Serie TV > Once Upon a Time
Segui la storia  |       
Autore: martaparrilla    10/05/2016    10 recensioni
Henry ha 8 anni e non parla più da diciotto mesi. Sua madre, Regina, è convinta che quella sia la giusta condanna per non essere riuscita a proteggerlo dal dolore per la perdita del padre. Un giorno, le loro vite incrociano quelle di Emma che, cauta e silenziosa, riuscirà a conquistare la fiducia del piccolo Henry.
E forse, anche quella di sua madre.
Basterà questo a farlo parlare di nuovo? Henry odia davvero sua madre come essa afferma?
Anche stavolta ho dovuto alternare il punto di vista dell'una e dell'altra, è una cosa che non riesco a evitare per riuscire a spiegare al meglio le decisioni prese da entrambe e come queste influenzino positivamente la crescita del rapporto dei tre protagonisti.
La storia è puramente frutto della mia fantasia, nonostante si tocchino argomenti che troppo spesso le donne sono costrette ad affrontare da sole e in silenzio.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

«Ti amo...»

Lei mi ama. Ha abbozzato un sorriso su quello splendido viso sporco di sangue e di sudore. E una volta avuta conferma che avevo recepito il messaggio, chiude gli occhi.

Il mio cuore si ferma.

E qualche secondo dopo anche il suo.

«Emma, Emma!» urlo con tutto il fiato che ho in corpo.

Sposto una mano sul suo collo e il viso sopra la sua bocca.

Aspetto in religioso silenzio per dieci secondi.

Niente respiro, niente battito. È in arresto cardiaco.

«Portatemi un cazzo di defibrillatore, subito!»

Finalmente un'orda di colleghi e infermieri fa capolino in questa maledetta stanza. Si dividono in due, alcuni vengono verso me ed Emma, alcuni vanno da quella donna.

Due infermieri prendono Emma di peso e la sistemano su una barella, mentre uno di loro si mette alla sua destra e inizia il massaggio cardiaco. Alla sua testa, qualcuno maneggia con laringoscopio e la intuba, un terzo prende un accesso venoso mentre il quarto sistema i vari adesivi sul torace per monitorare il battito cardiaco.

Osservo subito il monitor: c'è una fibrillazione ventricolare, posso defibrillare.

Afferro il carrello delle emergenze e dopo avere scoperto il suo torace, sistemo le piastre rispettivamente sotto la clavicola destra e sotto l'ascella di sinistra.

«Caricate le piastre a 200J!» urlo.

Il collega continua a massaggiare e non ha intenzione di muoversi.

Qualcuno mi afferra le mani e mi guarda negli occhi. È il primario.

«Mills, fatti da parte, ci pensiamo noi a lei».

Quello è pazzo se pensa che me ne starò qui ad guardare.

«No, io devo defibrillare, levati di mezzo!» ripeto riprendendo a piangere.

Lei mi ha salvata. Lei ha preso i proiettili al posto mio, io DEVO salvarla.

«Si è messa di fronte a me quando quella donna ha sparato...» continuo a piangere, ripercorrendo la scena come un film. Come un incubo. Il peggiore che abbia mai vissuto. Lui mi fissa. Tutti mi fissano e io improvvisamente non riesco più a muovermi. Tutte le nozioni apprese per salvarle la vita sembrano scivolare via lacrima dopo lacrima.

Non sono lucida, non posso fare nulla per lei.

Decido così di affidare le piastre a lui, che concentrato e distaccato, impartisce ordini a tutti.

Dalle piastre arriva la prima scarica.

Il corpo di Emma rimane inerme, così come il suo tracciato piatto, mentre un'altra fiala di adrenalina viene iniettata con prepotenza nel suo corpo.

Li guardo a pochi passi di distanza, confusa. Tengo solo a mente quante scariche quel corpo ha dovuto subire.

Quattro.

Poi l'adrenalina e le trasfusioni. Niente sembra servire a far ripartire il suo cuore.

Nemmeno le mie preghiere, nemmeno le mie lacrime. Nemmeno la mia mano che stringe la sua.

Le scariche paiono solo far peggiorare il sanguinamento dalla bocca e dall'addome.

Il torace si spande solo grazie all'aria inalata dal pallone.

Il mio pianto è un continuo singhiozzare in silenzio.

Quando ormai, dopo quasi venti minuti, sembrano volere rinunciare, sgomito tra due medici miei colleghi e con tutta la forza che ho in corpo scaglio un pugno contro il suo petto accompagnato da un urlo disperato.

Mi guardano esterrefatti.

Un piccolo BIP invade la stanza. L'elettrocardiogramma registra attività cardiaca.

Anomala, veloce, ma c'è.

Tiro un enorme sospiro di sollievo mentre porto le mani al petto.

Il cuore batte senza controllo e la mia unica paura è che non riuscirei a sopportare la sua perdita.

Ripercorro la scena, il suo corpo di fronte al mio, gli spari, lei che si accascia.

A ripetizione, come a volere recuperare particolari che mi sono sfuggiti.

La osservo lasciare la stanza sulla barella e sono pronta a seguirla quando il mio collega mi blocca letteralmente impedendomi di seguirli. Sono diretti in sala operatoria.

Chiudo gli occhi mentre alcune lacrime rigano il mio viso.

“Henry ti vuole bene, Regina” ripenso all'ultima mezz'ora di follia.

Le parole di Emma mi rimbombano nella testa e come una batteria impazzita non riesco a trovare un senso a niente.

Marian... non so nemmeno se è viva o morta.

Il viso di Emma che impallidiva minuto dopo minuto mentre il lenzuolo che avevo strappato via dalla branda accanto a me, con cui tamponavo le ferite, si inzuppava di sangue. I proiettili hanno di certo perforato il fegato. E ci sarebbe stata una contaminazione peritoneale da parte degli organi cavi. Avrebbe rischiato una setticemia...

“Baciami, per favore, Regina”.

Avevo osservato la vita scivolare via lentamente dai suoi occhi, dalla sua pelle, dal suo respiro che si era fatto sempre più lieve e rapido. Più freddo. Più faticoso.

E insieme a lei mi ero spenta anche io.

Ha usato il suo corpo per proteggermi. Si è presa due proiettili per colpa mia.

Rischia di morire per colpa mia. Tutto quello che tocco sparisce, come se la mia persona avvolgesse in una nube scura tutto ciò che si avvicina troppo.

Prima Robin.

Poi Henry.

E ora anche Emma.

Ti bacio perché ti voglio con me – avevo pensato.

Ti bacio perché mi manca baciarti.

E ti bacio perché non voglio che sia l'ultimo.

Vero Emma? Quello non è stato il nostro ultimo bacio. No. Non è stato l'ultimo.

Cerco di auto convincermi mentre sposto lo sguardo alle mie mani, piene di sangue. Corro al lavandino e inizio a strofinare con abbondante disinfettante. Il sangue è arrivato fino al gomito ma a niente serve il sapone e la rabbia con cui strofino mani e braccia, per pulirmi.

Mi arrendo. Mi asciugo con un telo e improvvisamente mi ricordo una delle ultime frasi pronunciate da Emma: Henry è fuori, in corridoio.

Mi precipito fuori da quella stanza e lo trovo lì, in piedi in un angolino, intento a fissarmi con le lacrime agli occhi e la borsa di Emma stretta al petto. I suoi occhi sono dentro ai miei e i miei dentro ai suoi, non abbassa lo sguardo nemmeno una volta. Non c'è odio o rammarico nei miei confronti, piuttosto comprensione e un'immensa e insostenibile paura. Percorre piccoli passi verso di me, lento ma deciso, senza fermarsi nemmeno una volta. Poi i suoi passi si fanno più rapidi e inizia a correre. Inizialmente non comprendo il motivo di quella rapida accelerazione e temo voglia scappare ancora. Ma lui mi sta guardando, piange e corre verso di me.

Quando lo capisco, istintivamente mi abbasso un po' così da poterlo afferrare, sollevare da terra e stringerlo forte a me come non mi aveva più permesso di fare da quasi due anni. Si aggrappa a me come un piccolo koala fa con la sua mamma, con le gambe e le braccia. La borsa di Emma penzola dal suo braccio e lui piange disperatamente. Non so quanto abbia visto, non so se ha visto qualcosa, e non so nemmeno se voglio chiederglielo.

Voglio solo piangere insieme a lui.

Voglio piangere perché tutto questo è merito di Emma e lei non può vedere.

Voglio piangere con lui perché mi è mancato il suo calore. Prima della morte di suo padre eravamo una squadra bellissima, complici in tutto. Poi le cose sono cambiate.

I suoi singhiozzi si mescolano ai miei. Le forze mi mancano e piano, piego le gambe, fino a che le ginocchia non toccano terra. La mia bocca si sposta sui suoi capelli e inizio a riempirlo di baci. Afferro la sua testolina sudata, e lo guardo di nuovo negli occhi a una distanza ravvicinata. Come è bello il mio bambino? Gli stampo ancora due baci sulle guance mentre continuiamo a piangere.

«Mamma...» dice singhiozzando.

Dalla sua bocca, dopo venti mesi, è uscito di nuovo un suono, una frase, una parola verso di me. Mi si scioglie il cuore e lo stringo di nuovo tra le mie braccia.

«Emma starà bene, ok?» dico nel modo più convincente possibile.

«Mamma...Emma» mi ripete lui.

Sembra stia piangendo le lacrime di una vita. Non ha pianto nemmeno al funerale del padre. Probabilmente sta ricordando anche quello.

«Henry ascolta, Emma starà bene, ok? Lei è forte! L'ha insegnato a tutti e due che nella vita bisogna essere forti!» lo dico a lui e a me stessa.

Emma starà bene di certo.

Tornerò a vedere il suo meraviglioso sorriso.

Tornerò a baciare quelle labbra.

Tornerò a stringere quelle mani.

E il mio cuore tornerà a battere leggero e sicuro come quando lei mi stava accanto.

«Dottoressa Mills, possiamo farle qualche domanda?» una voce interrompe il nostro pianto e i miei pensieri. Apro gli occhi e mi volto. Metto a fuoco due uomini in uniforme, due poliziotti, che con taccuino e penna in mano sono pronti a raccogliere ogni informazione sull'accaduto.

Con fatica mi metto in piedi, aiutando Henry ad alzarsi tenendolo per mano. Col dorso della mano asciugo il mio viso, poi torno su Henry.

«Solo se possiamo andare in una stanza dove lui non può sentire ma io posso tenerlo d'occhio».

«Certamente. Lui può sedersi su quella sedia» indica una sedia accanto all'uscita «e noi possiamo stare qui».

Mi inginocchio di nuovo di fronte a lui.

«Ora devo parlare con questi signori, smetti di piangere, ti prego... torno tra poco» cammino con lui fino alla sedia. Con occhi e il naso rosso, annuisce tristemente.

Quindici minuti di domande incessanti. Quindici. Ci manca poco che mi chiedano che taglia di reggiseno porto e se uso le mutande in tessuto sintetico o in cotone. Lei ha sparato a me diamine, non il contrario! E ora una persona rischia la vita perché non è stata in grado di convivere col suo dolore. Bè ora dovrà imparare a farlo, come ho fatto io, come ha fatto Henry, come fanno tutti!

Quando finalmente mi lasciano da sola, torno da mio figlio che tiene tra le mani un telefono.

Mi siedo accanto a lui.

«È di Emma... forse devi avvertire la sua mamma, sarà preoccupata».

Poggia il telefono tra le mie mani. Henry ha ragione. Ma sinceramente ho paura della sua reazione. Ho paura che darà a me la colpa per quel che è successo a Emma.

«Ho già cercato il suo numero nella rubrica, devi solo parlarci».

Poggia la sua testolina sul mio braccio e io ne approfitto di nuovo per stringerlo a me.

Poi, con le ultime energie, clicco sul tasto verde della chiamata e poso il cellulare al mio orecchio.

Inizia a squillare e aspetto.

Uno squillo.

Due squilli.

Tre squilli.

Al quarto sto per chiudere quando sento la voce di una donna all'altro capo del telefono.

«Hey tesoro, come stai?» Una voce allegra e cordiale.

«Signora Swan? Sono Regina Mills, la madre di Henry, si ricorda di me?».

Le mani mi sudano e il cuore accelera nervosamente, di nuovo.

«Certo che mi ricordo ma...» silenzio.

«Come mai mi sta chiamando dal telefono di Emma? È successo qualcosa?»

Come faccio a dirle che hanno sparato a sua figlia, che è in sala operatoria e che non so nemmeno se è viva o morta? Come faccio a dirle che quei proiettili erano destinati a me? Come faccio a farle capire che mi dispiace, mi dispiace con tutto il cuore che Emma abbia fatto questo gesto così spropositato nei miei confronti?

«Regina, mi fa preoccupare, che è successo a Emma?»

«C'è stato un incidente e Emma è rimasta coinvolta. È nell'ospedale dove lavoro io, il Sant'Antoine Hospital. Credo che lei e suo marito dobbiate venire subito qui. Non fatemi dire tutto per telefono, per piacere».

Sento il suo respiro farsi sempre più affannato e poi rispondere.

«Io... noi... siamo fuori città. Ci metteremo qualche ora. Mi assicura che Emma ora è viva?»

«Sì, ora lo è».

Mento. Non so se è viva. Ma forse in quelle ore sarebbe uscita dalla sala operatoria. Forse. Non lo so. Non so nulla.

«Ci mettiamo in viaggio adesso».

«D'accordo, io vi aspetto qui, con Henry».

«A dopo».

Chiudo il telefono e lo poso sulle mani di Henry.

«Dovresti rimetterlo nella sua borsa».

Silenzioso e diligente, si appresta a nascondere quel telefono nella borsa.

Sono sfinita e non ho nemmeno il coraggio di andare a chiedere come sta Emma. Mi massaggio la fronte con la mano libera, cercando di trovare una soluzione a questo momento.

Ok, forse avrei dovuto fare una doccia per poi rientrare in ospedale ad accogliere i genitori di Emma.

«Ora noi andiamo a casa, ci diamo una bella lavata e torniamo qui da Emma, siamo d'accordo?».

Annuisce.

Mi limito a dargli un bacio sulla fronte e a intimargli di aspettarmi un attimo.

Mi dirigo verso gli spogliatoi dove prendo le mie cose. Poi, a passo lento, vado all'accettazione, lasciando detto di chiamarmi quando ci fossero state notizie della signora Emma Swan, la ragazza della sparatoria.

L'avrebbero ricordata tutti così.

 

Quando rientriamo in ospedale Emma è ancora in sala operatoria. Io e Henry ci sediamo vicini, in silenzio, nell'attesa che da quella maledetta porta un collega ci avrebbe dato delle buone notizie.

Le ore passano. Henry si addormenta con la testa sulle mie gambe.

Lo guardo incantata, sfiorando di tanto in tanto i suoi capelli. Ho una tremenda paura che possa ricordarsi cosa gli ho fatto e che rialzi il muro di mattoni, solido e altissimo che aveva eretto in questi anni contro di me.

Sono le 7 pm. Ormai è in sala operatoria da quattro ore.

È un bene che non siano ancora usciti, significa che non è morta.

Poi Henry, svegliatosi poco prima, si alza di scatto, guardando delle figure avvicinarsi a noi. Corre loro incontro e si butta tra le braccia della madre di Emma. Il padre tiene tra le braccia Neal, il loro figlio più piccolo e nei loro occhi leggo tutta la preoccupazione e disperazione che solo due genitori amorevoli possono avere.

Quella donna posa mio figlio per terra e suo marito fa lo stesso col suo. Poi lei gli afferra la mano e ci spostiamo lontani dai bambini.

«Dov'è Emma?» mi chiede senza battere ciglio.

«Sedetevi, per favore».

«No, Regina, ti prego...dimmi dov'è nostra figlia. Ti prego».

I suoi occhi si riempiono di lacrime e suo marito la stringe subito a sé. Si vede da lontano quanto questi due si amino.

«Ok. Questa mattina Emma è andata a prendere Henry al campo scuola... e dovevano passare qui a salutarmi» smetto un attimo di parlare per prendere fiato e coraggio.

«Mi hanno presa in ostaggio. Una donna, con una pistola. Non sto a raccontarvi chi fosse questa donna, sta di fatto che Emma come un'incosciente è entrata nella stanza dove c'ero io... per proteggermi» abbasso lo sguardo, colpevole.

«Poi quella donna ha sparato» nella mia mente le immagini scorrono a rallentatore, e bruciano come non mai.

«...e lei si è messa di fronte a me» la testa mi scoppia e non riesco a continuare con la frase «e lei... si è presa i proiettili che erano destinati a me e mi dispiace» torno a guardarli negli occhi ma non leggo rabbia. Solo paura, la stessa che ho letto negli occhi di Henry. La stessa che ho letto nei miei quando mi sono guardata allo specchio.

«Mi dispiace così tanto che abbia fatto una sciocchezza simile, io non volevo, io non avrei dovuto farla entrare nella mia vita, non sapete quanto mi dispiace».

Porto le mani al viso e piango.

Mi dispero mentre quei due estranei aspettano il verdetto sulla salute della loro primogenita.

Poi due mani afferrano le mie, abbassandole e scoprendomi il viso.

Di fronte a me gli occhi di una madre, segnata, ferita, terrorizzata mi guardano con comprensione, e sorride.

«Emma ha un cuore grande... ed è molto forte».

«Lei ha detto... che... mi ama, prima di perdere i sensi» sussurro tra le lacrime.

«Sì, io questo lo so da tanto. Da qualche mese direi...» posa una mano sulla mia guancia.

«Sii forte, fai in modo che il suo sacrificio serva a qualcosa, riprenditi tuo figlio. Devi essere forte per lui».

Mi volto verso Henry. Parla fitto fitto con Neal ed è totalmente immerso nel suo mondo, un mondo che io devo imparare a conoscere.

Con la coda dell'occhio noto la porta in fondo al corridoio che si apre e due colleghi uscire con ancora la cuffietta da sala operatoria.

I loro sguardi non mi piacciono. Mi volto verso di loro, incrocio le mani sul petto e mi avvicino, seguita dai genitori di Emma. Percorro quei pochi metri come se fossi una delle condannate a morte de “Il miglio verde”. So che alla fine avrò la mia condanna, devo solo avere il coraggio di accoglierla, accettarla e metabolizzarla.

Eccoci qui, vicini, a distanza intima, pronta a sentire la mia sentenza di morte. Le mani mi tremano e vorrei tanto avere qualcuno a cui sostenermi ma sono sola. Era Emma il mio sostegno, e non volevo perderla. Non così. Non per mano di quella scriteriata.

«Loro sono i genitori di Emma» esordisco.

«Emma è salva, per ora».

No aspetta.

Devo aver capito male.

«Owen?» ripeto, incredula.

«Emma è stabile, anche se non ancora fuori pericolo» mi ripete sfiorandomi la spalla.

Dietro, quei genitori si abbracciano e piangono.

«Solo che ha perso molto sangue» aggiunge April «uno dei proiettili ha disintegrato parte della nona vertebra toracica e siamo riusciti con fatica a stabilizzarla».

Vertebra toracica.

Midollo spinale.

Funzionalità motoria compromessa.

«Come sono i test motori?» aggiungo.

«Non possiamo dirlo ora. Possiamo solo aspettare... e sperare che, una volta sveglia, anche le funzioni motorie siano rimaste conservate».

Annuisco preoccupata.

Eccola la mia condanna. Non la sua morte, ma la colpa che lei mi darà, tutti i giorni (sempre che voglia ancora vedermi), della sua paralisi. Probabile paralisi. Magari con un po' di fisioterapia, se il midollo non è stato lesionato o è stato decompresso per tempo, avrebbe recuperato tutta la funzionalità.

«Grazie mille dottore, possiamo vederla?» sento quella donna chiedere accanto a me.

«Ora no, la stiamo portando in terapia intensiva. Vi consiglio di andare a casa e tornare domattina. Ora possiamo solo aspettare...»

Mi volto da loro mentre i due colleghi si allontanano.

«Io... potrei stare io con lei questa notte. Lavoro qui, non avrebbero alcun problema a lasciarmi entrare» dico con un po' di coraggio.

«Sempre se per voi non è un problema che la causa di tutto questo stia vicina a vostra figlia».

Mi volto verso Henry e Neal che ci osservano preoccupati e curiosi.

«Henry potrebbe rimanere a dormire da noi allora, torneremo domattina a trovare Emma, che ne dite ragazzi? Henry?» quell'uomo si rivolge a mio figlio con una confidenza che io non ho ancora.

«Ok...» risponde tristemente.

«Io allora vado a prendere le sue cose, così poi potrete andare a casa».

Ci scambiamo i numeri di telefono, memorizzandoli rispettivamente come Mary Margaret e David.. Non conoscevo ancora i loro nomi, anche se quello di Mary Margaret mi era stato detto ormai molti mesi prima.

Arrivo a casa poco dopo.

La testa mi duole. Le tempie pulsano e le lacrime, ora che Henry non è con me, hanno ripreso a scorrere, senza sosta. Entro in casa, trascinando i miei piedi fino al piano superiore dove mi dirigo spedita verso la mia camera. Mi chiudo dentro.

Rivedo il suo corpo nudo su quel letto, i suoi baci che mi avevano fatto sentire amata. Le mani che mi proteggevano, le parole che mi cullavano. Tutto in quella stanza sapeva di lei, e io l'avevo lasciata andare. Avevo fatto vincere la paura a un folle tentativo di essere felice. E ora che ho in mano? Solo la colpa di averla messa in una situazione dove, una come lei, avrebbe dato la vita per salvare chiunque, me compresa.

«Perché» inizio a dire a voce bassa «Perché!» ripeto con tutto il fiato che ho in corpo.

Poi mi butto sul letto a piangere. Ancora.

Piango ancora e ancora e ancora.

Senza sosta, senza controllo, senza respiro.

Adagio, il respiro si calma, e le lacrime si fermano.

Devo rimanere calma, ho tutta la notte per piangere accanto a lei.

In piedi, mi dirigo in camera di Henry e in una piccola valigia che tiene sotto il letto, sistemo un pigiama, qualche mutanda, calze e alcuni cambi. Non so quanto sarebbe durata questa situazione, meglio portarsi avanti.

 

Indosso la cuffietta e la mascherina. Dal vetro osservo la sua figura che, come senza vita, respira solo grazie alle macchine. Mi faccio coraggio ed entro.

Nonostante gli odori di disinfettante e la mascherina, capto l'odore dei suoi capelli.

Inspiro profondamente prima di avvicinarmi.

Il viso è solo più pallido del solito. Scosto leggermente il lenzuolo per capire l'entità della ferita: il cerotto parte dallo sterno e si estende fin sotto l'ombelico. Avrà una brutta cicatrice...oltre ai due piccoli cerotti che coprono i due fori di proiettile. Le sfioro la fronte con le dita, poi poso un bacio sulla sua guancia.

Sul monitor, il tracciato accelera sensibilmente, per poi tornare lento e regolare.

«Ciao Emma, sono io» mi accomodo su una sedia e le prendo la mano.

«Oggi Henry mi ha abbracciata e mi ha chiamata di nuovo mamma, sapevo che ci saresti riuscita».

Inizio a raccontare la scena con Henry nei minimi dettagli nella speranza che possa sentire la mia voce.

Intorno alle 2 am le palpebre iniziano a farsi pesanti. Mary Margaret mi ha mandato un sms ogni ora per avere notizie. Nell'ultimo, due ore prima, le ho scritto che per qualunque cosa l'avrei chiamata. Avrebbe fatto bene a dormire, così da essere in forze per il giorno dopo e per quelli a venire.

Ma anche io sono stanca. Chiudo gli occhi solo cinque minuti, mi dico. E quando ancora sto pensando a questo limite, con la fronte sulla mano di Emma, cado in un sonno profondo.

 

 

Note dell'autrice: Dovevo necessariamente dare una gioia a Regina. Casualmente è capitato nella settimana peggiore per il telefilm, per cui sono felice che la (quasi) riconciliazione tra Regina e Henry sia avvenuta in questo capitolo. Era arrivato il momento che Regina capisse che non è sola...ma ce ne vorrà ancora un pochino per capire che non lo è mai stata, non con Henry accanto.

Mi scuso per la poca originalità dei nomi, ma essendo una (quasi ex) fan di Grey's Anatomy, ho preso in prestito i due chirurghi d'urgenza della serie...e non sarà l'unica cosa che prenderò in prestito da quel telefilm.

In attesa dei sempre vostri appassionati commenti, vi do appuntamento alla settimana prossima!

 

P.S: la storia avrà in tutto 21 capitoli ed era conclusa prima che iniziassi a pubblicare quindi conosco e conoscevo la conclusione della storia fin dal primo capitolo :D

  
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Once Upon a Time / Vai alla pagina dell'autore: martaparrilla