L’ultimo
paradiso
Lo
sbarco del sergente Deidara
La
possente nave sbuffò
energicamente, proiettando una nuvola fumo nero nel cielo limpido, e le
pesanti
ancore furono calate in acqua fra gli spruzzi, andandosi a conficcare
nel
fondale di sabbia corallina.
“Maledetti
Tropici!” esclamò
rabbiosamente Pain, comandante dell’incrociatore della US
Navy “Democracy”,
schiacciando una zanzara che gli camminava sul collo e asciugandosi con
un
lurido fazzoletto la fronte e il viso imperlati di sudore.
“Caldo
infernale, tifoni, zanzare,
malaria, dissenteria e compagnia bella! Sembra di stare in una fogna!
Come se
non bastassero quei bastardi musi gialli con il loro
imperatore!” proseguì
scagliando fuoribordo lo straccio.
“Signore”
disse il primo ufficiale
Hidan, uomo molto devoto ma anche sboccato, avvicinandosi.
“Cos’altro
volete? Se è per
pregare chissà quale santo patrono di chissà cosa
per la buona riuscita della
missione, la mia risposta è NO!”.
“Volevo
solamente informarvi che
tutto è pronto per far sbarcare il nostro uomo”.
“Benone!
Non vedevo l’ora di
liberarmi di quella testa calda! Con i suoi discorsi mi ha quasi
provocato un
ammutinamento! Spero solo che non passi al nemico e si dimostri
all’altezza
della sua fama di combattente invincibile…Venite”
replicò Pain superando una
porta, seguito dall’ufficiale sudato e indispettito.
Contemporaneamente,
seduto per
terra sotto la sua amaca, il sergente Deidara stava preparando i propri
bagagli
per la missione che lo avrebbe trattenuto sull’isolotto per
periodo di tempo
indeterminato, da solo.
Era
un po’ assurdo che proprio lui
si trovasse lì e si vedesse affidare un incarico del genere.
Non
aveva mai nascosto, neanche in
tempi simili, di preferire la pace alle armi; nei mesi successivi a
Pearl Harbor
aveva promesso ai genitori, per accontentarli, che si sarebbe arruolato
volontario, ma una volta arrivato al test di leva aveva cercato di
scansarlo
fingendosi ritardato e insieme omosessuale.
Poiché
fu clamorosamente
smascherato, aveva deciso per una soluzione drastica: ma essendo stato
acciuffato ancora una volta, gli era stata infilata a forza
l’uniforme,
diventando lo zimbello dei commilitoni.
Una
volta spedito nel Pacifico,
come per redimersi di tutto quel che aveva combinato, si era
però trasformato:
si era distinto in numerose azioni, come l’assalto notturno a
una palude
presidiata da un numero soverchiante di nemici, o la volta in cui aveva
salvato
un suo superiore da un cecchino nipponico, poi ucciso in uno scontro
all’arma
bianca, guadagnandosi così i gradi e una medaglia.
Era
quindi divenuto una specie di
leggenda vivente fra i soldati, sia per le sue gesta che per le sue
idee
pacifiste, che paradossalmente continuava a sostenere.
In
quell’istante la porta si aprì
ed entrarono il comandante e il primo ufficiale, per cui Deidara
balzò in
piedi, ancora in canottiera, facendo il saluto militare.
“Riposo
sergente, riposo. Siete
pronto per la missione?”.
“Signorsì,
signore!”.
“Se
è così infilatevi la divisa e
seguiteci in coperta” al che il sergente ubbidì e
dopo un minuto la comitiva
lasciò la stanza.
Mentre
salivano sulla scala che
conduceva sul ponte la luce era accecante per Deidara, abituato ormai
al buio
della cabina dove passava ore a studiare la mappa dell’isola.
In
coperta si trovò davanti a dei
volti familiari, i marinai della “Democracy”con cui
aveva socializzato durante
il viaggio.
Una
delle casse contenenti il
necessario per la missione era già stata sistemata sulla
scialuppa; Sasori era
in piedi sulla poppa e stava ricevendo l’altra dalle mani
dello spensierato
Tobi; Kakuzu e Kisame erano già seduti ai loro posti, i
fucili sotto braccio.
Anche
Deidara, dopo aver subito
un’energica quanto ipocrita stretta di mano da parte di Pain,
prese posto
sull’imbarcazione, accolto da risate e pacche sulle spalle.
Il
comandante tenne un breve
discorso di congedo: “ Signori qui presenti,
quest’oggi il nostro valoroso
ospite, il celebre e decorato sergente Deidara, partirà per
una rischiosissima
missione in solitaria. Noi tutti gli auguriamo buona fortuna”
e mentre una
banda suonava, la scialuppa fu calata in acqua.
Sasori
avviò il motore e
l’imbarcazione si diresse verso l’isola che
emergeva a un miglio di distanza,
ma gli occhi del sergente erano rivolti alla nave e a Pain che da poppa
lo
fissava con sguardo severo, mentre alle sue spalle sventolava la
bandiera a
stelle e strisce.
Gli
uomini cantavano con gioia e
la barca filava a meraviglia sulle acque turchesi: in breve
toccò terra.
Con
grande fatica i marinai
posarono a terra le due casse, mentre Deidara, per ogni evenienza, si
armò:
coltello nella tasca dei pantaloni, fucile M1 Garand a tracolla, due
pistole
Colt nella giacca, bussola, baionetta e dieci granate nella borsa
legata alla
cintura.
“Come
ben sapete” disse Kakuzu
senza mollare l’arma “ la vostra missione
è quella di stabilire una stazione
radio e informarci sui movimenti giapponesi in quest’area.
Torneremo a
prendervi quando i tempi saranno maturi” concluse con un
sorriso pieno di
sottintesi.
“Grazie,
ma lo sapevo già. Per ora
non necessito di altro aiuto. Dimmi una cosa: ci sono giapponesi
qui?”.
“Oh
no, altrimenti non vi avremmo
fatto sbarcare. Black Island è completamente libera dai musi
gialli!”.
Quando
la scialuppa fu partita e
anche l’incrociatore fu sparito all’orizzonte,
Deidara si voltò a guardare la
fitta giungla che risuonava dei richiami degli uccelli.
“Se
sono solo allora posso
concedermi un po’ di riposo” pensò,
quindi si infilò l’elmetto, afferrò il
fucile e si avviò a cercare un buon posto dove schiacciare
un pisolino.
L’uomo
che lo stava osservando sin
dal suo sbarco abbassò il binocolo, fece dietrofront e
correndo fra palme,
liane e cespugli, arrivò al proprio covo segreto.
Il
tenente Sasuke Uchiha
dell’Esercito Imperiale giapponese aveva una bella notizia da
riferire al suo
superiore.
Davanti
a lui si trovava una
radura in cui sorgeva una capanna di legno con il pavimento in terra
battuta e
il tetto di giunchi.
Nello
stesso luogo sorgevano anche
un palo su cui sventolava la bandiera imperiale del Sol levante e un
mortaio e
una mitragliatrice da usarsi contro eventuali incursioni aeree.
Il
soldato entrò nella capanna.
In
un angolo si trovava una rozza
branda militare, sopra di cui era appoggiata, racchiusa in un nero
fodero, una
katana; la luce filtrava attraverso tende sporche e zanzariere mezze
divelte;
in tutta la stanza erano ammucchiate casse contenenti scorte di cibo,
acqua,
saké, medicinali, armi, munizioni, utensili, penne e fogli
di carta; in fondo
alla sala, sistemata su un vecchio tavolo insieme a una foto
dell’imperatore,
troneggiava una radio.
Sasuke
si sedette, la accese e la
sintonizzò su una certa frequenza.
Contemporaneamente,
su un
sommergibile che navigava molte miglia più a sud, un
ufficiale della Marina
Imperiale dall’uniforma sontuosa e piena di medaglie e
galloni aspettava
ansiosamente di mettersi in contatto con l’Uchiha
giocherellando con la spada
d’ordinanza.
“Mi
ricevete, capitano di vascello
Orochimaru?” gracchiò una voce alla radio.
Qui
è il tenente dell’Esercito
Imperiale Sasuke Uchiha. Passo”.
“Qui
è il capitano di vascello
Orochimaru del sommergibile I-89. Ci sono novità da Black
Island? Passo”.
“Sì,
e sono di fondamentale
importanza. Un incrociatore americano…”.
In
quell’istante un marinaio
irruppe nella cabina disturbando la conversazione.
“Signor
capitano!”.
“Cosa
c’è? Vattene idiota! Non lo
vedi che sono impegnato?”.
“Abbiamo
avvistato una
motosilurante nemica! Come procediamo?”.
“E
me lo domandi anche?! Colatela
a picco! Vogliate perdonarmi per il disturbo tenente. Continuate
pure”.
“Un
incrociatore americano ha
sbarcato un soldato con delle casse. Temo che voglia costruire anche
lui una
stazione radio. Chiedo istruzioni. Passo”.
“Confido
che saprete cavarvela
anche da voi. Liquidatelo. Passo e chiudo” disse Orochimaru
infilandosi il
cappello e uscendo dalla stanza per seguire la caccia
all’unità nemica.
Senza
perdere tempo Sasuke
imbracciò un fucile da cecchino, lo caricò, si
mise a tracolla un lungo arco di
legno, si appese alla cintura una faretra con circa dieci frecce e
partì per
uccidere l’intruso.
Dopo
aver compiuto il giro
completo delle spiagge dell’isola, Deidara non si sentiva
più i piedi e si
lasciò cadere sulla sabbia bianchissima.
“Proprio
una bella situazione!”
commentò fra sé e sé. “Da
solo, non si sa fino a quando, con cibo e munizioni
contati, con il compito di costruire una radio che so a malapena usare,
sperduto su un fazzoletto di terra fra
A
qualche centinaio di metri di
distanza aveva notato un posticino perfetto per riposarsi.
“E’
tutta colpa del caldo e degli
insetti” brontolava il sergente incespicando sulle dune.
“
E di chi ha voluto fare questa
guerra! Non potevano restare neutrali, no? E quei matti dei giapponesi?
E
Hitler,
Al
termine dell’invettiva Deidara
era giunto vicino a un ruscello che sfociava in mare con una piccola
cascata.
Si
sistemò all’ombra, sotto un
grosso albero, vicino a una roccia.
La
sabbia era di una temperatura
gradevole e non lo ustionava.
La
stanchezza della marcia sotto
il sole e del veemente discorso era opprimente; a momenti stava per
chiudere
gli occhi.
In
fondo, se non c’erano nemici
sull’isola, che motivi c’erano di stare sempre in
guardia con il fucile
puntato?
E
anche a quella benedetta radio
ci avrebbe pensato dopo.
Quella
su cui era sdraiato
sembrava tanto una spiaggia della sua assolata California…
Improvvisamente
una noce di cocco
cadde a terra vicino a lui.
“La
fortuna gira dalla mia! Stavo
proprio morendo di sete, e mi ero dimenticato la borraccia!”
esclamò
l’americano raccogliendola.
Intanto
alle sue spalle la canna
di un fucile spuntò dal fogliame.