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Autore: Federico    08/04/2009    0 recensioni
Dopo tanto tempo torno a scrivere di Naruto, quindi vi chiedo per favore di leggere questa storia, se non vi dispiace. Ho notato ultimamente molte storie ambientate durante la Seconda guerra mondiale, e ho deciso di dare il mio contributo.
Anno 1942, Pacifico meridionale: mentre la guerra infuria, il sergente dell’esercito americano Deidara sbarca su un’isola deserta con l’incarico di costruire una radio per informare i suoi superiori sulle manovre nemiche. Quel che non sa è che su Black Island si trova anche il tenente giapponese Sasuke Uchiha, con la stessa missione… Fra i due ci sarà uno scontro? Prevarrà la pace o la guerra? L’odio o l’amicizia? Riusciranno navi e sottomarini a portare la guerra nell’ultimo paradiso terrestre?
Nota: Le vicende narrate sono verosimili ma inventate. Fatti e luoghi qui descritti sono stati immaginati solo da me.
Genere: Azione, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki, Deidara, Orochimaru, Sasuke Uchiha
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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L’ultimo paradiso

 

Lo sbarco del sergente Deidara

 

La possente nave sbuffò energicamente, proiettando una nuvola fumo nero nel cielo limpido, e le pesanti ancore furono calate in acqua fra gli spruzzi, andandosi a conficcare nel fondale di sabbia corallina.

“Maledetti Tropici!” esclamò rabbiosamente Pain, comandante dell’incrociatore della US Navy “Democracy”, schiacciando una zanzara che gli camminava sul collo e asciugandosi con un lurido fazzoletto la fronte e il viso imperlati di sudore.

“Caldo infernale, tifoni, zanzare, malaria, dissenteria e compagnia bella! Sembra di stare in una fogna! Come se non bastassero quei bastardi musi gialli con il loro imperatore!” proseguì scagliando fuoribordo lo straccio.

“Signore” disse il primo ufficiale Hidan, uomo molto devoto ma anche sboccato, avvicinandosi.

“Cos’altro volete? Se è per pregare chissà quale santo patrono di chissà cosa per la buona riuscita della missione, la mia risposta è NO!”.

“Volevo solamente informarvi che tutto è pronto per far sbarcare il nostro uomo”.

“Benone! Non vedevo l’ora di liberarmi di quella testa calda! Con i suoi discorsi mi ha quasi provocato un ammutinamento! Spero solo che non passi al nemico e si dimostri all’altezza della sua fama di combattente invincibile…Venite” replicò Pain superando una porta, seguito dall’ufficiale sudato e indispettito.

Contemporaneamente, seduto per terra sotto la sua amaca, il sergente Deidara stava preparando i propri bagagli per la missione che lo avrebbe trattenuto sull’isolotto per periodo di tempo indeterminato, da solo.

Era un po’ assurdo che proprio lui si trovasse lì e si vedesse affidare un incarico del genere.

Non aveva mai nascosto, neanche in tempi simili, di preferire la pace alle armi; nei mesi successivi a Pearl Harbor aveva promesso ai genitori, per accontentarli, che si sarebbe arruolato volontario, ma una volta arrivato al test di leva aveva cercato di scansarlo fingendosi ritardato e insieme omosessuale.

Poiché fu clamorosamente smascherato, aveva deciso per una soluzione drastica: ma essendo stato acciuffato ancora una volta, gli era stata infilata a forza l’uniforme, diventando lo zimbello dei commilitoni.

Una volta spedito nel Pacifico, come per redimersi di tutto quel che aveva combinato, si era però trasformato: si era distinto in numerose azioni, come l’assalto notturno a una palude presidiata da un numero soverchiante di nemici, o la volta in cui aveva salvato un suo superiore da un cecchino nipponico, poi ucciso in uno scontro all’arma bianca, guadagnandosi così i gradi e una medaglia.

Era quindi divenuto una specie di leggenda vivente fra i soldati, sia per le sue gesta che per le sue idee pacifiste, che paradossalmente continuava a sostenere.

In quell’istante la porta si aprì ed entrarono il comandante e il primo ufficiale, per cui Deidara balzò in piedi, ancora in canottiera, facendo il saluto militare.

“Riposo sergente, riposo. Siete pronto per la missione?”.

“Signorsì, signore!”.

“Se è così infilatevi la divisa e seguiteci in coperta” al che il sergente ubbidì e dopo un minuto la comitiva lasciò la stanza.

Mentre salivano sulla scala che conduceva sul ponte la luce era accecante per Deidara, abituato ormai al buio della cabina dove passava ore a studiare la mappa dell’isola.

In coperta si trovò davanti a dei volti familiari, i marinai della “Democracy”con cui aveva socializzato durante il viaggio.

Una delle casse contenenti il necessario per la missione era già stata sistemata sulla scialuppa; Sasori era in piedi sulla poppa e stava ricevendo l’altra dalle mani dello spensierato Tobi; Kakuzu e Kisame erano già seduti ai loro posti, i fucili sotto braccio.

Anche Deidara, dopo aver subito un’energica quanto ipocrita stretta di mano da parte di Pain, prese posto sull’imbarcazione, accolto da risate e pacche sulle spalle.

Il comandante tenne un breve discorso di congedo: “ Signori qui presenti, quest’oggi il nostro valoroso ospite, il celebre e decorato sergente Deidara, partirà per una rischiosissima missione in solitaria. Noi tutti gli auguriamo buona fortuna” e mentre una banda suonava, la scialuppa fu calata in acqua.

Sasori avviò il motore e l’imbarcazione si diresse verso l’isola che emergeva a un miglio di distanza, ma gli occhi del sergente erano rivolti alla nave e a Pain che da poppa lo fissava con sguardo severo, mentre alle sue spalle sventolava la bandiera a stelle e strisce.

Gli uomini cantavano con gioia e la barca filava a meraviglia sulle acque turchesi: in breve toccò terra.

Con grande fatica i marinai posarono a terra le due casse, mentre Deidara, per ogni evenienza, si armò: coltello nella tasca dei pantaloni, fucile M1 Garand a tracolla, due pistole Colt nella giacca, bussola, baionetta e dieci granate nella borsa legata alla cintura.

“Come ben sapete” disse Kakuzu senza mollare l’arma “ la vostra missione è quella di stabilire una stazione radio e informarci sui movimenti giapponesi in quest’area. Torneremo a prendervi quando i tempi saranno maturi” concluse con un sorriso pieno di sottintesi.

“Grazie, ma lo sapevo già. Per ora non necessito di altro aiuto. Dimmi una cosa: ci sono giapponesi qui?”.

“Oh no, altrimenti non vi avremmo fatto sbarcare. Black Island è completamente libera dai musi gialli!”.

Quando la scialuppa fu partita e anche l’incrociatore fu sparito all’orizzonte, Deidara si voltò a guardare la fitta giungla che risuonava dei richiami degli uccelli.

“Se sono solo allora posso concedermi un po’ di riposo” pensò, quindi si infilò l’elmetto, afferrò il fucile e si avviò a cercare un buon posto dove schiacciare un pisolino.

L’uomo che lo stava osservando sin dal suo sbarco abbassò il binocolo, fece dietrofront e correndo fra palme, liane e cespugli, arrivò al proprio covo segreto.

Il tenente Sasuke Uchiha dell’Esercito Imperiale giapponese aveva una bella notizia da riferire al suo superiore.

Davanti a lui si trovava una radura in cui sorgeva una capanna di legno con il pavimento in terra battuta e il tetto di giunchi.

Nello stesso luogo sorgevano anche un palo su cui sventolava la bandiera imperiale del Sol levante e un mortaio e una mitragliatrice da usarsi contro eventuali incursioni aeree.

Il soldato entrò nella capanna.

In un angolo si trovava una rozza branda militare, sopra di cui era appoggiata, racchiusa in un nero fodero, una katana; la luce filtrava attraverso tende sporche e zanzariere mezze divelte; in tutta la stanza erano ammucchiate casse contenenti scorte di cibo, acqua, saké, medicinali, armi, munizioni, utensili, penne e fogli di carta; in fondo alla sala, sistemata su un vecchio tavolo insieme a una foto dell’imperatore, troneggiava una radio.

Sasuke si sedette, la accese e la sintonizzò su una certa frequenza.

Contemporaneamente, su un sommergibile che navigava molte miglia più a sud, un ufficiale della Marina Imperiale dall’uniforma sontuosa e piena di medaglie e galloni aspettava ansiosamente di mettersi in contatto con l’Uchiha giocherellando con la spada d’ordinanza.

“Mi ricevete, capitano di vascello Orochimaru?” gracchiò una voce alla radio.

Qui è il tenente dell’Esercito Imperiale Sasuke Uchiha. Passo”.

“Qui è il capitano di vascello Orochimaru del sommergibile I-89. Ci sono novità da Black Island? Passo”.

“Sì, e sono di fondamentale importanza. Un incrociatore americano…”.

In quell’istante un marinaio irruppe nella cabina disturbando la conversazione.

“Signor capitano!”.

“Cosa c’è? Vattene idiota! Non lo vedi che sono impegnato?”.

“Abbiamo avvistato una motosilurante nemica! Come procediamo?”.

“E me lo domandi anche?! Colatela a picco! Vogliate perdonarmi per il disturbo tenente. Continuate pure”.

“Un incrociatore americano ha sbarcato un soldato con delle casse. Temo che voglia costruire anche lui una stazione radio. Chiedo istruzioni. Passo”.

“Confido che saprete cavarvela anche da voi. Liquidatelo. Passo e chiudo” disse Orochimaru infilandosi il cappello e uscendo dalla stanza per seguire la caccia all’unità nemica.

Senza perdere tempo Sasuke imbracciò un fucile da cecchino, lo caricò, si mise a tracolla un lungo arco di legno, si appese alla cintura una faretra con circa dieci frecce e partì per uccidere l’intruso.

Dopo aver compiuto il giro completo delle spiagge dell’isola, Deidara non si sentiva più i piedi e si lasciò cadere sulla sabbia bianchissima.

“Proprio una bella situazione!” commentò fra sé e sé. “Da solo, non si sa fino a quando, con cibo e munizioni contati, con il compito di costruire una radio che so a malapena usare, sperduto su un fazzoletto di terra fra la Nuova Guinea e Guadalcanal, senza l’ombra di un solo nemico!” e dicendo così si rialzò.

A qualche centinaio di metri di distanza aveva notato un posticino perfetto per riposarsi.

“E’ tutta colpa del caldo e degli insetti” brontolava il sergente incespicando sulle dune.

“ E di chi ha voluto fare questa guerra! Non potevano restare neutrali, no? E quei matti dei giapponesi? E Hitler, la Francia, l’Inghilterra, Mussolini, Stalin? Come se fosse divertente ammazzarsi a vicenda! Alla fine tutto rimane come prima: chi è ricco è ricco, chi ha fame ha fame. E come se non bastasse c’è ancora più gente che piange. E poi ogni volta dicono che sarà l’ultima guerra, e neanche dieci anni dopo eccotene un’altra! Menomale che vinceremo noi. Sissignore, questa guerra potrà durare anche trecento anni, ma la vinceremo. O almeno così dice la propaganda... E io dovrò dare il mio contributo, come ho già fatto del resto! Io il pacifista per antonomasia! E’ UNO SPORCO LAVORO, MA QUALCUNO DEVE PUR FARLO!”.

Al termine dell’invettiva Deidara era giunto vicino a un ruscello che sfociava in mare con una piccola cascata.

Si sistemò all’ombra, sotto un grosso albero, vicino a una roccia.

La sabbia era di una temperatura gradevole e non lo ustionava.

La stanchezza della marcia sotto il sole e del veemente discorso era opprimente; a momenti stava per chiudere gli occhi.

In fondo, se non c’erano nemici sull’isola, che motivi c’erano di stare sempre in guardia con il fucile puntato?

E anche a quella benedetta radio ci avrebbe pensato dopo.

Quella su cui era sdraiato sembrava tanto una spiaggia della sua assolata California…

Improvvisamente una noce di cocco cadde a terra vicino a lui.

“La fortuna gira dalla mia! Stavo proprio morendo di sete, e mi ero dimenticato la borraccia!” esclamò l’americano raccogliendola.

Intanto alle sue spalle la canna di un fucile spuntò dal fogliame.

  
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