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Autore: ValeriaLupin    10/05/2016    3 recensioni
Qualche volta, sfogliava i libri del genero e ricordava con quanta concentrazione si dedicasse a ognuno di loro. In uno di quei libri, aveva incontrato una frase, sottolineata a matita, con qualche appunto al margine che sembrava essere stato fatto tempo dopo, a giudicare dall’inchiostro blu.
Vincitrice dei premi “Via dalla notte infinita” e “La miglior citazione” al contest "Via dalla notte infinita" indetto da RosmaryEFP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Andromeda Tonks, Augusta Paciock
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Nick autore sul forum e su EFP: ValeriaL fangirl23
Titolo: Tra sogni, ricordi e verità
Protagonista scelta: Andromeda Black
Citazione scelta: “Come doveva esser duro vivere soltanto con quello che si sa e che si ricorda, e privi di quello che si spera”
Altri personaggi presenti: Augusta Paciock
Coppie presenti: Nessuna
Genere/i: Introspettivo
Avvertimento/i: Nessuno
Nota/e: Nessuna
Contesto/i: Dopo la II guerra magica
Rating: Verde
Introduzione: Qualche volta, sfogliava i libri di suo cognato e ricordava con quanta concentrazione si dedicasse a ognuno di loro. In uno di quei libri, aveva incontrato una frase, sottolineata a matita, con qualche appunto al margine che sembrava essere stato fatto tempo dopo, a giudicare dall’inchiostro blu.
Note d’Autore: Spero che la storia vi piaccia... se devo dire la verità, non mi soddisfa molto, ma tant'è. se avete voglia di darmi qualche consiglio o un giudizio o un semplice pensiero inerente la OS, scrivete una recensione. 
Bacioni,
Fangirl23

 

 
Tra sogni, ricordi e verità
 
La pioggia picchiettava debolmente sul vetro della finestra. Andromeda si era addormentata con una guancia incollata al vetro, i capelli scompigliati e la punta affilata di una piuma fra le dita.
La stanza, come il resto della casa, era pulita maniacalmente, eppure non c’era angolo che fosse in ordine: il letto era sfatto, malgrado evidentemente lei non ci avesse dormito, e il pavimento era disseminato di giornali, libri e vestiti. Sotto il letto giacevano, abbandonati, i bigodini e sulla maniglia dell’armadio era persino appeso un mestolo.
Da settimane, convogliava tutte le sue energie nel pulire febbrilmente e mettere in subbuglio; era il modo più semplice per ingannarsi che Ted non fosse morto. E che neanche Ninfadora e Remus lo fossero davvero. Perché se c’era una cosa che tutti e tre facevano magistralmente, quello era, di certo, disordinare, e se c’era un’occupazione che riusciva ad occuparle gran parte della mente, quella era, sicuramente, pulire.
Qualche volta, sfogliava i libri del genero e ricordava con quanta concentrazione si dedicasse a ognuno di loro. In uno di quei libri, aveva incontrato una frase, sottolineata a matita, con qualche appunto al margine che sembrava essere stato fatto tempo dopo, a giudicare dall’inchiostro blu.
“Come doveva esser duro vivere soltanto con quello che si sa e che si ricorda, e privi di quello che si spera”, era stampato sulla carta giallastra e, al suo fianco nell’inconfondibile calligrafia di Remus, erano riportate solo poche parole che le fecero tremare le labbra.
Il nome di sua figlia e quello di suo nipote, collegati alla parola “spera”.
Sembrava che fosse stato scritto velocemente, senza attenzione, forse mentre rileggeva per l’ennesima volta quella frase che riassumeva la sua esistenza, il suo costante tormento. Da quel momento, quella frase aveva ossessionato anche lei: la sussurrava ogni notte prima di dormire, tornava a rileggerla quando si accorgeva di non riuscire ad assopirsi, la ripeteva mentalmente come se servisse a darle la forza di continuare a vivere. Ma non stava vivendo e quella frase non faceva altro che turbarla maggiormente.
Si chiedeva quale fosse la sua speranza, se veramente la meritasse e se “duro” fosse abbastanza per definire quanto spezzata risultasse la sua vita. E, ogni volta, finiva a studiare, malinconica, l’albero nel giardino con ancora l’altalena appesa mestamente a un ramo. L’aveva costruita Ted che, «in onore dei vecchi tempi», l’aveva fatto completamente alla Babbana. Quei giorni, l’altalena non poteva che rievocare il sorriso vivace di Ninfadora, così simile a quello di suo padre.
Così si era addormentata Andromeda, la sera prima; seduta alla scrivania mentre, guardando dalla finestra, cercava di raccogliere qualche parola da scrivere a chi era in pensiero per lei. La lettera, di qualche giorno prima, era immobile sotto il suo palmo, coperta da una grafia bella, ma disordinata e dalla piuma bianca che vi era scivolata sopra, mentre prendeva sonno. L’aveva letta svariate volte, soffermandosi sempre di più sulle frasi che scatenavano il suo disgusto, sempre con maggiore insofferenza.

È ancora troppo piccolo per capire,  ma sono sicura che ti vorrebbe vicina se sapesse.

 
Se sapesse che non ha nessun’altro.
Ma se capisse che io sono un nessuno?

Piange spesso, a dire la verità, forse sente davvero la loro mancanza e, in qualche modo, l’avverte.
 
Che sono morti?
Che mai più potranno abbracciarlo?
O questa sensazione di dolore, vuoto e ingiustizia?

 
Completamente sola, hai troppo tempo per pensare a quello che è successo: così non riuscirai a dimenticarli neanche per un secondo.

Mai vorrei dimenticarli, mai potrei farlo.
Neanche per quel secondo di rinascita.

 
Dovresti venire qui, alla Tana, vederlo ti farebbe bene come ne ha fatto a noi.

Vedere crescere qualcuno che posso perdere, pensando costantemente a quanto sia sbagliato essere sopravvissuta ai suoi genitori, migliori di quanto sia mai stata.
Vederli sul suo viso, trovarli nel suo abbraccio e perderli nuovamente, sarebbe troppo. Vorrei avere il coraggio, abbandonare il pensiero di essere sbagliata per questo compito e di troppo nel mondo, ma non ci riesco.
È ancora troppo presto, forse.

L’alone nebuloso lasciato dal suo respiro sul vetro brillava in quel mattino di oscurità grigia, attraverso la quale non era, però, difficile notare una donna avvicinarsi al portone.
Il trillo del campanello svegliò, improvvisamente, Andromeda che avanzò a fatica tra i mobili del salotto per andare ad aprire. Una donna anziana, dal mantello gessato e l’aria austera, era sulla soglia e, senza aspettare un invito, entrò velocemente, rischiando di far cadere l’ingombrante cappello in bilico sull’acconciatura perfetta.
«Che diamine è successo qui?» esordì guardandosi attorno con sgomento. La donna annusò l’aria, arricciando il naso «E cos’è questa puzza di bruciato?».
«La cucina, immagino» sospirò stancamente. L’anziana strega parve scandagliarla da capo a piedi.
«Tu mi piaci, Andromeda» sentenziò «ma non sopporto le persone che si trascurano tanto» concluse con rimprovero.
«Neanch’io» si trovò a rispondere, con sincerità.
«Se cerchi di odiarti, ti avviso: non ci riuscirai» continuò la donna, sedendosi su una sedia e invitandola a accomodarsi. Andromeda si sedette sulla poltrona, intrecciando le mani all’altezza delle ginocchia e guardando la strega, che sembrava pazientare, in attesa che dicesse qualcosa di cui era certa.
«Oh... ehm, chi è lei?» alle sue parole sorrise, sardonica.
«Augusta Paciock». Andromeda aggrottò la fronte, concentrandosi per scavare nella memoria. Sembrava un viso già visto.
«Non mi conosci» le disse Augusta, tirandosi vicino un treppiedi nero.
Andromeda si chiese perché, allora, si fosse presentata a casa sua, ma stranamente non riuscì a trasformare il pensiero in parole. La donna, intanto, posò la borsa sul tavolino e parlò mentre cercava al suo interno.
«Sono la madre di Frank Paciock» spiegò, recuperando il pacchetto di sigarette.
Andromeda ricordò e trattenne il respiro: l’aveva vista al San Mungo col volto distrutto di chi come unico appiglio, ha un bambino fra le braccia.
«Allora, ti sei ricordata?» le chiese mentre usava la bacchetta per accenderne una. «Cara, non sei l’unica a cui la guerra ha portato via tanto. Finiscila di commiserarti e comincia a reagire».
«Non mi sto commiserando, sto solo cercando di prendere il tempo che...» ribatté, infervorendosi appena.
La strega Evocò un portacenere e, con assoluta calma, vi lasciò cadere parte della cenere dentro, espirando fumo.
«Stai fuggendo dalle tue responsabilità, ti stai comportando da codarda. E fai anche fatica ad ammetterlo! Stai permettendo ad altri di crescere tuo nipote!» l’accusò, il tono severo e indispettito.
«È in buone mani» rispose Andromeda, quasi in un sussurro.
«Questo non cambia niente!» urlò la donna, al limite della sopportazione. «Non è nelle tue; dove dovrebbe essere, dove vorrebbe essere». Augusta la studiò, compatendola in parte, ma il suo sguardo non perse mai il luccichio di rancore. «Tua sorella ha annientato mio figlio, mia cognata. Neanche mi riconoscono» disse con voce ferma «Mio marito è morto tempo prima» continuò, mentre la sigaretta, posata sul portacenere, si finiva ormai da sola.
«Allora non fare finta di non capire» le rispose Andromeda, con voce spezzata e tono incerto.
«Non è mia intenzione. Cerco semplicemente di rammentarti che sei ancora viva, che non devi odiarti per questo. Provo a farti capire che l’unico antidoto a quella voragine che avverti nel petto è Teddy» annunciò, scandendo ogni sillaba con comprensione e dolcezza. «Fidati di me, una volta che lo avrai nuovamente fra le braccia, saprai che la tua vita ha ancora senso».
Fidarmi, e di chi? Chi sei tu? Una proiezione patetica della mia mente? Che male c’è nel parlarti, comunque?
Andromeda si volse alla finestra, cercando l’altalena e il sorriso caldo della sua famiglia.
«Non hai perso tutto: Teddy è la tua speranza» disse Augusta «devi andare avanti per lui, se non per te».
«Dov’è l’altalena?» si chiese Andromeda quando si accorse della sua sparizione.
«L’ho tolta io» rispose Augusta Paciock.
Andromeda si trovò a fissarla senza parole, cercando di dare un senso logico a quello che aveva appena confessato la vecchia strega, senza alcuna preoccupazione.
«Dovresti mettere in ordine», diede uno sguardo critico a ciò che la circondava « dormi in camera tua, non in quella di Ninfadora». Come faceva quella donna a sapere il terrore che provava nel dormire allo spettro di suo marito? Lo avvertiva al suo fianco, anche se non c’era davvero, ma quando allungava la mano verso di lui, non trovava che coperte fredde.
«Rispondi alla lettera di Molly» continuò, alzandosi mentre lei annuiva sempre più sorpresa. La donna si voltò recuperando la borsa e scusandosi per la visita improvvisa e per l’irrequietezza del suo cane Bobby. D’un tratto lo sentiva abbaiare forte, poteva quasi riconoscere la risata di suo cugino. Si avviò alla porta, ma, sulla soglia, parve ricordarsi qualcosa di importante.
«Condoglianze, per tua sorella». Andromeda corrugò la fronte e avvertì una singolare sensazione di intorpidimento alla guancia, come se l’avesse schiaffeggiata. E, forse, l’aveva fatto, senza che lei se ne accorgesse.
La strega scomparì oltre la soglia, con la sagoma del bizzarro cappello che si allontanava lungo il vialetto.
La porta sbatté con un colpo sordo.
Andromeda schiuse gli occhi, guardando, confusa, oltre il vetro appannato. Continuava a piovere contro la sua guancia. Si separò dal vetro gelido e portò una mano a massaggiare occhi e tempie. L’altra formicolava, sotto il suo peso non indifferente, ancora posata sulla lettera.
Solo allontanando la mano dal viso, si accorse che era macchiata d’inchiostro. Chissà che si era combinata in faccia...
Non se ne preoccupò più di tanto e, lì, seduta alla scrivania su cui aveva dormito, scrisse una breve risposta.

Cara Molly,
sarò lì dopo pranzo. Mi dispiace di essere stata così… assente. Oggi Teddy torna a casa con me.
Grazie di tutto.
Con affetto,
Andromeda.

Arrotolò con cura la pergamena, e, dopo aver richiamato la sua civetta, fissò la lettera ad una sua zampa. Spalancò la finestra per permetterle di volare verso la Tana e la guardò allontanarsi.
Alcune gocce le solleticavano il viso stanco, bagnavano la lettera di Molly, rendendo le parole macchie d’inchiostro blu incomprensibili. Non si decise, però, a chiudere, perché questa volta aveva voglia di respirare più a fondo.
Senza ripetersi di essere indegna dell’aria che le riempiva i polmoni, senza avvertire il peso di quelle perdite gravare su di lei con la stessa forza di prima.
“Il senso di colpa dei sopravvissuti” pensò con amarezza, mentre accarezzava l’idea di rivedere suo nipote. E con lui Ted, Ninfadora e Remus perché lui era questo e di più e, ora lo sapeva con certezza, le avrebbe ridato la fiducia nel futuro che credeva morto quanto lei.
Ringraziò la donna che le era apparsa in sogno, anche se di lei ricordava ora solo qualche immagine sfocata, e, con gli occhi lucidi, si accorse che aveva appena ringraziato se stessa. O meglio, quella parte di sé che aveva avuto la forza per lottare e trovare la speranza in quel mare di verità amare e ricordi dolorosi.
   
 
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