbe più avuto la forza di ricominciare e, dopotutto, avere qualcosa di concreto da fare l'aiutava a non impantanarsi nelle paludi dei propri pensieri.

“Signor Barton-Coulson?”

La voce parve arrivare da terre lontanissime e di certo non aiutava che il fazzoletto che si era messo davanti naso e bocca, per non respirare troppa terra, gli coprisse in parte anche l'orecchio sano. Ma c'era solo una persona che lo chiamava così e il dubbio fu presto sciolto e sostituito da una schiacciante consapevolezza.

“Che c'è, Bates?”

Non rialzò il capo per guardare in viso il maggiordomo, né rallentò i movimenti.

“Lord Coulson vorrebbe che faceste una pausa per scambiare due parole con voi,” asserì con la sua voce nasale. Faceva una fatica immensa a trattenere il disappunto che quello scenario da cataclisma naturale gli provocava: la serra appena costruita e già invasa da un formicaio di muratori e carpentieri che si divertivano a smembrarla era uno spettacolo che non lo aggradava per niente.

“Sono a posto,” lo rassicurò.

“Lord Coulson insiste, dice che gli uomini possono cavarsela da soli per un po'.”

“Ti dico che sto bene, Bates,” ripeté. Perché cavolo gli importava tanto?

“Signor Barton-Coulson,” aveva assunto il suo solito tono da predicatore infervorato sul pulpito, “mi vedo costretto a ripetervelo.”

“Ho capito perfettamente quello che hai detto.”

“Evidentemente no, signor Barton-Coulson.”

Arrestò di colpo i movimenti senza neanche accorgersene, giusto per raddrizzare il capo e lanciare un'occhiata allucinata in direzione del petulante maggiordomo. Ma gli bastò registrare la luce di trionfo che gli aveva illuminato gli occhi perché la consapevolezza di essere stato convinto gli scendesse fin nello stomaco. E nella schiena che gli faceva un male del diavolo, nei muscoli delle braccia che pulsavano disperati, e in tutti gli acciacchi che ad uno ad uno riaffiorarono impietosamente alla sua coscienza.

“E va bene,” si arrese e gettò la pala oltre la buca in cui si era letteralmente andato a scavare.

Risalirla fu impresa più delicata del previsto, ma l'assoluta necessità di non fare la figura del coglione sotto gli occhi severi di Bates ebbe la meglio. Si rialzò alla meno peggio, le vertebre che scrocchiarono dolorosamente e il collo indolenzito dal troppo piegarsi.

Il maggiordomo gli lanciò un'occhiata di mal trattenuto disgusto e Clint non poté far altro che scrollarsi di dosso la terra che gli s'era appiccicata ai pantaloni, alla camicia, agli stivali, persino ai capelli.

“Che ti aspettavi?” Gli chiese, abbandonando i guanti da lavoro su uno dei tanti tavolacci sparsi per la serra.

“Non capisco di che cosa stiate parlando, signor Barton-Coulson,” negò educatamente Bates.

“Parlo del fatto che non si può scavare una buca senza sporcarsi,” precisò mentre si strappava il fazzoletto legato dietro la testa e tornava finalmente a respirare a pieni polmoni.

“Magari un uomo del vostro rango non dovrebbe scavare buche,” ribatté compunto l'altro.

A Clint venne inspiegabilmente da ridere, ma si trattenne in qualche modo.

“Caro, vecchio Bates. Sempre una spiegazione per tutto,” gli passò un braccio attorno alle spalle col preciso intento di scatenare il suo ribrezzo e lo trascinò fuori dalla serra, “latte ed etichetta quand'eri bambino.”

“Quello che dite non ha alcun senso, signor Barton-Coulson,” si districò dalla sua presa con tutto il tatto di cui fu capace. “Vado ad avvisare lord Coulson che vi siete deciso a vedere ragione.”

Clint lo congedò con un rapido cenno della mano e rimase a guardarlo mentre si allontanava in tutta fretta attraverso il sentiero che i lavoratori avevano aperto nella neve che si era inghiottita la collina.

Gettò il capo all'indietro e inspirò a fondo l'aria gelida di quel mattino invernale, riempiendosi gli occhi del cielo bianchissimo che pareva essere fatto di vetro, dei voli ordinati di rari uccelli.

Aveva dimenticato il cappotto nella serra, ma gli faceva troppa fatica tornare indietro a prenderlo. Si avviò lungo il percorso scavato tra i cumuli candidi, abbracciando con lo sguardo la campagna immersa nell'immobilità dell'inverno.

La temperatura era scesa più del previsto e le nevicate si erano susseguite copiose e numerose per svariati giorni. Clint aveva trascorso la maggior parte del suo tempo insieme a Kate, ad aiutare a preparare e sistemare le case più povere del villaggio per la stagione che si prospettava aspra e rigida. Quando il grosso del lavoro in paese era stato fatto, era passato ad aiutare gli uomini impegnati nella costruzione della serra, sorta nel bel mezzo del giardino di villa Coulson per volere del suo proprietario.

Lord Phillip era stato lontano da casa per circa un mese, presumibilmente per affari legati all'ordine dello Scudo. Era tornato che l'autunno stava ormai concludendosi, con i piani per l'edificazione della serra sottobraccio e quelli che riguardavano lo scavo dei cunicoli sotterranei ben nascosti nella doppia cucitura della giamberga.

Così Clint aveva appreso che c'era un vecchio labirinto di passaggi che sottostavano alla villa, un vecchio sistema di sicurezza ideato dai Coulson almeno trecento anni prima, per sfuggire ad eventuali rivolte contadine o a persecuzioni e rappresaglie di vario genere. I cunicoli erano poi caduti in disuso e dimenticati finché lord Phillip non aveva deciso di proporne lo sfruttamento per la fondazione di una nuova sede dello Scudo.

Gli avvenimenti dell'estate avevano convinto i membri dell'ordine che nessuno dei quartier generali usati fino ad allora era da considerarsi sufficientemente affidabile. Per quel che ne sapevano la lega dell'Idra poteva averne scoperto l'ubicazione, magari strappando la confessione ad un agente fatto prigioniero. Certo, c'era la possibilità che si trattasse di precauzioni troppo drastiche per le reali circostanze in cui si trovavano, ma nessuno aveva voluto contraddire lady Carter: meglio troppa cautela che troppo poca.

La serra sarebbe dovuta servire come copertura per non insospettire i contadini che ignari continuavano a lavorare i campi per prepararli alla buona stagione. I pannelli di vetro opaco non nascondevano del tutto gli uomini alla vista, ma lasciavano intravedere quel tanto che bastava perché da fuori ci si persuadesse che erano solo dei manovali particolarmente zelanti che si occupavano di esaudire uno dei soliti capricci del padrone. A che cosa serviva una serra, dopotutto? Ci si mangiava? Ci si potevano crescere le piante anche in pieno inverno? O era utile solo a far nascere fiori esotici e variopinti che non avrebbero avuto alcuna utilità? Stramberie da ricchi, ecco tutto.

Dalla serra sarebbero stati scavati nuovi tunnel che si sarebbero ricollegati a quelli già esistenti e delle cui condizioni ci si doveva ancora sincerare. L'accesso che dava sulle cantine della villa, infatti, era crollato molto tempo prima e poi sigillato in epoca più recente. Quando il labirinto sotterraneo sarebbe stato riabilitato, i passaggi li avrebbero condotti fino ad una piccola fortezza diroccata, anch'essa caduta in disuso da svariate decadi. Da lì lord Phillip e i membri dell'ordine assegnati alla regione avrebbero vegliato sui territori circostanti.

Si arrestò davanti alla doppia scalinata dell'ingresso e si voltò per far scorrere lo sguardo tutt'intorno. Il bianco aveva sommerso grandi appezzamenti di terreno, mentre il viale che conduceva alla villa era ancora ridotto ad un pantano, rendendo i viaggi in carrozza disagevoli e quelli a cavallo perigliosi. Gli alberi che costeggiavano la strada avevano perso tutte le foglie e adesso assomigliavano a mani scheletriche che emergevano dal terreno per ghermire qualche cosa di invisibile, in alto nel cielo.

Rabbrividì per il freddo intenso e strofinò le mani l'una contro l'altra prima di passarsele sulle guance ispide di barba. Decise di prendere l'entrata secondaria che dava sulle cucine per non sporcare le scalinate e far venire un colpo di cuore al povero Bates, che era sicuramente da qualche parte a disperarsi per gli stivali motosi di quell'irresponsabile del signor Barton-Coulson.

Rise tra sé perché l'appellativo continuava a risuonargli ridicolo, come appartenesse ad uno che non era lui, ma al massimo la sua versione pomposa, pretenziosa e altolocata. Il signor Barton-Coulson amava mettere folte parrucche incipriate e indossare calze di seta, probabilmente.

Abbandonò gli stivali sporchi accanto al piccolo portoncino chiuso e intanto bussò un paio di volte. Venne la cuoca ad aprire, lanciandogli un'occhiata perplessa per le condizioni in cui versava, ma senza osare dirgli alcunché.

“Vi andrebbe una tazza di cioccolata calda, signore?” Gli offrì invece.

“Non adesso, ma grazie.” Le rivolse un mezzo inchino che la strappò per un istante alla sua affaccendata serietà e infine si allontanò per imboccare le scale che portavano agli appartamenti dei domestici.

Incrociò uno dei valletti che si fermò per farlo passare, dopodiché deviò verso la porta nascosta che l'avrebbe riammesso nei corridoi della villa. Bates non gli aveva detto dove lord Phillip lo stesse aspettando, ma Clint si diresse a passo sicuro verso il salotto. Essendo dotato di ben due caminetti accesi giorno e notte, era quella la stanza più calda della villa e di conseguenza anche la più trafficata durante l'inverno.

Si era aspettato di trovare il padre adottivo seduto nella sua poltrona preferita accanto al fuoco, infreddolito e col naso rosso per il raffreddore che si era preso durante il viaggio e che non aveva voluto proprio sentirne di lasciarlo in pace; ma la poltrona era vuota.

Si fermò sulla soglia quando la figura immobile sotto un ritratto, che – ahimè – conosceva troppo bene, entrò nel suo campo visivo. Indossava un lungo mantello nero su cui spiccava il rosso acceso della treccia spettinata.

Gli sembrò quasi che un calore improvviso gli si stesse spingendo a forza nelle estremità intorpidite dal freddo, facendogli formicolare le dita delle mani, quelle dei piedi, le guance, le orecchie, persino la punta del naso... e altre appendici che al momento non aveva esattamente voglia di prendere in considerazione.

“E'... interessante.”

La sua voce gli fece un effetto persino peggiore: non era riuscito a respingere il pensiero della donna in un remoto angolo della sua testa, a soffocarlo tra lavori manuali e sfiancanti, a seppellirlo nella preoccupazione per gli abitanti del villaggio esposti al freddo e alle intemperie – non era di certo riuscito a respingerlo pensando ogni giorno e ogni notte alla sua maledetta voce. Si era sforzato di dimenticarla finché ce ne fosse stato bisogno, e adesso eccola lì che tornava a riempirgli le orecchie – perché persino quello sordo sembrava in qualche modo capace di sentirla – e a ricordargli perché era stato tutto perfettamente inutile.

Natasha non sorrideva, ma si limitava a sostenere il suo sguardo, come per concedergli il tempo di abituarsi alla sua presenza. Il freddo le aveva arrossato le guance e reso più vivo il colore delle labbra. I capelli spettinati gli suggerirono che doveva essere arrivata a cavallo e non da molto, che quando Bates l'aveva richiamato per conto di lord Phillip, in realtà l'aveva fatto per conto di lei.

“Interessante in senso buono o in senso cattivo?” La domanda gli uscì spontanea, disintegrando in un colpo solo la silenziosa impasse in cui erano precipitati.

“Non ne sono sicura,” ammise Natasha, voltandosi di nuovo verso il ritratto.

“Abbiamo tutti delle espressioni da coglione,” accennò alle tele in cui erano incorniciati gli altri membri della famiglia, “perché ti sei fermata a guardare il mio?” Le si riavvicinò, affiancandola per mettersi ad osservare a sua volta il quadro. Se ne pentì un attimo dopo: odiava incrociare lo sguardo del signor Barton-Coulson.

“Sembri più grasso,” commentò, eludendo la domanda.

“Avevo addosso una quantità imbarazzante di vestiti,” si giustificò, ormai sulla difensiva. “E poi l'autrice pensa che sia disdicevole, per un nobile, non avere la pancia sporgente.”

“Il viola ti dona però.”

“Trovi?” Deviò lo sguardo su di lei, anche se Natasha continuava a scrutare il ritratto. “Si dà il caso che sia il mio colore preferito.”

“Il colore della penitenza,” constatò a mezza voce. “Non sono sorpresa.” Lo stava prendendo in giro.

Finalmente si decise a lasciar perdere il quadro e a voltarsi verso di lui, offrendogli la prima visuale di insieme sul suo viso. Pensò irrazionalmente che l'inverno le donasse, che facesse risaltare quel che di bello c'era nel suo viso. Come se temperature rigide e scenari di un bianco accecante fossero il suo habitat naturale.

“Sei in ritardo,” le disse mentre un sorriso gli si apriva sul volto.

“Per nascondere il morto in giardino?” Gli chiese senza scomporsi, alludendo alle magre condizioni in cui versavano i suoi abiti.

“No, per tutto.” Non si lasciò ingannare.

Ripensò a Bobbi e al modo in cui l'aveva rimproverato per la sua ridicola abitudine di confondere le acque di una conversazione troppo scomoda con una battuta di spirito. Natasha utilizzava la stessa tecnica, anche se allo scherzo alternava più spesso un insulto.

“Non credevo ci fosse una scadenza.”

“Non c'era,” scosse il capo. “Però mi sei mancata.”

La vide dischiudere le labbra, sul punto di snocciolare un brillante ritorno di frase, ma le serrò di nuovo senza dire niente. Forse per dimostrargli che poteva affrontarlo a viso aperto senza nascondersi dietro inutili muri di parole.

Lo spazio che li divideva sembrò farsi quasi incandescente, ma nessuno dei due si azzardò a cancellarlo. Si limitarono a tenere gli occhi puntati in quelli dell'altro, soppesandosi e studiandosi a vicenda per capire cos'era cambiato e cosa invece era rimasto invariato.

Fu lei a spezzare l'incantamento che era venuto a crearsi intorno a loro, ad infrangere la bolla di vetro che pareva averli avvolti per separarli dal mondo esterno: “Ho un lavoro per noi.”

“Un lavoro...” fece cadere lo sguardo rapito e tornò ad essere il Clint di sempre. “Da dove vieni?”

“Dalla capitale,” il tono si era rifatto professionale.

“Non sapevo fossi tornata fin laggiù.”

“Non sai un sacco di cose,” precisò lei, l'ombra di un sorriso a incresparle le labbra.

Solo in quel momento gli apparve diversa, più leggera forse. Negli occhi le rimaneva quel sentore di tempesta mai del tutto sopita, ma le spalle stavano dritte senza essere rigide e c'era una confidenza spontanea nel modo in cui si muoveva, in cui parlava, in cui lo guardava. Quasi che il masso invisibile di colpe e peccati che le aveva visto trascinarsi dietro per tutta l'estate si fosse smaterializzato insieme all'arrivo dell'inverno.

“Sei stata dal tuo amato colonnello Fury, non è vero?” Intuì in un lampo di genio.

“Avevo bisogno di un'occupazione.” Neanche si preoccupò di negare l'evidenza. “E ti farò lo straordinario piacere di non dirgli che l'hai chiamato così.”

“Mi stai minacciando?”

“Secondo te?”

“Il gusto per i giochetti psicologici, quello c'è ancora,” commentò tra sé e sé, ma col preciso intento di farsi sentire.

“Sono la mia grande passione.”

“Insieme al colonnello Fury,” aggiunse. “Però ti si sono allungati i capelli,” chiosò del tutto estemporaneamente.

“E' quello che fanno i capelli: crescono.”

“Sono a conoscenza del processo, ti ringrazio.”

“E di che? Sono sempre pronta ad illuminare l'ignoranza dei bifolchi.”

“Prego? Bifolco a chi? I bifolchi non hanno ritratti ad olio appesi in salotto! L'hai visto?” La perorazione gli uscì volutamente teatrale, eccessiva.

“Purtroppo sì.”

“Che stronza.” L'imprecazione aveva il suono e il sapore del sollievo. Le sorrise e Natasha ricambiò, ma solo per un istante. “Allora... questo lavoro?”

 

***

 

“Sta' ferma,” le intimò.

“Sono immobile,” ribatté lei, stizzita.

“No, ti stai muovendo.” Non poteva suturare la ferita sul braccio se continuava a girare pagina.

“Ti ho detto che potevo farlo da sola,” precisò tenendo gli occhi fissi sul libro aperto sulle gambe. Era lo stesso che le aveva visto leggere a più riprese l'anno prima, quando ancora lo stava conducendo nella ragnatela che aveva teso per lui.

“Non è una cosa normale ricucirsi da soli.” Le dita gli tremavano appena attorno all'ago.

Gli sembrava passato un secolo dalla prima volta che aveva tentato di rammendarle una ferita: erano su una nave fetida che non smetteva un secondo di oscillare e lui aveva pensato di cauterizzarle la ferita al fianco con un coltello bollente. Tutte le volte che ci pensava ringraziava silenziosamente il misterioso dottor Banner che gli aveva impedito di compiere uno scempio.

Al posto del buco che la pallottola si era scavata nella carne di Natasha, adesso c'era una cicatrice un poco in evidenza che gli ricordava le cuciture fatte alla meno peggio da sartine inesperte per nascondere gli strappi nei vestiti buoni della domenica.

A quel disordinato segno, bianco e liscio, sulla sua pelle si era quasi affezionato. Aveva imparato a leggere Natasha attraverso la mappa delle tracce che gli eventi e le persone le avevano impresso addosso. Ogni tanto, mentre erano distesi l'uno di fianco all'altra in letti troppo piccoli e scomodi, riusciva a strapparle qualche sporadica confessione sulle origini di quelle cicatrici e Natasha, via via, probabilmente senza neanche accorgersene, gli aveva tracciato le tappe della sua vita a rapidi cenni, talvolta pacati, più spesso scontrosi e ostili.

Ma Clint sapeva che non avrebbe parlato se non avesse voluto farlo. Adesso capiva che i modi bruschi di Natasha si riaffacciavano tutte le volte che ci si avvicinava troppo alla sua parte vulnerabile, al suo punto debole. E la rabbia non era rivolta verso di lui, ma verso se stessa, come in una sorta di meccanismo di difesa che le serviva a ristabilire le distanze e a tenere emozioni troppo forti lontane da sé, per non lasciarsene soffocare e travolgere.

“Hai finito?” Gli chiese impaziente.

“Non ancora. Più ti agiti e più ti lamenti e più ci metto, va bene?”

La sentì masticare tra i denti imprecazioni in una lingua che Clint non comprendeva, ma che aveva imparato a riconoscere. Era quella delle canzoni cantate sottovoce e delle tirate più furibonde, quando, nella foga dell'ira, sembrava dimenticarsi che Clint quella lingua non la parlava. O forse lo faceva apposta per insultarlo più comodamente, il che avrebbe avuto senso. Più che rimanerci male, però, la cosa lo divertiva... il che faceva a sua volta infuriare Natasha.

Finalmente, punto dopo punto, giunse a completare la sutura con un minuscolo nodo. La donna sospirò di sollievo.

“Grazie al cielo,” esalò.

“Grazie Clint,” la rimproverò spassionatamente.

“Ti ho detto che pot-”

“Che potevi farlo da sola, ho capito. Il punto è che non devi farlo da sola. Che hai un'altra opzione.”

“Quella di dare al tuo ego già smisurato inutili ragioni per lievitare sempre di più?”

“Il mio ego ha validi motivi per essere così gonfio,” stabilì seccamente, riponendo ago e filo insieme agli altri strumenti per il ricamo su esseri umani. “Grande,” si corresse.

Indietreggiò fino a gettarsi sul letto della piccola camera di locanda in cui si erano rifugiati dopo lo scontro con alcuni trafficanti d'oppio che si erano rivelati più tenaci di quanto le informazioni a loro disposizione non avessero lasciato sospettare. Fury li aveva incaricati di sventare i loro commerci illeciti dopo che alcuni nobili avventati avevano trovato la morte in certi antri bui e poco raccomandabili del quartiere più degradato della capitale.

Da che avevano cominciato a lavorare insieme per conto dello Scudo, non avevano fallito una sola missione. Certo, era capitato un paio di volte che ci volesse più tempo del previsto a portare a termine un incarico, ma quelli erano i contrattempi del mestiere.

Di che mestiere si trattasse, Clint non aveva la più pallida idea. Quel che contava era che gli piaceva, che il duo composto da lui e Natasha funzionava alla grande e che Fury non si era lamentato.

E poi sentiva di star migliorando, di essere più in forma, più veloce, più rapido, più abile nel corpo a corpo quando arco e frecce lo tradivano. Si allenava con Natasha nei momenti morti tra una missione e l'altra – qualche volta tornando a villa Coulson per un po' di meritato riposo – e ultimamente la donna ci metteva un po' di fatica in più a sottometterlo. Stava imparando a darle del filo da torcere e gli scontri si erano fatti più interessanti; se n'era accorto perché adesso era lei che gli chiedeva più spesso di allenarsi, segno che la cosa la divertiva e che quindi non era impresa poi così facile e scontata. O, almeno, così gli piaceva pensare.

Il letto scricchiolò sotto il suo peso, minacciando di crollare da un momento all'altro. Si ripromise di lamentarsi con l'oste che gestiva la locanda e intanto si voltò a guardare Natasha.

Stava seduta sul davanzale della finestra aperta con indosso solo una camicia che le copriva a malapena le cosce. L'aria fresca dell'ennesima notte estiva che trascorrevano insieme entrava nella stanza in folate leggere, portandosi dietro l'odore salmastro del mare non troppo distante. I capelli, lunghi e bagnati, le scendevano sulla schiena disegnando macchie umide sulla stoffa scura della camicia.

Il desiderio di averla un'altra volta si fece più intenso – perché ormai aveva dovuto accettare che quel bisogno non se ne andava mai del tutto, che la voglia di toccarla era sempre lì in agguato da qualche parte nella sua testa, anche quando era convinto di star pensando a tutt'altro. Gli bastava guardarle le labbra per un secondo di troppo o immaginare le curve del suo corpo nascoste dai vestiti e il pensiero gli si spostava dalla periferia al centro del cervello e lì rimaneva finché Natasha non se ne accorgeva o finché un bisogno più impellente non si imponeva alla sua attenzione; quello di sopravvivere, il più delle volte.

In compenso aveva imparato a riconoscere i segni dell'eccitazione anche su di lei. Perché sebbene gli fosse sempre un po' difficile scenderci a patti, sapeva che quell'urgenza non era mai a senso unico. Che quando Natasha l'osservava più intensamente del solito, forse credendo di avere l'aria di chi si è incantato a fissare un punto non meglio identificato, significava che stava immaginando di fargli cose o farsi fare cose oppure entrambe.

Spesso e volentieri prolungavano il gioco dell'indifferenza fino a trasformarlo in una sfida di resistenza. Di solito era lui quello che cedeva per primo, ma era capitato almeno un paio di volte che fosse lei ad arrendersi e quelle due occasioni Clint se l'era impresse nel cervello come medaglie al merito – chiunque conoscesse Natasha avrebbe condiviso il suo sentimento d'orgoglio.

“Non mi hai mai detto perché ti piace tanto quel libro,” si ritrovò a dirle dopo averla osservata a lungo, in silenzio.

“Non me l'hai mai chiesto,” gli ritorse contro, senza alzare lo sguardo dal volumetto.

“Perché ti piace tanto quel libro?” Recitò prontamente.

Natasha si strinse nelle spalle e sembrò non volergli rispondere; gli venne da ridere: avrebbe dovuto aspettarselo.

“Di che parla?” Raddrizzò il tiro, deciso a non demordere. Ormai sapeva riconoscere quando Natasha voleva davvero che la smettesse e quando invece si negava per una pura questione di abitudine, come se ci fosse un numero preciso di rifiuti attraverso cui passare prima di arrivare alla confidenza.

“Parla di un bambino.”

“Va bene. Che fa questo bambino?”

“Sta lì.”

“La trama suona un tantino scadente.”

La donna staccò finalmente gli occhi dalle pagine ormai consumate dal tempo e si decise a guardarlo con l'aria di chi sta valutando qualcosa piuttosto intensamente.

“E' una favola,” sentenziò allora, “parla di un bambino che si perde nel buio.”

“E' un libro per bambini?”

Natasha annuì: “C'è una ninna nanna basata su questa storia. E' l'unica cosa che ricordo della vita prima della Stanza Rossa.”

Clint si rifece serio mentre davanti agli occhi gli si materializzava il bagliore del fuoco che ardeva nell'accampamento dei saltimbanchi che li avevano sorpresi sulla loro strada, intenti secondo loro ad amoreggiare, ma in realtà a darsele di santa ragione. Ricordava la voce bassa e profonda di Boris, il Mangiafuoco, e anche la reazione di Natasha alla sua canzone. Sull'albero, poco dopo, gli aveva confessato di conoscere la melodia, ma non le parole. Non avrebbe saputo rammentare di che parlasse, ma era certo che non contemplasse bambini e buio senza fine.

Non le chiese se il suo collegamento fosse corretto, sapeva già che lo era e non c'era bisogno di conferme. Il modo in cui Natasha lo guardava bastava a fugare ogni dubbio.

“E cosa succede al ragazzino?” Le chiese, piegando le braccia dietro la testa per trovare una posizione più comoda.

“Una voce lo richiama fino alla luce.”

“Di chi è la voce?”

“Non si capisce. Può essere chiunque,” gli sembrò che avesse addolcito il tono, “magari anche lui stesso.”

“Si salva?”

“Non si sa. Devi deciderlo tu.”

“Che vuol dire?” Le storie a finale aperto non gli erano mai piaciute granché.

“Vuol dire che se la leggi in momenti diversi, ti sembrano probabili finali diversi.”

La scrutò a lungo, tentando di carpirle il segreto che le si affacciava negli occhi. Improvvisamente, dal niente, gli parve di capire cosa intendesse.

“Oggi si salva?” Le chiese a mezza voce, intuendo il sorriso inespresso che le aleggiò sul viso al cospetto della sua fulminea intuizione.

“Si salva da un po' di tempo a questa parte,” rispose piano, scandendo le sillabe con falsa disattenzione, artificiosa indifferenza.

Un calore piacevole gli riempì lo stomaco e poté giurare che per Natasha fosse lo stesso.

“Me la leggi?” Le chiese.

“Dovrei tradurtelo.”

“No, non importa.” Aveva voglia di sentirla parlare la sua lingua, arcaica ed immobile.

Gli lanciò solo una rapida occhiata incuriosita, ma non sembrò voler mettere in discussione il suo proposito.

Clint si concentrò sulle dita bianche e letali che giravano rapide le pagine spesse e ingiallite, fino a fermarsi alla prima. Socchiuse gli occhi mentre la voce bassa, calda e familiare di Natasha riempiva la stanza. Si immaginò di poter seguire l'andamento di quella lingua sconosciuta come fosse stata un sentiero, le curve morbide, l'innalzarsi aspro dei suoni più duri, lo scivolare su quelli più allungati.

Si lasciò condurre dalla sua intonazione e quasi gli sembrò di capire cosa stesse succedendo, di riconoscere i vari momenti della favola, che bastasse il suono a fugare ogni dubbio, a mostrargli il bambino che si perdeva nel buio. Gli parve di poter provare il suo sgomento, la sua paura, il senso di smarrimento e la disperazione dell'abbandono, il sospetto che fosse tutto un incubo o una punizione per una colpa indefinita ma schiacciante, che l'orrore fosse solo nella sua testa, magari di essere morto, cancellato e dimenticato come l'inchiostro secco grattato via dalla pagina.

E poi il silenzio, un silenzio asfissiante che, paradossalmente, emergeva dalla linea continua dei suoni e delle parole di cui Clint non avrebbe potuto individuare i confini neanche se avesse voluto. Un silenzio infernale che minacciava di strangolarlo e di imprigionarlo nella sua testa, perché in fondo, spesso e volentieri, il nostro peggior nemico rischiamo di essere proprio noi stessi.

Non seppe decidere a chi apparteneva la voce che lo riportava indietro, se ad una madre, un padre, un fratello, un'amica, un'amante o a se stesso. Magari era la somma di tutte e in fin dei conti non aveva importanza.

Perché Natasha aveva ragione: alla fine si salvava.

 



- THE END -







Note: ... e vissero per sempre felici e contenti ù_ù ed è tutto direi!
Grazie a tutti coloro che hanno letto e commentato la storia (anche se mi sa che vi ho persi per strada in diversi XD): Fake_Brit, hikaru90, fireslight, missgenius, Chess_Killer, Yavanna97, e in particolar modo Ragdoll_Cat e la sociabeta Eli :*
Insomma, grazie a chi è arrivato fino in fondo
(ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧ ho ancora diverse storie da postare (tutte Clintasha perché sono monotonissima), quindi prima o poi mi farò... rivedere.
Alla prossima storia!

 
  
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