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Autore: Walter_Larini    10/05/2016    0 recensioni
"Osservando il mondo dal finestrino di un treno in corsa si trova la pace." Ma non sempre, a volte ci si trova e basta. E, a volte, quello che si trova ci fa schifo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Osservando il mondo dal finestrino di un treno in corsa si trova la pace. Tutto si fonde in una rapida macchia colorata, come se l’intero paesaggio di un quadro fosse compresso in un’unica pennellata. Ogni tanto sbuca una vecchia casa diroccata, coperta di graffiti, in mezzo ad un enorme prato verde. Ogni tanto ci immaginiamo di poter scendere dal treno  e raggiungere quella casa, gridando al mondo: “Si, io rimango qui, non cercatemi.” Osservare dal finestrino di un treno è rimasto l’unico vero modo per prendersi una pausa, spostare lo sguardo verso l’orizzonte, sgombrare la mente e ricordarci che siamo formiche in una palla che ruota in mezzo al nulla. Questo aiuta a ricalibrare la propria vita, mettendo sulla bilancia i pro e i contro, ogni scelta fatta, ogni strada percorsa. Fatelo, quando potete.  Il più delle volte vi ritroverete sorridenti davanti ad un vetro, probabilmente con delle cuffiette bianche a darvi la giusta colonna sonora per il tramonto che state osservando. Altre volte, se siete sfortunati, la tristezza vi colpirà come un calcio nel diaframma e boccheggianti ripercorrerete ciò che vi ha condotto ad avere gli occhi lucidi su un Regionale La Spezia – Rimini. Sempre con le cuffiette bianche in sottofondo e il tramonto colorato. I tramonti se ne fregano del vostro umore, così come se ne fregano le giornate uggiose, le nevicate, l’autunno e le notti fredde. Così come me ne frego io. Erano le undici  di una fredda sera di novembre, e sull’ultimo Regionale per Parma disponibile avevo incontrato proprio la tipica piagnona solitaria, con le sue cuffiette di ordinanza e una sciarpona di lana zuppa di lacrime, che prometteva polmonite non appena avesse messo piede fuori dal treno. Tornavo da una serata passata per i vicoli del centro storico di Bologna con due vecchi amici. Avete mai provato a fare il giro di tutte le birrerie del centro di Bologna in due ore?Io si, e il mio intestino già mi stava insultando. Io e il mio intestino non andiamo più d’accordo da quando ho scoperto l’alcol, ma ho imparato ad ignorarlo quando c’è da festeggiare qualcosa. In questo caso, quel qualcosa è una mostra dei miei dipinti in una piccola sala di un centro sociale della periferia bolognese. Non molto, ma sempre un buon motivo per festeggiare. Io le cuffiette bianche non le avevo e quindi mi toccava sentire i singhiozzi bagnati di questa giovane depressa un sedile dietro al mio, dall’altro lato del treno. Nel vagone eravamo soli, senza contare una vecchia zingara che passava ogni quarto d’ora a chiedere l’elemosina, strusciando la vecchia gonna di lana per terra senza nemmeno alzare gli occhi. Passava per avere un motivo per restare sul treno, al caldo. I controllori sono indulgenti con i barboni, quando chiedono l’elemosina. Dal finestrino non avevo nulla da guardare; nessuna macchia colorata, nessun casolare diroccato, nessun tramonto. Solo freddo vetro nero, che rifletteva la mia faccia pallida e smunta. Intanto il pianto sommesso della Depressa in sottofondo era diventato più forte, sovrastando anche il rumore del treno che scorreva sui binari. La testa ancora girava per l’ingente quantità di lievito fermentato che il mio stomaco stava digerendo e rendeva i lamenti della Depressa ancora più fastidiosi, come il suono di un ambulanza con le sirene e gli abbaglianti accesi che insiste a non volerti superare. Come se la vita dell’essere umano dentro quel furgoncino fosse meno importante di un sorpasso azzardato . La paura del paramedico di scontrarsi in un frontale è il motivo per cui quell’uomo morirà, la stessa paura che impedisce alla Depressa di smettere di piangere e fare qualcosa per migliorare la sua condizione. In entrambi i casi, io potrei aiutare: potrei spostarmi a destra e agevolare il sorpasso all’ambulanza, così come potrei alzarmi e andarmi a sedere vicino alla Depressa, chiedendole se ha voglia di parlare. Con un minimo di aiuto esterno, una vita potrebbe essere salvata.
Ma io non sono una così brava persona, il mondo non è fatto da brave persone e se vuoi qualcosa allora devi trovare le palle di agire. Mi guardai allo specchio e sorrisi alla mia immagine riflessa: avrei potuto dipingerne un quadro. “La piagnona” – olio su tela. Si, potevo farlo, avrebbe potuto diventare il quadro più importante della mia mostra: un classico esempio di vita bolognese. Mi frugai nelle tasche ed estrassi un bloc-notes dove solitamente annotavo i dettagli per un quadro. Niente schizzi, non sono quel tipo di artista. Poi, con studiata lentezza, mi spostai sul sedile esterno e mossi a destra la testa, abbastanza da poter vedere con la coda dell’occhio la Depressa dall’altro lato del treno. Sapete quel gioco che si fa nelle sale d’aspetto quando ci si annoia?Quello dove si osserva qualcuno di nascosto e si imparano a memoria tutti i dettagli, cercando di capire chi sia e cosa faccia nella vita?Ecco come mi guadagno da mangiare. In questo caso la enorme borsa deforme con i gattini e il capotto di lana grigio – verde scuro non poteva che significare “studente universitaria”. Avrà avuto più o meno 26 anni, tutti accumulati sui fianchi e sulle cosce, che cercava inutilmente di nascondere con il lungo cappotto. Il trucco sbavato colava da sotto gli occhiali, facendo slalom fra i brufoli appena accennati coperti dal fondotinta. La montatura viola, infine, cercava di distogliere lo sguardo da una matassa di capelli ricci e crespi che le incorniciavano malamente il viso e che nessun uomo avrebbe mai avuto voglia di accarezzare. Sul pavimento, una collinetta di fazzoletti sporchi di muco e lacrime continuava a crescere. All’improvviso si girò appena verso di me e subito mi affrettai a girare la testa. No, non avrei mai permesso a quella donna di iniziare una conversazione. Gli animali devono essere studiati da lontano. La zingara con la gonna lurida passò di nuovo e allungò la mano verso di me, chinata tanto che il naso le sfiorava quasi il pavimento. La ignorai, spostando la testa verso il vetro del finestrino, fingendo di dormire. La zingara attese un paio di secondi, poi sbuffò stanca e prosegui oltre. Pensavo che si sarebbe fermata di fianco alla Depressa, dandomi modo di guardarla di nuovo per ottenere più dettagli, ma la barbona non si fermò. Improvvisamente notai la mancanza di qualcosa, un suono che ormai mi ero abituato a sentire: il pianto della depressa aveva cessato. Non si sentivano nemmeno i singhiozzi di assestamento, nemmeno un mesto tirar su con il naso, tipico di chi cerca di darsi una ripulita dopo uno sfogo di tali dimensioni. No, l’unico rumore era dato dai freni del treno che lottavano contro i binari. “Castelfranco Emilia” annunciò la voce senza vita dall’altoparlante. Le luci intermittenti della stazione mi permisero di vedere fuori dal finestrino la Piagnona che si allontanava velocemente, asciugandosi gli occhiali con un lembo del cappotto, cercando di riprendersi un po’ di quella dignità che non aveva mai avuto. Peccato, ne sarebbe uscito un ottimo quadro. Poco male, ora potevo passare il resto del viaggio in silenzio, cercando di godere della magica anestesia data dalla birra. Tutto era più ovattato, caldo. Il morbido silenzio, scandito dal rumore del treno che viaggiava in sottofondo, mi fece da ninna nanna e senza quasi accorgermene mi addormentai. Avete mai avuto il coraggio di addormentarvi in treno senza mettere una sveglia per l’orario in cui avreste dovuto arrivare a destinazione?Farneticando sul vostro infallibile “orologio biologico” e altre cazzate che vi raccontate per sentirvi speciali?Solo gli stupidi non prendono certe precauzioni. Gli stupidi e gli ubriachi, come me. Ma è ben noto che gli stupidi e gli ubriachi sono anche molto fortunati. In questo caso, dormii solo una ventina di minuti, prima di risvegliarmi con un bava acida e puzzolente che scendeva dal lato sinistro della bocca e un vago senso di nausea. Mi passai la manica sulla bocca e andai un po’ avanti con il culo sul sedile, per mettermi più comodo. Stavo già socchiudendo gli occhi, quando mi accorsi che nel sedile affianco al mio, dall’altro lato del treno, era seduto qualcuno.
L’occhio, sulla retina, ha due tipi di neuroni specializzati nell’acquisizioni di immagini: i coni e i bastoncelli. I coni sono di forma più tozza e si trovano nella parte centrale della retina. Sono fatti in modo da riuscire a percepire i dettagli di un’immagine e sono quelli più utilizzati quando lo sguardo mette a fuoco un qualcosa. I bastoncelli invece si trovano alla periferia della retina, e sono in minore quantità. Questi neuroni fatti a grissini si sono geneticamente specializzati nel percepire anche il più impercettibile dei movimenti, così da avvertire il cervello nel caso un predatore si stia avvicinando troppo mentre sei impegnato a scuoiare un bue, o qualsiasi cosa facessero gli australopitechi nel Qualcosa a.C. per passare il tempo. Per questo motivo notai l’uomo alla mia destra solo quando si mosse, e per questo motivo non riuscii a metterlo a fuoco. La vista era annebbiata dalle “caccole degli occhi” formatesi durante il sonno, quindi probabilmente anche girandomi non sarei riuscito a vedere altro che nebbia colorata. Non che avessi voglia di girarmi per affrontare quello sguardo interrogativo che si rivolge agli sconosciuti curiosi: - “Perché mi fissi?che cazzo vuoi?” - sono parole non dette che rimangono attaccate al tetto dei mezzi pubblici. Siamo animali, vogliamo studiarci, osservare le rughe, le imperfezioni della bocca, i dettagli particolari. L’equivalente umano di annusarsi il buco del culo canino, ma siamo troppo civilizzati ormai per essere sinceri con noi stessi. Ad ogni modo, il mio sconosciuto era ancora li, immobile, ed io ero troppo sbronzo e romantico per rinunciare ad un quadro dipinto mentalmente li, sul quel treno, quella sera. Decisi però di continuare a far finta di dormire, così da avere una valida scusa per non parlare, nel caso l’uomo si fosse girato per primo a guardarmi. Tenni la testa ben dritta sul sedile e pian piano la inclinai verso destra, non tanto da voltarmi ma abbastanza per cogliere la sagoma dell’uomo con la coda dell’occhio. Con i bastoncelli a grissino. Poi cercai di conficcarmi nella mente un ideale paletto di legno per ogni dettaglio rilevante che riuscivo a captare: un uomo di mezza età, ben sopra la cinquantina, con lunghi capelli sale e pepe incollati al sedile di pelle blu dal sudore. Se ne stava in una posizione tra il seduto e lo sdraiato, con le gambe aperte per mantenere l’equilibrio. L’intera figura era avvolta da un pesante cappotto di camoscio arancione chiaro con bordi bianchi, uno di quei cappotti che si trovano a volte negli armadi dei vecchi, appartenenti ad un’epoca inutile. Dal modo in cui i lembi del cappotto toccavano terra, si capiva quanto usato e sporco fosse: non mi sarei sorpreso di trovare buchi e chiazze di unto sparse qua e là. Quello e le scarpe dell’uomo, vecchie Nike da ginnastica un tempo bianche ma ora tendenti al marrone merda, suggerivano solitudine. Era un uomo solo di cinquant’anni che invece di viaggiare in macchina prendeva un treno ad orari improponibili. Un uomo che nessuno stava aspettando. Un peso mi si formò nel cuore. Come può un uomo sopravvivere alla solitudine?Non ha alcun senso rimanere in vita se a nessuno interessa. Alzarsi, mangiare hamburger, andare al lavoro, tornare, guardare la televisione con un bottiglia in mano e una sigaretta, aspettando di riuscire ad addormentarsi. Aspettando che i tuoi vizi ti facciano addormentare per l’ultima volta. Sempre che tu ce l’abbia un lavoro. Sempre che tu abbia un motivo per alzarti al mattino, sempre che tu abbia una ragione per mangiare, lavarti. Sempre che tu abbia qualcosa da affogare nell’alcol, da bruciare con le sigarette. Sempre che tu abbia ricordi, rimpianti, rimorsi. Sempre che tu abbia qualcosa dentro.
“Prossima fermata – next stop: Parma.”
La voce senz’anima mi riscosse dai miei pensieri. Ero arrivato.
Ora avrei potuto alzarmi, girare la testa e osservare quell’uomo che mi aveva causato tanta malinconia, quell’uomo che era riuscito a rovinare l’atmosfera felice di una serata fra amici. Mi pulii gli occhi con le dita, mi diedi un paio di sberle per svegliarmi dal torpore della birra abbastanza da riuscire ad alzarmi dal sedile e diedi un respiro profondo. Ero impaziente di osservare il viso di quell’uomo: l’adrenalina aveva cominciato a salire dalle caviglie senza che potessi fare alcunché per fermarla. Dovevo solo girare la testa.
Mi girai.
Nessun’uomo occupava il sedile.
Nel vetro nero, lucido e freddo del finestrino, la mia immagine mi osservava incredula di non averla riconosciuta subito. Offesa, se ne andò. 
   
 
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