EPISODIO 3 - The Arrival
"Cos'è che hai fatto??" Chiese River. Dall'altra parte del
telefono
Jack sembrava serissimo. "Ho trovato delle guide che ci portino in una
casa infestata!" "Kit mi ammazza. Lo sai questo vero?" "Oh
non preoccuparti, probabilmente prima ammazzerà me con
un'occhiata
glaciale." Questa volta River non rise, era perplessa e non aveva una
risposta pronta. Sì certo, andava matta per gli horror, ma
da lì a viverlo in
prima persona ce ne passava. E Jack non sembrava esattamente il massimo
dell'affidabilità
in caso di pericolo. Era un primo pomeriggio soleggiato come al solito,
River
era in piedi in camera sua e teneva il cellulare premuto contro
l’orecchio
sinistro, come faceva sempre quando riceveva notizie importanti, come
se
potesse capire meglio ogni parola tenendo il telefono il più
possibile vicino
al timpano. "Dobbiamo incontrarli domani pomeriggio e ci spiegheranno
tutto quello che dobbiamo sapere. Non preoccuparti, sono degli esperti"
concluse Jack con semplicità.
Terminata
la chiamata, River si passò una
mano sulla fronte. “Ma che sto facendo?” Certo,
l’idea era stranamente
allettante. Anni prima cambiava canale appena percepiva
un’atmosfera di terrore
nei film che davano in tv, ma passando dal leggere creepypasta sempre e
rigorosamente di mattina era riuscita alla fine ad abituarsi a guardare
horror
gameplay a notte fonda, cercando di soffocare con le mani gli urletti
che le
uscivano spontanei. Non solo si era abituata, ma andava matta per quel
brivido,
quella sensazione mista di terrore ed adrenalina, quei momenti in cui
non
sapeva se ridere o piangere e finiva per fare entrambe le cose. Era
anche vero
però che sentiva ancora i brividi quando ascoltava un
qualsiasi episodio di
“Cry reads”, complice la sua voce così
espressiva, tanto da essere costretta a
fare numerose pause nell’ascolto per prendere fiato, e questo
la preoccupava.
Eppure sapeva che Jack sarebbe stato lì. Poteva anche essere
spericolato, ma
ormai lo conosceva e se fosse rimasta incollata a lui le avrebbe dato
un senso
di sicurezza, per quanto precaria. Forse il suo modo di fare si sarebbe
ancora
una volta rivelato utile nello smorzare la tensione.
"IO
non vengo." Sylvie aveva ascoltato dalla stanza adiacente, ed era
irremovibile "mi è bastato sentire i racconti delle colleghe
su Dublino, e
ti ricordi quando stavamo guardando quello stupido splatter e ho
lanciato in
aria la tazza di tè per lo spavento? Nononono. Dovrai
chiedere a Kit." A
dire la verità non era stato nemmeno necessario chiedere,
River non aveva neanche
fatto in tempo a terminare di scrivere il messaggio su whatsapp
– di parlare di
persona non se ne parlava, non ne avrebbe avuto il coraggio - che Kit
aveva già
capito e risposto: "Oh ovvio che ci vengo anche io” scrisse,
“Non so che
diavolo vi siete messi in testa ma non ci piove che venga anche io.
Dove è
questo famoso appuntamento?"
Quando
Ken e Mark si presentarono
all’appuntamento, Evan aprì la porta con un
sorriso smagliante: "Benvenuti!
Mi avete salvato la pelle!" "Non fate caso a lui” - lo
interruppe
Wesley, scostandolo “delicatamente” dalla porta con
uno spintone - “Buongiorno
a tutti, mettetevi comodi". L’appartamento dei due ragazzi
era spazioso,
dalle pareti chiare, ed Evan aveva probabilmente cercato di mettere
ordine
anche se negli angoli della stanza facevano capolino scatoloni dal
contenuto
ignoto. La porta d’entrata dava su un ampio salotto alla cui
destra si trovava
il grande bancone della cucina, al centro un divano e sulla sinistra un
tavolo
di legno scuro. River, indossando una camicetta di jeans ed una lunga
gonna
chiara, era seduta sul divano, mentre Kit aveva deciso di rimanere in
piedi,
dando le spalle ad una grande finestra. Appena Ken e Mark ebbero
raggiunto il
centro della stanza, Jack emerse da dietro il bancone della cucina: "Ho
trovato una Guinness, mi sono servito. Salute!" sollevò la
bottiglia in
direzione del salotto e ne bevve un gran sorso. "Che figure"
pensarono River e Kit (o forse Kit pensò qualcosa di
peggio). Il trio era
arrivato pochi minuti prima, ed il secondo incontro tra Jack e Kit non
era
stato dei migliori, come si poteva prevedere. Kit aveva da allora
assunto un
atteggiamento prevenuto, e stava sulla difensiva. Anche se, per dire la
verità,
la sua migliore difesa era l’attacco. “Comunque
è maleducazione portare il
cappello in casa.” Sibilò. Jack si
fermò nel bel mezzo del sorso, abbassò la
bottiglia e per un secondo rimase immobile. Alla fine si decise a
deglutire, e
con un gesto secco si tolse il basco grigio mostrando una capigliatura
rossiccia, corta e leggermente brizzolata, per poi sedersi poco
elegantemente
sul divano, tenendo sulle gambe il suo fedele cappello. Ora che erano
tutti
presenti (e visibili!) iniziarono le presentazioni. Mark era un tipo
particolare, dai tratti leggermente orientali. I suoi capelli neri
erano folti
e disordinati, e portava la barba lunga di qualche giorno. Al primo
impatto, River
non poté fare a meno di pensare che sembrasse avere qualcosa
di fuori posto.
Tanto per cominciare aveva una voce molto profonda, in assoluto
contrasto con
la sua statura - era alto appena qualche centimetro più di
lei -. Nonostante
ciò sembrava un concentrato di energia: era allo stesso
tempo potente e minuto.
Quando si presentò si notò da subito la sua
indole, educata e cordiale. Non
somigliava a nessuno che River avesse mai incontrato. La coppia di
amici Wes ad
Evan era decisamente ben assortita: mentre Wes parlava poco, Evan
prendeva la
parola appena c’era un momento di silenzio, ridendo di gusto
ai suoi stessi
giochi di parole, che non erano proprio di alta qualità.
Come Jack, era
esuberante e self confident, forse meno sguaiato ma con la stessa alta
considerazione di se stesso. Quello che interessò
maggiormente River fu che
Evan non era esattamente la perfezione fatta a persona: per leggere i
messaggi
sul cellulare doveva avvicinare lo schermo a pochi centimetri dal
volto, aveva
qualche chilo di troppo e si vedeva che i suoi capelli, una volta
corti, erano
cresciuti troppo, acquistando una forma indefinibile e disordinata.
Buffo, data
la cura che Wes sembrava avere per i suoi lisci capelli rossi! Eppure
non si
poteva definire un perdente, perché il suo modo di fare
sicuro compensava
qualsiasi sua caratteristica negativa. Tra tutti, Ken rimaneva la
persona più
indecifrabile: era silenzioso, ma avanzava timidi sorrisi a chi
incrociava il
suo sguardo. Era seduto curvo sul divano e rigirava nervoso il
cellulare tra le
mani. “Allora, di cosa si tratta esattamente”
chiese infine. In fondo non aveva
idea di che cosa avesse accettato di fare e per la verità
nemmeno aveva idea di
chi fosse davvero Mark. Tutto ciò che sapeva era che si era
trasferito di
recente e che aveva una passione smodata per la palestra ed i
videogiochi. Del
suo passato non conosceva una virgola. Ken sentì un brivido
percorrergli la schiena.
“Sono un giornalista sportivo, per la miseria. Il massimo del
rischio è cercare
di non farmi tirare sotto da giocatori di football alticci a bordo
delle loro
macchine sportive” si disse, e guardò Mark, che
era seduto accanto a lui.
Indossava una maglietta rossa con sopra stampata una M a caratteri
cubitali, e
sfoggiava un sorriso bianchissimo e smagliante. "Sembra quasi un
supereroe, con quei muscoli e quel ciuffo di capelli fluenti."
Lo
strano gruppo venne riunito intorno al
grande tavolo di legno scuro al centro del salotto, dove Evan e Wes,
rimanendo
in piedi, iniziarono a spiegare il funzionamento degli "attrezzi da
lavoro": videocamere ad infrarossi, torce, registratori[1].
“Posso dire una cosa?” Chiese Ken dopo qualche
minuto, alzando la mano. Aveva
evidentemente riflettuto sulla possibilità di fare quella
domanda dal primo
momento in cui aveva messo piede in quella casa. “Sssh,
lasciali finire” Mark
gli diede una gomitata sul braccio, e si rimise in posizione di
ascolto, le
braccia in grembo, occhi e bocca spalancati. “Giuro che se
non gli do’ un pugno
in testa adesso...” Il pensiero assassino di Ken venne
interrotto dalla voce
calma di Wes, che lo pregava di proseguire. Ken era titubante, ma alla
fine,
lisciandosi la folta barba, riuscì a fare uscire di bocca
queste parole,
accompagnate da gesti nervosi della mano: “Ecco ma
noi..esattamente..cosa ci
dovremmo trovare in quella casa?”
Gli
sguardi prima puntati su Ken si spostarono tutti contemporaneamente
sui due ragazzi. Evan si sedette, inclinò la testa dubbioso
e si sistemò gli
occhiali con il suo famoso gesto. Infine appoggiò una mano
sulla sua gamba e
disse rivolto a Wes: “eh sì..questo non lo so
neanche io.”
Wes
temeva che non sarebbe passato molto tempo prima di dover
rispondere ad una domanda simile, e per questo si era preparato a
dovere. “Si
tratta di un palazzo di quattro piani, compreso il piano
terra” iniziò
“apparteneva ad una coppia. Pare che lei fosse una pittrice,
ed i suoi quadri sono
particolarmente..inquietanti” disse con gli occhi bassi.
“In che senso?” chiese
Evan, che non poté nascondere un fievole tremito nella sua
voce. Wes dapprima
non disse niente, si sistemò i capelli dietro le orecchie e
iniziò a digitare
qualcosa sulla tastiera del suo portatile, che si trovava
anch’esso sul tavolo
insieme al resto dell’attrezzatura. Quando Wes
girò il computer in direzione
del gruppo rimasero tutti senza parole. Rosso. Questo è
quello che si poteva
dire di quell’opera. Il colore era denso, corposo, quasi
carnoso, come fosse
stato steso con le mani. La sola vista dava un senso di disagio. Non
rappresentava nulla, non si riusciva a coglierne il disegno, ma si
poteva quasi
vedere il gesto della donna che stendeva il colore a piene mani, con
forza e
rabbia. Wes proseguì: “Voci dicono che questi
quadri fossero il frutto della
sofferenza della donna che non poteva avere figli. Quello che
è certo è che
dopo pochi anni di matrimonio il marito impazzì, e della
donna non si seppe più
nulla”. Nessuno disse nulla, perché i loro
pensieri facevano troppo rumore.
Stavano iniziando a toccare con mano quello che avrebbero affrontato da
lì a
pochi giorni. Evan si portò istintivamente la mano al cuore,
per una frazione
di secondo, per poi riportarla sulla sua gamba, sperando che nessuno
avesse
notato il suo gesto. Anni prima lo aveva sentito smettere di battere, e
quella
sensazione non lo aveva mai più abbandonato. Anche se era
successo nel suo
garage e non sul lavoro, non poteva fare a meno di pensare a come aveva
sfiorato la morte molte volte in luoghi freddi e bui. Ma non avrebbe
mai
dimenticato l’evento che, una volta per tutte, lo aveva
portato a prendere la
decisione definitiva di abbandonare quel
mestiere. Chiuse gli occhi e si trovò di nuovo
in una nave da poco
recuperata dagli abissi. Quando Evan si era addentrato nel ventre della
nave
aveva subito percepito che qualcosa quel giorno non andava. Accese il
registratore
e chiese nel silenzio: “Non ti piaccio?”.
Aspettò qualche secondo, rimandò
indietro il nastro e premette “play”. Quello che
sentì gli raggelò il sangue
nelle vene. “Non ti
piaccio?---Ti-----ucciderò----“. Evan spense il
registratore, e non lo accese mai più. In un battito di
ciglia rivisse tutto
questo, e le sue mani iniziarono a tremare.
River
guardò Jack in cerca di conforto. Il
ragazzo guardava fisso davanti a sé pensieroso, stringeva
nella mano destra il
suo cappello e nell’altra la bottiglia di birra, da cui non
aveva più bevuto un
solo sorso. Accortosi dello sguardo di River le sorrise, ma non come
sempre.
Persino Mark aveva perso la sua aria festosa, ed aveva ora
un’espressione
indefinibile, a metà tra il “no grazie”
ed il “voglio assolutamente sapere
cos’è successo”.
Ken
chiuse la portiera con forza.
“Heeey è già abbastanza distrutta
quest’auto!” si lamentò Evan dal posto
di
guida. In effetti l’intera fiancata destra era segnata da
un’unica riga priva
di vernice, che la attraversava completamente. Evan adorava guidare, ed
anche se
la sua vista non rendeva semplice l’impresa lui non era uno
che si faceva
fermare facilmente. Il minivan, carico dei sette avventurieri, si
diresse sotto
il sole pomeridiano in direzione del palazzo. La compagnia, tutto
sommato, era
allegra. Sembrava che Mark e Jack avessero la stessa lunghezza
d’onda: si erano
seduti vicini, ed essendo il mezzo affollato erano praticamente uno in
braccio
all’altro. “Com’è romantico!
Un po’ come una luna di miele” commentò
Mark
ridendo, e Jack rispose prontamente: “eh ma che schifo di
luna di miele!” “Perché?”
chiese Mark ironico, non aspettandosi alcuna risposta, ma Jack
guardandosi
intorno, sbuffò: “tanto per cominciare,
è un po’ troppo affollata”. Nemmeno Kit
aveva potuto fare a meno di ridere, coprendosi la bocca con la mano.
Pochi
minuti dopo arrivarono alla strada della meta e le risate lasciarono
spazio
alla tensione. Evan parcheggiò l’auto in un vicolo
a destra dell’alto palazzo
di mattoni rossi. Una scala antincendio arrugginita, con qualche
gradino
mancante, saliva fino al tetto. Nonostante la casa fosse evidentemente
diroccata, le finestre erano molto sporche, ma sembravano tutte
intatte. Il
cielo era ancora chiaro, ed avevano ancora un po’ di tempo
per prepararsi: scesi
dalla macchina seguirono le istruzioni di Evan, e ciascuno si
munì di torcia da
cintura e ricetrasmittente. Wes poi consegnò a tutti una
piccola telecamera da
fissare sulla spalla. “Ora dovremmo dividerci i ruoli. Come
vi ho detto a casa
è necessario fissare quante più telecamere
possibile in punti strategici, così
che io possa tenere sotto controllo la situazione da una stanza sicura.
O
almeno, relativamente vicina all’uscita. Squadre?”
Evan, senza parlare, si mise
in spalla senza indugio uno dei due zaini che contenevano le
telecamere. “Penso
che sarebbe una buona idea andare con lui”
sussurrò Jack a River. River esaminò
la situazione: Wes sarebbe rimasto all’entrata per monitorare
la situazione, ed
effettivamente l’unico che sapeva cosa stava facendo era
Evan. Si guardò in
giro: Mark aveva percorso i dieci passi dall’automobile al
cancello ripetendo
“non mi piace..ooooh non mi piace per niente..non mi
piace..”, Ken teneva le
mani sui fianchi, la testa inclinata in avanti coperta dal cappuccio
della
felpa e non aveva detto una parola da quando erano arrivati. Per quanto
riguarda Kit, si vedeva che si trovava in quel luogo controvoglia, ma
d’altra
parte se aveva preso questa decisione era per controllare la
situazione, per
proteggere lei. River era più che mai dubbiosa: Evan era
sicuro, ma cosa era
giusto fare? Ovviamente scegliere Kit, ma come dirlo a Jack? Come
lasciarlo da
solo? Inaspettatamente, Mark uscì dal suo stato paranoide e
risolse il
problema: afferrò il secondo zaino inforcandolo sulla spalla
destra ed agganciò
Ken con un braccio e Kit – che era più vicino a
lui degli altri componenti del
gruppo - con
l’altro, trascinandoli
verso l’entrata a passo di marcia ed urlando
“Avaaaaaanti!”. “Oh beh, immagino
che abbiamo deciso” commentò Wes perplesso, ed
allungarono il passo per
raggiungere Mark. Ormai
si stava facendo
buio, e se volevano avere una chance di vantaggio su qualunque cosa
abitasse
quel palazzo dovevano muoversi. Attraversarono il piccolo giardino
inselvatichito, a stento individuando il passaggio che si snodava tra
l’erba
ormai alta. Pochi passi, un paio di scalini, ed arrivarono davanti alla
piccola
porta principale. Lo
slancio di Mark era
durato ben poco e non aveva avuto il coraggio di aprire. Fu Wesley,
carico di
zaini e valigette di attrezzatura, a passare avanti. Allungò
una mano per abbassare
la maniglia, ed il portone si aprì silenzioso.
Li
accolse un ampio atrio, quasi completamente vuoto.
All’interno,
solo due grandi vasi blu nell’angolo, una bassa cassettiera
in legno sulla
parete di sinistra accanto ad una porta aperta, e davanti a loro una
rampa di
scale che conduceva ai tre piani superiori. L’ultima luce
della giornata
penetrava dalle finestre nonostante fossero coperte da uno spesso
strato di
polvere. River aveva il cuore a mille, e Jack si fece più
vicino a lei. Anche
lui era nervoso e si mordeva il labbro. Il silenzio era quasi
assordante, e si
sentivano solo i loro passi mentre, titubanti, esploravano la prima
stanza, sempre
rimanendo compatti. Wesley, con la valigetta in mano e lo zaino in
spalla, sbirciò
attraverso la porta aperta, trovando davanti a lui solo quello che
rimaneva di
una cucina. “Ok..si sale”. La stanza superiore era
una copia pressoché identica
all’ingresso, solo più piccola perché
questa volta erano due i corridoi che si
aprivano, uno da ciascun lato. “Penso che questo possa essere
un buon posto”
disse alla fine Wes, appoggiando per terra i suoi pesanti fardelli.
Spostò
verso il centro della stanza un tavolo polveroso prima appoggiato al
muro e si
mise immediatamente al lavoro per collegare i monitor. Era tempo per le
due
squadre di partire: “tutti pronti?” chiese Evan
impaziente. Voleva terminare il
suo compito prima che la luce del giorno sparisse dietro le colline.
“No,
aspetta” disse Kit “Voglio andare con
loro” affermò guardando Evan, Jack e River.
Quest’ultima cercò di rassicurare Kit, dicendo che
quella era solo la fase
preliminare, che in fondo era ancora chiaro e che sarebbe andato tutto
bene.
Kit avanzò qualche dubbio, ma alla fine si fece convincere.
Le due squadre si
salutarono e partirono ciascuna per un corridoio diverso, da cui si
dipartivano
scale indipendenti che portavano ai piani superiori.
Mentre
Ken, Mark e Kit erano partiti istintivamente di corsa, in modo
tale da coprire tutti i punti di riferimento nel minore tempo possibile
- cioè
prima che facesse buio - Evan guidava la spedizione con
professionalità, ma
dentro di sé stava tremando. Lui, Jack e River procedevano
con calma ed
attenzione, l’atmosfera era ancora relativamente tranquilla,
e tutti, complice
la luce del sole, sentivano quella piacevole dose di adrenalina ed
euforia,
come prima di una corsa sulle montagne russe. Avventurandosi
nell’edificio
sconosciuto, River fu contenta di vedere negli altri ragazzi la sua
stessa
reazione: ad ogni rumore seguivano risolini agitati, che si
trasformavano in
timide risate genuine al sentire i commenti degli altri. La voce di
Jack si
faceva sempre più acuta ad ogni stanza che esploravano, fino
ad arrivare, dopo
uno scricchiolio particolarmente forte, ad uno strozzato “ooohohoho
smettilaaa”, che a dire di Jack
era stato udibile solo dai cani. In tutto questo Evan cercava di
mantenere una
parvenza di calma sbirciando dalle porte aperte e commentando
“mmmh non mi fido
di questa stanza..e nemmeno di questa..qua credo non
toccherò niente..” mentre
avanzavano nella polvere seguendo
traballanti la mappa consegnata da Wesley.
Nel
frattempo Kit si stava maledicendo per non aver protestato
abbastanza: Mark guidava sorridente la spedizione, e proseguiva a passo
di
marcia ondeggiando le braccia mentre, con la sua voce da baritono,
cantava a
squarciagola una allegra canzoncina.
Ken, in una tale situazione surreale, non riusciva a
smettere di ridere, tanto che aveva dovuto
fermarsi un paio di volte per riprendere fiato. A quel punto
l’unica soluzione
era quella di finire in fretta il lavoro, ed in effetti
mentre
Jack, sostenuto da Evan, si arrampicava su una sedia per
montare la seconda telecamera del terzo piano, la seconda squadra si
trovava al
quarto ed ultimo piano, e Ken aveva piazzato l’ultima
telecamera nella
posizione stabilita. Appena fatto ciò, Mark urlò
nella ricetrasmittente
“fattofattofattofatto”, ed il trio, accese le
torce, iniziò a correre a perdifiato
verso la stanza di Wes, perché il sole era ormai tramontato.
Gli
occhi di Wes stavano guizzando da una telecamera all’altra,
non sarebbe stato
tranquillo finché gli altri non fossero tornati nella stanza
centrale. Pochi
secondi dopo qualcosa attirò la sua attenzione: una sagoma
scura, un movimento
brusco che attraversò velocissimo tre telecamere. “Merda”
disse Wes alzandosi di scatto. Nessuno
aveva ancora raggiunto la sua postazione quando afferrò la
ricetrasmittente ed
iniziò a ripetere “Corridoio ovest, corridoio
ovest, chi c’è in corridoio
ovest??”. Jack, Evan e River, sentito Wes, si girarono
istantaneamente, ma
l’intero edificio venne avvolto
nell’oscurità. Nel silenzio della stanza scura,
anche la luce dei monitor che si rifletteva negli occhi chiari di Wes,
improvvisamente, svanì.
EPISODIO
3
-FINE-
[1]
I
registratori vengono
utilizzati nell’ambito del paranormale
per fissare su nastro un particolare rumore, detto rumore bianco, che
ha la
stessa ampiezza di suono per qualsiasi frequenza. Nel rumore bianco si
può a
volte riuscire ad ascoltare parole intellegibili, che si pensa siano la
voce
dei morti.