Non era attraente. 
Nemmeno minimamente.
Non era, però, inguardabile, quindi non poteva definirlo…brutto, ecco. Era  più una bellezza particolare, una bellezza sfiorita e masticata. Molto sfiorita…passita. E forse, rigurgitata.

Itachi si ritrovò a far scorrere gli occhi sul suo compagno di squadra, un accompagnatore passeggero nel viaggio che era la sua vita, ora quasi giunta al termine.
Piano, come serpi, i pensieri, gli affollarono la mente.

“Chissà se mai i tratti duri del suo viso vennero carezzati dei lineamenti soffici e paffuti della fanciullezza” Domandò al suo riflesso che lo
fissava dalla pozzanghera in cui si specchiava.

Ora si chiede se quelle mani, un tempo, fossero morbide e lisce e non callose…si chiede se la sua anima fosse candida, se i suoi sogni fossero canuti e limpidi…ma per quanto si sforzi, proprio non riesce a immaginare, a pensare, a vedere un piccolo lui…non riesce a scorgere un innocente bambino in quella imponente e terrificante figura, schernita dalla natura.

Ma per quanto possa essere complicato per il suo orgoglio, il moro deve ammettere di nutrire un certo timore nei  suoi confronti. Non è l’altezza, né la stazza e nemmeno la forza brutale, animale che lo caratterizza, quegli occhi dove si può leggere solo una cupa minaccia, la voce tenebrosa e profonda, che se fosse un colore, sarebbe il nero della fossa più profonda, così profonda da far da cielo al diavolo.

Ciò che più lo intimorisce…è il suo sorriso. Non capisce se sia un vano tentativo di ripiegare le labbra in un dolce riso, se sia una brutta smorfia, se si sia dimenticato come far nascere sul suo volto un sorriso e non un ghigno…o semplicemente…se abbia perso ogni motivo per sorridere e quello che mostra sulle sottilissime labbra screpolate e spaccate, sia solo lo specchio della sua anima divorata e corrosa.

Le fiamme ardenti del fuoco, compagno che li riscalderà per la notte, dipingono ombre sinistre sul viso, stranamente, serio di Kisame.
Gli occhi sono quasi socchiusi, il labbro inferiore è trattenuto fra i denti affilati e crudeli.

-Cosa c’è che non va? Non hai ancora fatto nessuna orribile battuta e non mi hai nemmeno raccontato una delle tue disgustose esperienze con qualche puttana,che sia. Forse, a forza di parlare, ti sei ingoiato la lingua?­-

L’uomo dai capelli color oceano si stupì, quanto lo stesso Itachi, di sentir parole che, anche se di sdegno, nascondevano  una qualsivoglia preoccupazione nei suoi confronti.
Il maggiore alzò lo sguardo, gli occhi tristi, resi traslucidi da un velo di un imminente pianto trattenuto troppe volte. Il pomo d’Adamo navigava su e giù, come se egli, stesse deglutendo, per nascondere i singhiozzi ormai prossimi. Le guance più colorite del solito, così, come il collo.

E solo in quel momento l’Uchiha potè scorgere quel fanciullo che tanto agognava di vedere, quel giovinetto nascosto sotto ossa, cicatrici e disperazione.
Rimase a fissare Hoshigaki, aspettando di sentir il bambino far capolino e chiamarlo con quell’appellativo che lo faceva gongolare tanto, “Itachi San”.

Kisame starnutì e una, due, tre lacrime gli caddero dagli occhi, seguite da un colpo di tosse.
-Itachi San, potremmo spostarci?- ancora lacrime –sono allergico alla spirea*, finirò per lacrimare, tossire e starnutire tutta la notte-

Itachi sospirò divertito, si sbagliava, infondo, quel bambino non era così nascosto.




**La Spirea del giappone è un arbusto molto comune nelle foreste nipponiche.