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Autore: Pluma    08/04/2009    0 recensioni
Questa è la storia di mia madre, nel senso che l'ha scritta lei con un mio piccolo aiuto tecnico. Questa collaborazione è nata dall'esigenza di mia mamma di rendersi conto di cosa ha fatto nella vita, e ora all'inizio di questo percorso che non so dove porterà ha voluto pubblicare la sua storia su questo sito. Tutto comincia con il suo VIII° compleanno e non sappiamo quando finirà. Premetto, io stessa sono rimasta un po' stupita nello scoprire il carattere di mia madre da bambina. In questa storia non si parla di un'eroina bella, brava, buona ecc, ecc, ma semplicemente di lei.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SAN ROCCO

 

 

9 maggio 1970

 

ero, come si dice dalle mia parti, “più larga che lunga”. Una bambina, come tante altre, abbastanza alta per la mia età, ma troppo formosa, tanto da sembrare più vecchia rispetto alle mie coetanee. Mia madre non aveva molta cura dei miei capelli, castano chiaro, perennemente in disordine; anche i miei vestiti non erano adatti: abiti interi di seconda mano, troppo larghi, che accentuavano ancora di più il mio corpo. L’unico aspetto che mi ricordo volentieri è il colore dei miei occhi, perché cambiava secondo le stagioni.

Era il mio compleanno, ma come al solito non importava a nessuno. Tina, una vicina di casa, che lo aveva saputo, vedendomi triste e sola, quel pomeriggio m’invitò ad andare a casa sua, proponendomi di lavare i miei capelli ed asciugarmeli con il phon e la spazzola; così per la mia festa sarei stata più bella. Più bella…ma per chi?

I miei erano a lavoro, come sempre. Eravamo una famiglia tutt’altro che ricca; vivevamo in quest’immenso caseggiato, conosciuto con il nome di S. Rocco, un vecchio convento comprato da alcune famiglie, tra le più ricche del mio paese, Carpi, e riadattate in appartamenti assemblati in malo modo.

Amiche? Mi ero appena trasferita dalla campagna; da pochi mesi frequentavo la terza elementare in una scuola per me nuova, ma secolare per i carpigiani. Mi vergognavo tanto anche solo pensare di invitare a casa un’amichetta. Cosa avrebbero detto di me, che abitavo in S. Rocco, da tutti considerata la casa dei poveri?

Ero quindi sola, con i capelli puliti, la schiena appoggiata alle mura della bocciofila, intenta a guardare il portone d’ingresso dell’ex convento; contavo le finestre e pensavo a quanta gente vi abitasse. Tante persone!

A dire il vero non ero l’unica ragazzina, c’era anche un biondino un poco più piccolo di me, di nome Stefano. Non abitava a S. Rocco, ma veniva ogni giorno a trovare i nonni. A volte vedevo una bellissima bambina di nome Rita, figlia di un signore che aveva affittato dei locali per svolgervi la sua attività, fabbricava veneziane. Fra queste finestre che stavo contando, vi erano anche quelle di Nino e sua moglie, proprietari del Postal bar. Due persone avanti con l'età, che mi adoravano; all’epoca non riuscivo a capire il perché abitassero in quel posto.

Era il mio compleanno e per l’occasione avevo indossato un bellissimo vestitino di seta verde con tanti fiorellini rossi. Mi piaceva tanto quel vestito. Era stato comprato per me, al contrario degli altri e poi mi faceva sentire una vera signorina. Purtroppo ho anche un brutto ricordo legato a questo abito. Frequentavo catechismo due volte alla settimana; un giorno pensai di indossarlo per andare dalle suore che mi aspettavano in duomo per portarmi, insieme ad altri bambini, nella loro struttura che noi chiamavamo “le suore di carità”. Non ricordo bene le parole precise, tanto meno come si chiamasse, ma è indelebile in me come mi fece sentire la mia suorina: una poca di buono.

“Una bambina per bene non indossa un abito scollato o così appariscente!”

All'epoca non capii il significato delle sue parole, ma compresi bene lo sguardo delle altre bambine. Forse è anche per questo che feci solo la Prima Comunione, mi rifiutai di continuare il catechismo per ricevere la Cresima. Perché dovevano denigrare in quel modo il mio unico, bel, vestitino nuovo? Dio come le ho odiate!  

Com’era diverso vivere a Carpi; vivere in una città, senza il mio cavallo che mi portava in giro per la campagna, non potevo neanche stare scalza. Nei campi, invece, mi piaceva saltare da una zolla di terra all’altra a piedi nudi, mentre cantavo le canzoni di Sanremo. A Carpi facevo di tutto per passare inosservata, non mi piaceva niente e il colpevole di tutto questo viveva con me. Gastone, mio padre, decise di ritornare a Carpi dopo venti anni che se n’erano andati, per accontentare il suo primogenito, mio fratello Duilio, di tredici anni più vecchio di me. Duilio ed io non ci siamo mai sopportati, lui non mi ha mai voluto e negli anni la cosa è divenuta reciproca; ho cercato di capire che era nato con dei problemi di salute e che aveva più bisogno d’attenzioni di quante servissero a me, ma sembrava specializzato nel farsi odiare. Duilio voleva ritornare in città perché diceva  di non avere una vita sociale e che in campagna non riusciva a farsi degli amici. Per convincere mio padre che andare a Carpi era la cosa migliore per noi, insisteva, aiutato da nostra madre Marisa,   sulle maggiori possibilità lavorative che il centro offriva.

 

Gli anni passavano e con il tempo mi sono inserita. La mia classe era di sole femmine, tante bambine socialmente una diversa dall’altra, e una maestra, Bianca Bezzecchi, che sembrava un po’ la nostra mamma. Era una vera signora. La ricordo alta, i capelli sempre in ordine, vestiva bene con ogni più piccolo accessorio in tinta; persino lo smalto, sempre preciso nelle sue mani ben curate. Mi ha sempre trattato come tutte le altre, nonostante fossi arrivata in terza elementare e più vecchia di un anno rispetto alle mie compagne (per motivi di salute avevo perso un anno di scuola). Fu lei la prima ad accorgersi che avevo dei problemi di vista. Essendo la più alta, mi avevano messo nell’ultimo banco, in fondo all’aula, ma non riuscivo a vedere correttamente ciò che c’era scritto alla lavagna, quindi sbagliavo gli esercizi, non consapevole della mia mancanza. Invece di punirmi, la maestra, chiamò mia madre invitandola a farmi fare una visita oculistica che mi diagnosticò una forma grave di astigmatismo. Nessuno portava gli occhiali. Non era di moda come oggi. Non più, “più larga che lunga”, ma “quattro occhi in vetrina e due in cantina”.

Nonostante fossi piuttosto bruttina avevo il fidanzatino. Il suo nome era Tommaso, il primo meridionale che entrò nella mia vita. Alla domenica, eravamo soliti andare al cinema accompagnati da mio padre. Qualsiasi film andava bene, perché quello era l’unico modo per vederci.

Ricordo bene anche le mie compagne, alcune in particolar modo. Ero molto legata con una bambina di nome Lorena, suo padre faceva il benzinaio, ma un brutto giorno la sua famiglia si trasferì a Modena. Insieme con noi due c’era anche Paola che viveva insieme con la sorella in casa di sua nonna. Noi tre, oltre ad essere nella stessa classe, passavamo la maggior parte del nostro tempo libero nei giardinetti comunali, giocando a nascondino e raccontandoci i nostri segreti sotto ad una pianta che si era piegata su sé stessa, formando una specie di capanna.

Mi trovavo molto bene anche con Patrizia. Lei abitava in una palazzina dietro S. Rocco, una bellissima casa a più piani con un giardino interno. La stanza, solo sua, era piena di libri; ogni volta che la vedevo era come entrare nel paese di Alice. Eravamo, però, troppo diverse una dall’altra e con il tempo ognuna ha preso la propria strada.

Passarono lentamente i tre anni che mi separavano dalla quinta e un bel giorno mi ritrovai a dover affrontare l’esame. Ero spaventata, poiché tutti quelli che mi circondavano erano convinti che non sarei mai riuscita a passarlo, mi vedevano incapace di proseguire gli studi e poco interessata ad impegnarmi. Non era vero, almeno non completamente. Odiavo la matematica di cui, nonostante comprendessi i concetti, non riuscivo ad ottenere i risultati giusti dei problemi; ma è anche vero che amavo la storia, una materia che mi faceva sognare delle epoche lontane dalla mia. Mi piaceva scienze quando la maestra ci parlava degli animali, ma non la sopportavo quando c’impartiva nozioni sul terreno o sugli agenti atmosferici. Non mi interessavano le lezioni di geografia, cosa mi poteva servire la conoscenza di altre città, tanto non vi potevo andare. In assoluto amavo leggere e scrivere e, anche se non era considerata una materia di rilievo, amavo disegno.

La domenica precedente l’esame, stanca di studiare, decisi di andare al  "Supercinema 70", il cinema più bello di Carpi. Quel giorno proiettavano un film che, all’epoca, fece molto discutere per i suoi effetti speciali e per le sue scene violente: “Terremoto”.

L’ultima prova d’esame me la ricordo molto bene. Al mattino entrai nella classe, ognuna di noi era al suo posto e quando entrò la maestra, come tutte le mattine, ci alzammo in piedi sull’attenti per fare il segno della croce.

“Sedute bambine. Oggi è un altro giorno importante.” Disse Bianca.

Mi guardò e sorridendo aggiunse:

“Ombretta, sarai contenta. Oggi c’è la prova di disegno.”

Non so perché, ma quelle parole mi indispettirono. Nessuno si aspettava più di tanto dal mio esame, invece avevo fatto un ottimo tema e una buona interrogazione; continuavano, però, ad aspettarsi da me il meglio solo nella prova di disegno. Dispettosa, decisi di non dare il meglio di me. Copiai, da una rivista di cucito, un grappolo d’uva a puntocroce; invece di colorarlo normalmente, riempii il grappolo come se fosse un ricamo su carta. Quando Bianca lo vide mi disse:

“Ma che cos’è questo? Hai ancora tempo, vai al banco e fai uno dei tuoi disegni.”

“NO!” fu la mia semplice risposta.

Mi girai e tornai al banco.

 

Cominciai le medie alla scuola Ungaretti, un convento di preti. Cambiarono le mie compagne…dovetti ricominciare tutto da capo.

L’unica persona che già conoscevo era Cristiana, perché eravamo andate a catechismo insieme. Abitava poco lontano da S. Rocco; invidiavo la sua vita, era sempre vestita all’ultima moda grazie a sua madre, proprietaria di una ditta e di una boutique. Eravamo diverse, ma ci siamo frequentate per molto tempo. Niente di speciale: passavamo i pomeriggi a fare i compiti a casa sua; in classe eravamo vicine di banco e abitando vicine eravamo solite andare e tornare da scuola insieme. Il mio rapporto con lei si allentò quando conobbi Claudia, una ragazzina molto semplice, come me, figlia di operai, che abitava in una frazione di Carpi. Non era bella e anche lei portava gli occhiali

Insieme facemmo tante marachelle; spesso dopo pranzo prendevo la corriera e la raggiungevo a casa sua dove facevamo pochi compiti e tantissime chiacchiere. Ricordo che fantasticavamo sul nostro futuro, sicure di sposarci con due uomini ricchi che ci avrebbero mantenuto, con tutto quello che queste unioni avrebbero comportato: vestiti alla moda, una bella villa, tanti viaggi…una vita completamente diversa da quella che stavamo vivendo.

Durante il mio primo anno alle scuole medie, riuscii a convincere mio padre a cambiare casa. Aspettai che mia madre percepisse la sua misera pensione da invalida e una mattina in pieno inverno preparai una valigia, rubai i soldi e scrissi un biglietto con scritto che ero incinta, presi il mio cane Michi e me ne andai. Ricordo, come se fosse ora, che andai in Corso Alberto Pio, di fronte al bar Italia dove c’era la fermata delle corriere. Presi quella per Modena e una volta arrivata alla città cambiai per Sestola. Io e Michi arrivammo che era nevicato da poco, cercai un posto dove passare la notte, ma non ne trovai perché tutte le persone a cui chiedevo capivano che nascondevo qualche cosa. A metà pomeriggio, scoraggiata, telefonai al Postal bar; Nino chiamò immediatamente mio padre al quale dissi che avevo inventato tutto, che stavo bene, ma che sarei tornata a casa solo se ci fossimo trasferiti in un altro posto. A quei tempi mi sembrava l’unica cosa da fare. Ora penso di essere stata stupida ed egoista; solo ora capisco che abitavamo in quel postaccio perché non potevamo permetterci altro. Qualche mese dopo ci trasferimmo in un grande appartamento e, mio padre, indebitandosi fino all’osso comprò tutto l’arredamento nuovo. Che stupida, ma all’epoca ero felice. Avevo la mia cameretta nuova, persino una sala dove guardavamo la televisione e un bagno con la vasca. Finalmente non dovevo più andare ai bagni pubblici per farmi una doccia.  

Un anno e mezzo dopo, finita la seconda media, decisi di non andare più a scuola e anche questa volta diedi di che pensare a mio padre. Fu chiamato dai carabinieri, per giustificare il mio ritiro a soli tredici anni. Era tutta una proforma, mio padre firmò il verbale e uscimmo. Presi questa decisione spinta dal desiderio di andare a lavorare e guadagnare qualche soldino. Per un po’ di tempo fui operaia per una ditta di confezioni, dove imparai ad usare la Cucitaglia e la macchina da cucire. Non c’era molto da fare e per questo mi facevano andare a lavorare saltuariamente. Venni a sapere che una parrucchiera stava cercando una ragazza anche senza esperienza. Mi piaceva sebbene le ore fossero tante e lo stipendio misero, ma con quello riuscii a comprarmi il mio primo motorino, un bellissimo College blu con il sellino lungo. Vicino alla parrucchiera c’era una merceria dove andavo ogni qualvolta percepivo lo stipendio. Poco prima del natale del 1975, mi comprai un giubino di Lapin ed un completino di velluto nocciola; chissà cosa credevo di avere? 

A causa dello stipendio cercai un nuovo lavoro e mi ritrovai a fare la cassiera in un negozio di formaggi del centro. Ero pagata bene, mi piaceva tantissimo, ma il proprietario non mi metteva in regola, quindi non restai. Non vedevo il motivo per cui dovevo accettare di essere sfruttata, senza essere riconosciuta come una lavoratrice in regola. Ritornai a lavorare per un’altra parrucchiera.

La mia vita era migliorata. Avevo amici, andavo fuori quasi tutte le sere, ero vestita bene e con la compagnia ero solita andare al mitico Picchio, la domenica pomeriggio. Nonostante il mio aspetto da maschiaccio avevo un ragazzo che tutte mi invidiavano; Carlo era poco più grande di me, un po’ più alto, con i capelli neri e, un dettaglio tutt’altro che trascurabile, aveva una moto, una Italjet 125. Ero piccola, ma stare con lui mi faceva sentire più grande. Un giorno, però, cominciai ad avere il presentimento che mi avesse tradito con una di Bergamo. Per evitare di sbagliare gli diedi il benservito.

A ballare conobbi Renato, un meridionale trasferito da poco tempo qui in Padania per motivi lavorativi. A quei tempi di giovani del sud ne arrivavano tutti i giorni; i coetanei di mio padre non li vedevano di buon occhio. Si vociferava che si accontentassero di un basso stipendio e senza pretendere i contributi, quindi portavano via il lavoro a noi. Probabilmente per amor mio, papà accettò anche un meridionale come mio fidanzato, al contrario di Duilio, che si rifiutò persino di vederlo.

 

La mia famiglia, la  domenica mattina riceveva “L’Unità”. Il signore che ci portava il giornale mi propose di servire ai tavoli dell’unico ristorante del Festival dell’Unità; a me l’idea allettava e così accettai di buon grado. Eravamo nel 1976 e servendo al Festival dell’Unità conobbi Giuseppe. Bello, moro, tenebroso; veniva sempre a cenare da solo, per poi andare vicino al palco per ascoltare il cantante della serata. Era un uomo che non passava inosservato, sicuramente faceva sport; io lo guardavo e pensavo che non mi avrebbe mai notato.

Cominciò a venire a cena sempre più tardi, quando oramai, nel ristorante, non c’era più nessuno. Più volte, con mio stupore, mi offrì una birra, arrivando persino a chiedermi se potesse accompagnarmi a casa. Non ci vedevo più dalla felicità: tanto ben di Dio che si accorgeva di me! Nelle varie serate in cui prestai servizio per il partito, parlammo tanto e in seguito cominciammo ad uscire più frequentemente. Inutile dire che mollai Renato, mentre la storia tra me e Giuseppe si faceva sempre più seria.

Arrivò l’estate e nel mese di Agosto, Giuseppe, ritornò nel suo paese per passare le ferie. Durante la sua assenza Renato mi disse che a Grottaminarda, il loro paese natale, Giuseppe aveva la fidanzata. Sono stata malissimo, ma quando lui ritornò chiarimmo. In realtà non si può definire le parole che mi disse spiegazioni, furono solo parole; ero talmente presa che qualsiasi sillaba sarebbe stata convincente. Tanto è che non ne ricordo nemmeno una. Ahimè il chiarimento fu malandrino; feci l’amore con lui per la prima volta sulla sua Fiat 126. Non ricordo cosa cambiò in me, credo niente. Dopo, Giuseppe mi disse che con Ornella era finita e che a Natale non sarebbe ritornato dai suoi genitori, ma che il prossimo anno, ad Agosto, mi avrebbe portato a conoscere la sua famiglia. 

A quattordici anni appena, quindi, feci conoscere il mio fidanzato alla famiglia. Non posso esserne sicura, ma credo che mio padre pensasse che fossi troppo piccola, ma che Giuseppe, avendo sette anni in più di me, mi avrebbe potuto calmare. Lavoravamo la maggior parte della settimana e ci vedevamo quasi tutte le sere. La domenica eravamo sempre in giro a visitare una città nuova; io che ero andata solo alla Querciola in colonia, ora non ero mai a casa. In una di queste domeniche mi portò a Padova, dove conobbi la cugina a lui più vicino: Lina. Lei studiava all’università anche se non ho mai capito cosa facesse di preciso.

Arrivammo nel convitto delle suore dove viveva Lina in prima mattinata e fu una vera impresa farci ricevere. Le ragazze erano decisamente ben custodite e, non credendo che Giuseppe fosse suo cugino, non volevano chiamare la loro ospite. Dovemmo ingegnarci; nella sala d’attesa c’era un telefono pubblico da cui chiamammo il centralino del convitto, a pochi metri da noi, il quale ci passò la stanza di Lina. Giuseppe le disse:

“Noi siamo arrivati, siamo nella sala d’attesa. Ma le suore si rifiutano di chiamarti.”

Da lì a pochi minuti mi trovai davanti, per la prima volta, una parente di Giuseppe.

Lei fu molto cordiale e gentile, salutandomi con un abbraccio e baciandomi entrambe le guance. Si scusò, però, dicendoci che non ci aspettava e che sarebbe uscita con noi, ma non prima di essersi lavata i capelli. Dopo un’ora che la aspettavamo ci portò al centro della città a visitare, come prima cosa, la basilica di S. Antonio da Padova. Riuscimmo a vedere unicamente la facciata, poiché davanti al piazzale c’era una fila di oltre cinquanta metri. La cosa che mi stupì maggiormente, nel vedere quelle persone, fu il silenzio e il rigore con cui ognuno aspettava il proprio turno. Decidemmo di andare a fare un giro per i portici del centro storico. Ricordo che stavamo parlando e ridendo, quando qualcosa di rumoroso e che faceva fumo mi scoppio davanti ai piedi; si trattava di una bottiglia Molotov. Giuseppe, preoccupandosi per me, si mise in mezzo tra me e lo scoppio. Lina ci disse che era meglio andarsene dal centro e ci spiegò cos’era stato. In quei giorni gli studenti universitari di tutta l’Italia del Nord erano usciti nelle piazze per manifestare contro il governo; quelli di Padova non fecero eccezione. Lina ci racconto anche alcuni aneddoti, in cui alcune persone si fecero seriamente male. La riportammo al convitto dove ci salutammo, dandoci l’appuntamento ad Agosto di quell’anno a Grottaminarda. Quello che mi disse Lina, salutandomi, mi fece rendere conto che da lì a pochi mesi sarei andata in meridione, ma dov’era il meridione?

Io stavo bene con Giuseppe, non mi mancava niente, stavo diventando una vera donnina, ciò che ho sempre desiderato essere. Presto arrivò l’estate e partimmo per il sud. Ci fermammo a Cervia, dove vidi per la prima volta il mare. Visitammo Gubbio ed Assisi; mi portò a vedere la statua di Pinocchio ad Ancona. Dormivamo sempre in auto e mangiavamo solo panini per spendere meno, ma a me andava più che bene. Quell’anno vidi per la prima volta Roma. Giuseppe conosceva abbastanza la capitale, perché vi lavorò per tre mesi prima di trasferirsi a Carpi. Ricordo Roma piena di macchine che suonavano e si incastravano in file lunghe, lunghe, mentre la nostra 126 passava da tutte le parti. Un giorno stabilimmo di non mangiare panini, ma di andare in un ristorante tipico trasteverino, ancora oggi conosciuto come “La parolaccia”. Fu un pranzo decisamente imbarazzante, nonostante io non mi scandalizzassi facilmente. Entrati, ci salutarono con epiteti che è meglio non ripetere e, come se non fosse già abbastanza, il mio fisico sempre più formoso si prestava bene agli scherzi maliziosi dei camerieri. Uscimmo e tirai un gran sospiro di sollievo.

Quel giorno vidi per la prima volta il Papa. Io e Giuseppe stavamo passeggiando, mano nella mano, in una strada vicino Castel S. Angelo, quando, da lontano, vedemmo le persone che si inginocchiavano, in un effetto esattamente contrario alla Ola degli stadi. Ci chiedemmo cosa stesse succedendo e in quel momento ci rendemmo conto che stava passando Papa Paolo VI. Nonostante fossimo entrambi atei convinti, non potemmo fare a meno di imitare le altre persone. L’emozione che ci suscitò la vista di Sua Santità, ci spinse a inginocchiarci e a riconoscere la sacralità di ciò che rappresenta il suo titolo, unico al mondo.

Giuseppe voleva che passassimo in Corso Vittorio Emanuele, dove di solito si radunavano gli attori. Stavamo camminando lungo il Corso; mentre io mi guardavo intorno, con la bocca aperta, circondata da attori famosi, Giuseppe stava “litigando” con il suo accendino nuovo che si rifiutava di funzionare. Passammo davanti a dei tavolini dove un braccio si allungò con un accendino in mano.

“Devi accendere?” chiese una voce femminile.

Giuseppe si piegò, ma quando alzò gli occhi la sigaretta gli cascò dalle labbra.

“Cazzo, ma è Sofia Loren!”

Lei gli fece un mezzo sorriso e gli disse:

“Te lo lascio.” Riferendosi all’accendino, che Giuseppe tenne come una reliquia.

Dopo alcuni giorni mi stancai di girovagare e finalmente partimmo per Grottaminarda. Ad un’oretta dal suo paese, a Gesualdo, Giuseppe decise di fermarsi per andare trovare un suo amico, anche lui trasferito a Carpi per lavoro. Pranzammo a casa di questo Zio Giò con la sua famiglia e, nel pomeriggio ci portarono a vedere, in piazza, “Il volo dell’angelo”. Arrivata in centro vidi un pupazzo appeso al campanile; grazie ad una fune, nel momento culminante della festa, fecero volare questo angelo sulle teste della folla.

Giungemmo a Grotta verso le quattro del pomeriggio. La famiglia di Giuseppe abitava in una villetta a schiera, assegnata loro a seguito del terremoto del 1962 che distrusse la casa in cui abitavano. Per anni vissero in una baracca, insieme alle altre famiglie di terremotati, dove nacque la terza figlia, Maria. Dopo circa sette anni, lo Stato gli assegnò questa villetta dove nacque il quarto figlio, Gerardo.

Carpina, la mia futura suocera, mi accolse fin da subito molto bene, sembrava entusiasta di me. A quei tempi era ancora giovane e lavorava nei campi. Luigi, mio suocere, era operaio per lo stabilimento Fiat della Valle Irpina. Conobbi subito anche suo fratello Gerardo, che all’epoca aveva appena sette anni. Era alto per la sua età, un viso dolcissimo, nonostante gli occhi da furbetto, incorniciata da dei capelli biondissimi. Mi fu presentata anche l’unica sorella, di un anno più giovane di me. Dieci centimetri più bassa di me, magrolina, con i capelli scuri e gli occhi identici a quelli di Giuseppe. Mi mancava solamente il secondogenito, Salvatore, che era a lavorare; Carpina mandò Gerardo a chiamarlo:

“Digli di venire che è arrivato Giuseppe con la fidanzata.”

Nel frattempo rividi Lina, ritornata nel suo paese da qualche giorno, per  le vacanze estive. Conobbi i suoi genitori, gli zii paterni di Giuseppe. Mi furono presentati alcuni vicini, persone  con cui stabilii un rapporto che durò per molti anni. Ragazze come me, in una realtà molto diversa dalla mia. Arrivò Salvatore. Ci salutammo con abbracci e baci, ma fin da subito mi sembrava un po’ schivo, un po’ sulle sue. Guardandolo mi sembrava Camillo Benso Conte di Cavour, perché portava una barbetta come questo personaggio storico. Era notevolmente più basso di suo fratello maggiore, da cui aveva due anni di differenza, per me erano completamente diversi sebbene avessero gli stessi lineamenti di Carpina.

La madre di Giuseppe gli disse di stare attento a quello che faceva perché io ero piccola e per lei ero un’altra figlia; se si fosse comportato male non sarebbe più potuto ritornare a casa. Era una questione di dignità del nome della famiglia. Non era ammissibile, per loro, meridionali di vecchio stampo, che uno dei figli mettesse incinta una ragazza senza poi prendersi le proprie responsabilità.

Ero servita e riverita come una regina; io adoravo mangiare e loro adoravano le persone di bocca buona. In quei giorni Giuseppe mi portò a vedere l’orgoglio della famiglia: un vigneto a pochi chilometri da casa. L’estate meridionale è caratterizzata dai “festoni”. I paesini venivano allestiti con le luminarie, le quali, quando si accendevano al tramonto, rischiaravano le vie come se fosse giorno. Tutti quelli che si erano trasferiti al nord per lavoro, erano soliti ritornare dalla famiglia per queste serate di festa. L’evento più importante di queste celebrazioni è la processione dei santi. Alcuni volontari prendevano da una chiesa il santo patrono e la madonna, caricandoseli sulle spalle. La statua che mi sorprese di più era quella femminile. Il suo mantello era bardato di preziosi vari; non capendo cosa fosse chiesi a Carpina, la quale mi rispose che erano oggetti appartenuti a quelle donne che, una volta morte, avevano lasciato i propri ori alla chiesa. Ai piedi della Madonna vi era un cuscinetto di velluto rosso al quale gli emigrati, ritornati a casa per l’occasione, puntavano dei soldi di carta. Le strade dei paesi erano affollate dalle giostre e dalle bancarelle, fra le quali vedevo, per la prima volta, i “vu cumprà”.

Una mattina Giuseppe mi disse:

“Oggi ti porto a vedere il carro a Fontanarosa.”

Questo nome non mi era nuovo. Fontanarosa era il luogo di nascita di Carlo, il mio primo fidanzatino. Si trovava in montagna, nonostante disti dalla zona collinare di Grottaminarda una trentina di chilometri. Quel pomeriggio, il 14 Agosto 1977, giungemmo nel paese in poco tempo, ma fu un’impresa parcheggiare a causa della miriade di persone che affollavano le vie.

“Guarda, guarda là!” esclamò Giuseppe indicando con il dito alle mie spalle, una volta scesi dall’auto.

Mi girai nella direzione indicatami ed esterrefatta dissi:

“Mamma mia, ma che cos’è?”

Ero basita. Qualche centinaio di metri più in là, supportata da tantissime funi che si estendevano verso il cielo, una torre, o per meglio dire un obelisco si mostrava ai miei occhi. Era tutto intarsiato decorato con tante immagini di vita quotidiana, ma lo stupore non era finito. Quando andammo sotto il carro vidi che era fatto di paglia intrecciata dalle anziane del paese che, ogni anno, rinnovavano un pezzo per poi attaccarlo nel periodo del festone; Giuseppe mi disse che era alto all’incirca venticinque metri. Non riuscivo a parlare, era la cosa più incredibile che avessi mai visto. Ad un certo punto Giuseppe mi disse:

“Spostiamoci che arrivano i buoi che devono tirare il carro.”

“I buoi? Devono tirare il carro? Ma cosa stai dicendo?”

Invece di rispondermi, mi tirò verso una casa ai lati della strada, cercammo di arrampicarci sul muretto di cinta  il più in alto possibile. Dopo un po’ che aspettavamo arrivarono i buoi. Era tutto strano, diverso, caotico. Gente che urlava parole che non capivo, ragazzi che si arrampicavano sulle funi. E’ stato bellissimo, anche se non si poteva parlare a causa della confusione.

Dopo alcune ore ci riavviammo verso la 126 e, lungo la via incontrammo Carpina e Luigi, anche loro venuti a Fontanarosa per vedere il carro. Parlando, scoprii che c’erano altri carri simili a quello in altri paesi, ad esempio quello di Flumeri, ma, secondo mia suocera, quello più bello lo tiravano in Settembre a Mirabella Eclano. A causa del periodo festivo, però, anche oggi non sono ancora riuscita a vederlo.

Fu un’estate fantastica ed ero davvero felice. Il 15 di Agosto si sposò uno dei nipoti di Carpina e tutti, ma proprio tutti compreso me andammo al matrimonio. Che fermento quella mattina in casa Nocella! Io che avevo fatto la parrucchiera sistemai i capelli di tutte le donne. La funzione fu celebrata in una chiesa Al Passo di Mirabella, una messa semplice e tranquilla seguita, però, dal ritrovo caotico al ristorante dove conobbi il resto dei parenti.

 

Le vacanze finirono e noi tornammo a carpi senza fare soste. Giuseppe tornò al suo lavoro da imbianchino e io fui presa dal titolare della fonderia, dove lavorava mio padre, per fare la vendemmia. Furono bei soldini. Verso la fine della stagione della raccolta dell’uva, Giuseppe prese l’influenza e, in quelle sere andai io a casa sua. Un mese prima lui era stato mandato via dalla sua vecchia abitazione e fu costretto a trasferirsi in S. Rocco. Una di quelle sere feci un incidente. Ero sul mio adorato College blu quando una persona mi salutò, ma quando mi girai per salutarla la mia bellissima sciarpa verde finì tra i raggi del motorino; quasi strozzandomi mi fece cadere e mi trascinò per qualche metro. Per mia fortuna fui soccorsa da un signore che mi caricò sulla sua macchina e mi portò subito al Pronto Soccorso. Ginocchia sbucciate, il lato sinistro del viso tumefatto, prognosi riservata per quindici giorni che passai ricoverata in ospedale.

Non mi ricordo di chi fu l’idea, ma quando uscii dall’ospedale io e Giuseppe decidemmo di andare a vivere insieme per poi sposarci. Martedì undici Ottobre, mentre eravamo a tavola per cenare, riferii ai miei genitori la nostra decisione. Mio padre, ovviamente, cercò di farmi ragionare dicendomi che ero troppo piccola e che non dovevo avere fretta ma, come al solito, la mia risposta non gli diede altro spazio per discutere:

“O me lo lasciate fare o me ne vado con lui.”

Per l’ennesima volta, mio padre, fu costretto ad accettare le mie condizioni, probabilmente per non perdermi di vista completamente. Giuseppe si trasferì a casa nostra lasciando, con mia somma gioia, quel postaccio che tanto odiavo. Dopo qualche mese i miei genitori andarono a fare i custodi per una villa del centro, lasciando a me e a Giuseppe l’appartamento.

Il tempo passava e io non trovavo un lavoro fisso; sapevo fare un po’ di tutto, ma non ero specializzata in niente e questo mi penalizzava. Mi arrangiavo con la maglieria, esattamente come la maggior parte dei carpigiani in quegli anni. Tagliavo i ricami, attaccavo i bottoni, facevo le finiture, e nel frattempo io e Giuseppe ci informavamo per sposarci.

L’unico ostacolo era dato dal fatto che ero ancora minorenne. Serviva il permesso del Tribunale dei Minori di Bologna, dietro autorizzazione dei miei genitori. Andammo dai servizi sociali che non capivano la mia ostinazione:

“Sei incinta?”

“Ma sei piccola, lascia perdere.”

“Ma sì, sei piccola, non sei incinta. Lascia perdere.”

Non c’erano le motivazioni per fare la richiesta di autorizzazione.

A metà del Gennaio 1978, il problema fu risolto. Potevo fare domanda di sposarmi: ero incinta.

Se ci ripenso ora mi vengono i brividi. Portai le urine in una farmacia vicino a casa e a metà pomeriggio mi diedero la conferma che il test era positivo. Ero una bambina e portavo in grembo un esserino, stavo dando la vita a mio figlio. Doveva, per forza di cose, essere frutto dell’ultimo dell’anno; quella sera avevamo festeggiato e anche un po’ bevuto. Del resto, però, era ciò che volevo: con un figlio mi sembrava di aver completato la famiglia che ho sempre desiderato. Fu una gravidanza da incubo. Arrivavo a rimettere anche sette volte in un giorno; i commenti che mi circondavano erano senza limite, del resto, però, avevano ragione ero veramente troppo piccola.

“Non mi sembra di avervi mai chiesto nulla, quindi fatevi i cazzi vostri. La mia bambina non si tocca, quando nasce avrà una mamma e un papà che si prenderanno cura di lei.” Questa era la tipica risposta che davo a chiunque mi parlasse di aborto e di adozione.  Intanto noi stavamo organizzando il matrimonio, la bambina doveva nascere per settembre quindi pensammo di fare il matrimonio e il battesimo insieme, perché Carpina e Luigi non sarebbero potuti venire al nord due volte a distanza di poco tempo, dovevano lavorare. 

Piano, piano cominciai a preparare il corredo per la mia bambina, io ne ero sicura anche senza gli esami che all’epoca non esistevano, sarebbe stata una femminuccia. Coprifascia, bavaglie, copertine confezionate da me con l’uncinetto o con i ferri. Non ci preoccupammo della cameretta, c’era la mia di quando ero da sola a disposizione e sarebbe andata benissimo. La decorammo con una fascia adesiva che percorreva tutto il perimetro del muro; appesa al soffitto Giuseppe aveva messo una rete da pesca da cui feci pendere fiori, farfalle, uccellini.

L’amica che mi stette più vicino fu Nadia; i nostri compagni si conoscevano già da qualche tempo e anche lei si sposò dopo aver partorito il suo primo figlio, Ernestino, che nacque a Febbraio del 1978. Nadia mi aiutò più che poté passandomi gli abitini che non andavano più bene a suo figlio, anche se erano da maschio. Io e Nadia ci assomigliavamo molto, due ragazzine carpigiane accompagnate a due meridionali che le fecero crescere troppo velocemente, ma del resto era ciò che entrambe volevamo e non sentivamo ragione alcuna se non la nostra.

   
 
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