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Autore: aniasolary    12/05/2016    5 recensioni
A pochi passi dagli anni settanta, un Matematico e un Filosofo si amano travolti dal sole che picchia su Rio de Janeiro e cullati dal rumore del mare in lontananza.
Questo segnerà la loro esistenza e la loro morte.
«E dopo ti dimenticherai di me, Anders?»
«Non mi dimenticherò mai di te.»
Lo guardai, attento. Memorizzai il piano: le linee rette dell’arco di cupido, perfetto, su quelle sue labbra sottili; il fascio di parabole – curve morbide – delle sue ciglia dorate: azzurri, gli occhi, come il cielo pallido che vela il mondo dopo l’aurora; l’ellisse che abbracciava entrambi i suoi zigomi, di cui due nei occupavano i fuochi; il volto chiaro, senza un filo di barba, ancora infantile e dalle forme d’un imperfetta circonferenza.
Nemmeno io l’avrei mai dimenticato.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Dedicato a Francesca R.
 
Se mai decidessi di andare davvero in terapia da uno psichiatra,
non ti accetto se torni diversa
e non mi ricordi, ogni tanto, che you should have come to Shiratorizawa.
Ti voglio bene.
 
La teoria dei limiti
(Da applicarsi all’amore)

 
Parte prima
 
Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.
            
Mia madre mi ha cresciuto com’è cresciuta anche lei: duro come il legno degli alberi della foresta amazzonica, leggero per restare a galla sull’acqua se mi fossi trovato in una tempesta. Quando divenni abbastanza grande da capire, lei era già nelle grazie della sacerdotessa del Macumba, culto mistico che abbraccia la pietà della religione cristiana, del tempo in cui gli schiavi africani venivano deportati nelle terre feconde che oggi sono le nostre case. Era la Yabassé, unica responsabile degli alimenti sacri ed esperta guaritrice.
Non mi ha mai costretto a recarmi in chiesa, a credere in qualcosa in cui non riuscissi a trovare fede spontaneamente; d’altronde lei in chiesa non ci andava, ma partecipava alle sedute della sacerdotessa per parlare ai santi e agli spiriti.
Cercava di parlare con mio padre: era morto inghiottito dal mare.
Lo cercava: il suo amore era un’eco infinita che s’acquietava solo quando amava me. Raquel, Raquì, madre mia: piccolina, con due spalle larghe da chi è abituato a portare un grande peso di vita e lavoro, gli occhi grandi, neri e i capelli ricciuti, le braccia scure e forti. Sono proprio come lei, ma ho preso l’altezza dal padre che non ho mai veduto. Prima di sposarsi, colui che conosco col nome di Noè Maior Araùjo aveva comprato una piccola casa di legno da riempire di gioia e di figli. Erano rimasti una moglie e un figlio con una casa di legno benedetta: il fatto di possederla permise a mia madre di garantirmi di proseguire almeno fino alla terza elementare. Ed in Brasile, in cui tanti miei coetanei sono rimasti analfabeti fino alla morte, era un lusso.
La maestra che mi chiamò genio per la prima volta era inglese, bionda e delicata. Parlò a mia madre con parole semplici, piano, perché il suo aspetto sporco e terreno faceva credere a quegli stranieri là che non potesse capire parole come quoziente intellettivo notevole e media altissima.
Mia madre, però, queste cose le capiva, anche se solo in astratto, e annuì forte quasi a voler conficcare il mento in una certa parte d’aria, perché forti erano tutti i suoi movimenti.
Vinsi, ogni anno, borse di studio che mi sarebbero bastate anche per proseguire all’università. Nel mio quartiere povero ero un re; tutti avevano riguardo di non farmi finire troppo spesso tra il fango quando giocavamo a calcio, quasi avessi avuto il potere di punirli e decidere la loro sorte. Tra i re ero lo schiavo africano di duecento anni prima e che doveva essergli sempre sottomesso. Loro scambiarono il mio timore taciturno per un permesso a farsi spazio nella mia vita, per coltivare un’amicizia fatta di serate di cui non ricordavo mai la fine, compiti passati e una persona in più da salutare per strada. Erano contenti di venirmi a trovare nel mio quartiere: le ragazze che fino a quel momento morivano per me morivano per loro.
Ed io ne ero sollevato.
Alla fine dell’ultimo anno, mentre loro fumavano l’oppio e parlavano delle donne che avevano avuto nel letto, finirono per guardarmi tutti nello stesso istante. Dovevano farmi un regalo, dicevano. Dovevano rendermi finalmente un uomo.
Ero timido, e d’accordo, ci sono donne che impazziscono per i tipi così e con gli occhiali piccolini sulla punta del naso come li porti tu. Ma devi sapere com’è che si fa.
Lo devi vivere.

            Mi portarono in un edificio pieno di divani e ragazze svestite; una bella ragazza, che non doveva raggiungere ancora i trent’anni, mi condusse in una stanza lontana da tutte le altre, senza porta, che non mostrava l’interno solo perché l’entrata era coperta da una tenda filata. Mi fece segno d’accomodarmi, ed io mi sedetti sull’orlo del letto a baldacchino. Lei sorrise d’un qualcosa che assomigliava alla tenerezza.
«Prima volta?» chiese.
Feci un colpo di tosse. «Sì. Non sono mai stato qui.»
«Non era quello che intendevo.» E mentre mi porgeva una sorta di album fotografico, il suo sorriso s’allargò.
L’aprii e subito lo richiusi, con il fiatone, pieno di vergogna.
Mi alzai dal letto e la donna mi posò una mano sul petto.
«Dove vai?» fece, con voce dolce. «Non temere. Non ti accadrà niente di brutto. I tuoi amici hanno pagato abbastanza perché tu possa avere tutto quello che desideri, senza eccezioni.»
La sua mano mi scese in vita. «Desidero andarmene, signora.»
«Signora? Io non mi sposerò mai. Il mio destino è segnato, mio caro studentello che non sa niente del mondo, ma non il tuo.» Non scese più giù, ma con l’altra mano mi accarezzò il viso e fece in modo che la guardassi nei suoi occhi scuri, ornati di ciglia troppo lunghe per essere vere. «Andrà tutto bene.»
Mi lasciò solo e, dall’esterno, separato solo da quella tenda sottile, sussurrò qualcosa come: portami il più giovane.
Subito dopo entrò un ragazzo. Era nudo, se non per il tessuto che gli copriva le parti intime, ed era bianco. Biondissimo e con due occhi di ghiaccio, mi fissò con uno sguardo incuriosito che si trasformò in consapevole. «Ciao, Sebastião. È questo il tuo nome, giusto?»
Deglutii. «Sì. Questo è il mio nome. Sebastião Maior Horta.»
«Shhhh…» Si avvicinò e mi posò un dito sulle labbra, un sorriso a increspare le sue. M si sedette accanto e la sua mano restò ancorata al mio viso. «Non dovresti mai dire il tuo nome completo in posti come questi. Potrebbero ricattarti.» Restai in silenzio. Il cuore mi batteva troppo forte, come se fossi sul punto di andare all’altro mondo. «Ma tu sei una brava persona, non puoi saperlo,» aggiunse.
Presi fiato. «Tu come ti chiami?»
«Se avessi continuato a sfogliare il menu, avresti visto che mi chiamano desejo de gelo.» Desiderio di ghiaccio. «Ormai, qui, mi chiamano tutti a quel modo, Desejo.» Sospirò sul mio volto e chiusi gli occhi. «Clara aveva ragione. Tu desideri questo.» La sua mano scese laddove la donna, Clara, aveva avuto giudizio di fermarsi. Non avrebbe trovato niente di quello che in quel momento trovò il ragazzo di ghiaccio, il desiderio di ghiaccio.
Gemetti.
«Ma certo, lei capisce sempre tutto… le basta guardarvi, le basta guardarci… sei bello, Sebastião. Vuoi toglierti gli occhiali o vuoi guardarmi mentre lo faccio?»
«Io… io non lo so…» Era terribile: ero lì tra le braccia di un uomo, pronto a fare qualcosa che avevo idea accadesse solo tra uomo e donna, e non sapevo cosa dire, cosa fare. Sapevo solo che avevo paura. «Non dirlo a nessuno… i ragazzi non devono saperlo…»
«Quando uscirai di qui potrai raccontare ciò che vuoi,» mormorò, caldo il suo respiro. Cominciò ad aprirmi le braghe. «E potrai dimenticarti di me.»
***
Com’è con una donna, non l’ho mai saputo e non lo saprò mai. Chi altri uomini amarono il desiderio di ghiaccio, non l’ho mai saputo e non lo saprò mai. L’avrei dimenticato, mi dissi. Si era venduto: il primo ragazzo che baciai, il primo ragazzo che mi baciò; il primo ragazzo che mi prese, il primo ragazzo che presi. Seppi solo che quando tornai lì, qualche anno dopo, non c’erano più quegli amici a pagare per me. Andarono a studiare lontano ed ora non so più quali siano i loro nomi. Nel menu il desiderio di ghiaccio non c’era più, ma grazie a lui avevo capito che sì, i miei istinti rispondevano agli uomini, ma soprattutto alla pelle nivea degli europei, di chi viene da luoghi freddi, di chi non era schiavo come me. Grazie a lui avevo capito che ero destinato a un’esistenza fatta di dolori nascosti, di cui non avrei potuto parlare a nessuno se non a me stesso, nella mente. Siamo dei vermi: chiunque sia il ragazzo di questa notte mi striscia addosso e anch’io striscio, schiena contro petto, e non nasce niente…
Così continuò la mia giovinezza: tra gli odori mordenti delle erbe che mia madre cucinava e calcoli che si svelavano all’inchiostro della mia penna stilografica. Mi laureai in Matematica e trovai un buon posto in un liceo della città, a cui insegnavo a figli di papà poco dotati.
Da un certo punto in poi della mia vita, mia madre guardava oltre le mie spalle ogni volta che tornavo a casa dal lavoro. Si aspettava sempre che ci fosse qualcuno con me.
Si aspettava una donna.
Lo so, anche se non l’ha mai detto; mi costringeva ad abbassare la testa in modo che potesse darmi un bacio sulla fronte. C’era sempre della tristezza, nel sorriso che faceva. Io mi aspettavo, invece, che un giorno avrebbe smesso di chiamare lo spirito di mio padre, per ricongiungersi a lui quando l’avrebbe voluto il suo Dio.
Un Dio in cui credevo, ma che non ho mai trovato da nessuna parte.
Così io e mia madre passavamo la vita ad attenderci qualcosa l’uno dall’altra senza mai trovare un punto d’arrivo. Mi nutriva ed io lasciavo che lei mi nutrisse, lavoravo e lei lasciava che io lavorassi ed i nostri letti restavano vuoti.
Dopo il lavoro mi piaceva passeggiare vicino al mare, prima di tornare a casa. Quel giorno, mentre passeggiavo sulla litoranea dell’Arpoador, un'estensione della spiaggia di Ipanema in cui si poteva accedere, chissà se ancora oggi è così, da una passerella. Da lì il tramonto è straordinario ed io lo osservavo, la sabbia chiarissima mi carezzava le scarpe mentre il mare turchino si preparava all’alta marea, ad abbracciare le rocce rosse ghermite d’erba, se non ché mi accorsi che qualcosa mi bloccava il passaggio.
C’era un ragazzino avvolto in un lenzuolo.
Sembrava morto.
Lo schiaffeggiai e la pelle pallida si arrossò sulle gote. Gli occhi gli si aprirono e mi si rivelarono in tutta la loro luce: erano Rio in ottobre, cielo che comincia azzurro e finisce nel grigio. Erano una città lontana e il mare che bagnava il mercato del pesce.
Erano gli occhi di un ragazzino spaventato.
Svenne di nuovo tra le mie braccia ed io lo portai a casa, dove mia madre lo curò con i suoi impacchi d’erba e le sue preghiere agli Orixas[1]. Dopo qualche giorno, il ragazzino si svegliò. La spiegazione scientifica a quel che gli era accaduto era la disidratazione: si svegliò ché io ero affacciato alla finestra, ad aspettare che mia madre tornasse a casa da una seduta d’invocazione.
«Lei è il mio salvatore?» fu la prima cosa che disse.
Mi voltai a guardarlo. I capelli erano d’un castano chiarissimo, del colore del segale. I lineamenti regali distorti dallo smarrimento avevano un qualcosa d’infantile che mi fece rendere conto, a pieno, che sì, non poteva avere più di diciott’anni.
«Ti ho trovato sulla spiaggia, mia madre ti ha curato. Ti ha salvato lei,» precisai.
Lui fece per alzarsi.
Era ancora nudo.
«Aspetta, menino[2]!» lo fermai. «Aspetta, ragazzino! Dio, cosa mi tocca vedere, ti porto qualcosa da mettere.»
Entrai nella mia stanza con le mani vuote e ne uscii con le mani piene di miei vestiti che mettevo da ragazzo, smussati dall’usura e dal tempo.
Glieli portai. «Ecco qui. Vestiti e potrai tornare a casa. Mia madre è la Yabassé del Macumba, potrai passare dal terreiro – è il loro tempio, nel caso non lo sapessi – e ringraziarla personalmente.»
Come poco prima sollevò le coperte e, prima che potessi replicare, si alzò a prendere i vestiti che gli porgevo.
Mi guardò negli occhi. «Grazie,» sussurrò, e sorrise e il cuore mi si aprì in una voragine da cui traboccò uno stordimento doloroso, che mi fece sentire leggerissimo. Mi diede le spalle, i raggi del sole trafiggevano innocui la sua schiena bianchissima, tela perfetta di un pittore in una casa senz’arte. Uscii dalla stanza prima che potesse scorgere il mio imbarazzo e, appena ebbe finito, mi raggiunse.
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Sono un professore,» gli dissi. «Perciò è bene, vista la differenza d’età e di ruolo, che tu ti rivolga a me nel modo che ne conviene. Il professor Sebastião Maior Horta.»
Adesso posso dire il mio nome. Nessuno lo userà contro di me.
«Professore, io non voglio tornare a casa mia.»
Scossi la testa. «Be’, allora attento a non farti ritrovare in fin di vita da un altro estraneo!»
«Da un altro estraneo?» mi fece eco, la voce piena di stupore. «Non mi troverà nessun altro che non sia lei, professore.» Fece per avvicinarsi.
«Ragazzino...»
«Anders,» precisò. «Mi chiamo Anders Damgaard e sicuramente saprà, professore, che genere di famiglia è la mia.»
Per un attimo rimasi attonito. «I Damgaard… sei il figlio di Ludvig Damgaard, l’imprenditore. Lo so chi sei.» Lo fissai coi miei vestiti addosso: un principe dell’economia, viziato e ribelle – chissà quale bravata aveva fatto, per ritrovarsi nudo e privo di sensi sulla spiaggia – che indossava gli stracci di un povero innamorato dei numeri.
«Mio padre distrugge case per costruirne altre, abbatte gli alberi per dare spazio a residenze su residenze e violenta, brucia la tua terra. Capisco, quindi, se ti sei pentito d’avermi salvato.»
Mi rabbuiai. «Non sono pentito, ragazzino. Quel che fa tuo padre non dipende da te. Ma non starò ai tuoi capricci quindi tornatene dalla mamma.»
«Allora ci conosci solo per il nome. Mia madre è morta. A volte vorrei che fosse morto mio padre al suo posto.»
Scossi la testa per la vergogna del mio errore, ma mai avrebbe dovuto capire il disagio che mi attraversava. «Mi dispiace, ma non posso farci nulla.»
«Che cosa insegnate, professore? Posso essere suo allievo?»
«Pensi che faccia beneficienza? »
Sollevò un sopracciglio, perplesso dalle mie parole. «La beneficienza è una bella cosa.»
«È un peccato che tu non capisca la differenza tra le vere domande e quelle retoriche. Dovresti imparare molte cose prima di arrivare a quello che insegno io.»
«Le chiedo scusa,» abbassò il capo. «Non sono abituato agli scherzi.»
«Non ti scusare, ragazzino. Fai l’unica cosa che ti chiedo: vai a casa e non farti più vedere. Ah, un’altra cosa: vai a casa e studia, qualunque cosa va bene. Ma non sprecare la tua giovane vita così,» dissi, con fastidio, e sospirai con un rumore di fiato che parve un mare di chicchi di riso che scivolavano sul pavimento. «Ne morrei.»
I suoi occhi si spalancarono alle mie ultime parole. Nel mio cuore si propagò una risata: no, ragazzino, no che non muoio per te! Da dove vieni tu non esistono i modi di dire o tutto quel che si dice è Santa Verità? Sei un estraneo… e così giovane… così distante…
Mi venne davanti. «Non morite, professore,» mormorò.
Si sollevò in punta di piedi e posò la bocca sulla mia, con gli occhi chiusi. Passarono dei secondi in cui il tempo mi parve non scorrere più o, al contrario, scorrere veloce come le pulsazioni dei mio cuore, in preda alla pazzia.
Quando si staccò da me fu come se non mi avesse mai toccato: desiderai che tornasse di nuovo col il viso proteso verso il mio. L’avrei assaggiato con la lingua, l’avrei stretto tra le braccia, avrei mangiato con le labbra quella pelle bianca di stelle.
Ma l’unica cosa che feci fu dirgli: «Non morirò».
***
Un mese dopo lo rividi all’università, dove facevo le mie ricerche per il dottorato. Si era iscritto alla facoltà di Filosofia – era appena cominciato l’anno accademico 1966/1967 – e, ben vestito, se ne andava da un aula all’altra con una cartella di pelle e un cappello da signore.
Tutti lo guardavano da sotto il naso.
In pausa pranzo qualcuno bussò alla porta della stanza dei dottorandi; ero solo perché tutti gli altri – di almeno dieci anni più giovani di me – pranzavano fuori.
Ancora prima che dicessi avanti, la porta si aprì: era il ragazzino.
«Godmorgen[3],» disse, con quel suo sorriso maledetto. «Possiamo mangiare insieme,» propose.
Rimasi a bocca aperta, lui lo ignorò, si sedette di fronte a me e tirò fuori il suo cestino per il pranzo.
«Mi avevate detto di non farmi più vedere, lo so. Ma io volevo vedervi, professore. Il soggetto della frase è cambiato,» sorrise ancora. «E sto facendo quello che volevate. Sto studiando. Se studio, posso continuare a vedervi, professore?»
Mi alzai in piedi. «Ragazzino, non so che cosa vuoi da me.»
«Non lo so nemmeno io. So che penso sempre a voi. E se la filosofia cerca il senso delle cose e dell’universo, io l’ho trovato in un solo momento della mia vita: quando le ho dato il mio primo bacio.» Anche lui si alzò. «Ma chiedetemi, un’altra volta, di non cercarvi più ed io obbedirò.»
Mi mancava il respiro, non sapevo come comportarmi. «Obbedirai, ragazzino?»
«Sì,» chinò il capo. «Ma solo se mi chiamate Anders e non ragazzino.»
Deglutii e feci il giro del tavolo per raggiungerlo. «Va bene, Anders.» E lui sollevò quei suoi occhi dolci e in attesa per me. «Ora ascolta.» Faticavo a respirare. «Non raccontare niente di tutto questo a nessun altro che non sia te stesso. E non permettermi mai di fare qualcosa che non desideri dal più profondo del cuore,» dissi. «O da qualcosa che si trova un po’ più sotto. Devi volerlo davvero
Tremava. Era alto quasi quanto me. «Sì, professore.»
«Non sono il tuo professore,» mormorai, gli presi il viso tra le mani e trovai le sue labbra. Subito si dischiusero e la sua lingua toccò la mia, era di una delicatezza che mi sconvolse. Anders fece scorrere le mani tra i miei capelli nodosi e li tirò con forza, gemetti.
«Sei solo un ragazzino…»
«E lei un professore,» fece lui, con la voce tirata verso l’interno, dove era appesantito da tutti i suoi sogni, le sue speranze. «Eppure non mi sta insegnando nulla ed io non mi sto comportando da ragazzino.»
Si teneva aggrappato a me, con i pugni stretti.
«E dopo ti dimenticherai di me, Anders?»
«Non mi dimenticherò mai di te.»
Lo guardai, attento. Memorizzai il piano: le linee rette dell’arco di cupido, perfetto, su quelle sue labbra sottili; il fascio di parabole – curve morbide – delle sue ciglia dorate: azzurri, gli occhi, come il cielo pallido che vela il mondo dopo l’aurora; l’ellisse che abbracciava entrambi i suoi zigomi, di cui due nei occupavano i fuochi; il volto chiaro, senza un filo di barba, ancora infantile e dalle forme d’un imperfetta circonferenza.
Nemmeno io l’avrei mai dimenticato.
«Un caffè, domani. Va bene? O un goccio di liquore. Io prenderò il liquore.»
***
Mia madre si chiamava Adelaide. Lo so, professore, che mi ha detto semplicemente un “parlami di te”. Ma parlare di lei mi piace di più. Parlare di lei mi ricorda che c’era, perché non credi che ti stia raccontando bugie, nevvero? Oh, spero che il mio portoghese non sia così pessimo da non rendere al meglio quanto… quanto mi manca la sua colazione in cucina, il profumo della pancetta fritta e dei fagioli in terra cotta, il fumo che emergeva dai piatti – quelle nuvole calde su cui soffiavo – dovevano andar via, non era quello il loro posto. Bisogna stare dove si sente di stare a casa, per avere il cuore leggero. Lo diceva sempre, mia madre. E quanto mi mancano i giochi al parco in cui mi lanciavo sullo scivolo e mi sentivo un uccello e poi, improvvisamente a terra, mi trovavo bambino; e i compiti di matematica che facevamo insieme, ed io che volevo le sue carezze anche d’inverno, quando le sue mani erano fredde fredde, ed io piccolo facevo brrr e lei rideva, mi toccava tutta la faccia… brrrr… anche sua madre lo faceva?
Mia madre ha le mani calde, ragazzino.
Un colpo di tosse. Ah, strano. Io non so proprio che vuol dire… ed è in vita? Deve essere straordinaria, per avervi reso così…
Occhi spalancati. Voce sussurrata. Anders. Per l’amor del cielo. Non puoi toccarmi in pubblico. Siamo in un bar in mezzo a tantissima gente.
Professore, nessuno bada a noi… e quei tipi, laggiù, si stanno anche baciando.
Sono un maschio e una femmina, ragazzino. Resta al posto tuo e continua a parlare. Stai calmo, forza. Mi piace sentirti dire queste cose, io… non ho mai sentito nessuno che parlasse d’amore.
***
Uscimmo dal locale. Rio de Janeiro si addormentava al profumo della notte e dell’oceano, mentre io mi accendevo un sigaro ed Anders, inquieto, mi camminava accanto. Non avevo mai vissuto la mia città e la vita che ci fluiva,  forse per questo avevo fissato l’appuntamento in serata. Le sue bellezze mi erano precluse perché io ero un suo abominio, col privilegio di restare purché non dessi spettacolo del mio orrore. Da lì, nei pressi del Copacabana, si vedeva tutto il meraviglioso di cui Rio era capace: in lontananza il Cristo Redentore, l’enorme masso verdone che è il monte Pan di Zucchero, il mare nero su cui luccicavano le varie luminarie…
Anders si guardava intorno.
«Che cosa c’è?» gli chiesi.
Lui non rispose subito. Restò in allerta, con lo sguardo lontano. «Mi assicuro che nessuno ci guardi,» sospirò.
Anders mi prese la mano, e la strinse, e così camminammo per un paio di metri in cui trattenni il respiro in gola. Preso da un moto di terrore, gliela lasciai.
«Forse dovresti stare con un ragazzino come te. Non mi piacciono queste cose.»
«Hai paura,» concluse Anders. «Come li trattano, qui, gli omosessuali?»
Quella parola fu uno schiaffo in pieno viso. «Abbassa la voce,» mormorai, raggelato.
«Perché non possiamo baciarci come quella coppia al bar?»
«Sono un matematico, non conosco le risposte a queste domande,» sospirai. «Devi prendertela con il mondo intero e con chi lo comanda, ragazzino.»
«Solo io sono arrabbiato per questo?»
«Io sono rassegnato. Non ho mai voluto mostrare al mondo che cosa mi piace fare in camera da letto. Sono sempre andato a puttane, anche se si tratta di puttane uomini. E sì, sono affari miei.»
«Non sei mai stato innamorato?»
«Ah, lo dite ancora così, voi giovani?»
«Si dice così dalla notte dei tempi, professore.» Abbassò il capo e un’ombra oscurò il suo viso. «È quella cosa che mi fa pensare a te quando mi sveglio e quando mi addormento. Che mi fa venir voglia di scrivere il tuo nome dappertutto. E di baciarti in mezzo alla strada, davanti a tutti.»
«Ma se nemmeno mi conosci…»
«Mi hai parlato di te, ieri. Sei un fedele e un praticante: la Matematica è il tuo Dio. Ami tua madre. Non hai mai conosciuto tuo padre. Hai faticato per arrivare dove sei ora e sei comunque indietro rispetto a chi ha avuto la strada spianata, ma non demordi. Studi. Credi. Vivi. Ogni tanto fai l’amore,» disse, tutto d’un fiato. «Stai cercando di risolvere quell’ipotesi di quel tedesco… ah, non ricordo il nome! Ma ne hai parlato con una rabbia… una passione… un tale coinvolgimento…» Rise al cielo. Il suono somigliava ai battiti d’ali delle fate nelle fiabe, proprio come l’ avevo immaginato. «Sicuro di non essere mai stato innamorato?»
Scossi la testa, preso da uno stordimento che non riuscivo a definire. Fui io a prendergli la mano, a guidarlo all’interno della strada buia.
Non potevo fare altrimenti. «Non davanti a tutti, ma possiamo baciarci lo stesso. Accontentati, ragazzino.»
***
All’inizio fu difficile. Far entrare Anders in casa, dopo due mesi di caffè e liquori, e affrontare la sorpresa di mia madre.
«Mamma, ti ricordi di lui? È il ragazzino che abbiamo salvato dalla strada.»
Lui mi sfiorò il braccio con il gomito, sorrise.
Era vestito a festa e si tolse il cappello con una riverenza.
Mia madre, piccola di statura, sollevò la testa dal tavolo in un modo austero che la fece sembrare una gigante.
«Certo che mi ricordo, Sebé, non sono ancora una demente,» fece lei, con le sopracciglia aggrottate. Mi chiamò col nome dei nostri istanti di tenerezza e severità, perché Sebé ricorda sebes: siepe o recinto nella nostra lingua modulata e briosa, perché sapessi sempre che dovevo bastare a me stesso. «Di certo non sembra più un mendicante,» aggiunse.
Anders tornò con la schiena diritta. «Signora, vi sono riconoscente per avermi ospitato in quei giorni bui. Sarei dovuto passare dal terreiro, ma non so dove si trovi, io…»
«Ha fatto tutto mio figlio,» rispose lei, con un’alzata di spalle; lasciò il panno che stava usando per pulire  e gli si mise davanti. Ebbi paura che lo uccidesse, ma poi gli fece la più grande delle dichiarazioni d’amore:
«Ed ora, mio caro, dimmi: hai fame?»
***
Anders era andato via – suo padre l’aveva riaccolto in casa, a patto che lui si comportasse bene, ma non era a conoscenza di noi. Io e mia madre eravamo insieme in veranda, i nostri piedi si sfioravano mentre lei si lasciava dondolare sull’amaca.
«Un ragazzo, eh? Anzi, un ragazzino…» E sospirò. «In fondo l’ho sempre saputo. Sono tua madre. Queste cose, le madri, le sentono dentro… non ti sei innamorato nemmeno di Nalda, la più bella della strada. Chissà chi sposerà alla fine… è ancora una ragazzina anche lei.»
Sospirai anch’io e mi coprii il viso con le mani. «Provi disgusto per me?»
«Disgusto? Oh, no! Cuore mio, no… Sono la Yabassé del Macumba, non hai ancora imparato che cosa vuol dire?» Alzai il volto a guardarla, incerto; scosse la testa, sbuffò e continuò a parlare, agitata. «Ah! Che cosa devo fare con te, Sebé… e quante volte dovrò ancora spiegartelo, perché tu capisca che non parlo di sciocchezze… La continuità e l'equilibrio con l'universo e la natura si possono raggiungere solo così: l’axé, questa forza sacra che va posizionata e riposizionata, fluisce in tutte le cose… piante, animali, uomini. L'axé può diminuire, aumentare ed essere distribuito attraverso i nostri riti. Tu hai tanta axé dentro di te, figlio mio… ed anche Anders ne ha tanta, così tanta che l’ho sentita appena l’ho toccato, anche se era addormentato, e l’ho sentita anche stasera, quando mi ha stretto la mano. Che seguace del Macumba sarei, se ti impedissi di amarlo? La sacerdotessa dice questo, Sebé.» Sospirò e mi guardò coi suoi grandi occhi neri. «L’amore è il disquilibrio più equilibrato con il cosmo, la natura e gli uomini, poiché senza di esso non avremmo né cosmo né natura né uomini.»
Mi accarezzò il viso con la sua mano dalla pelle sottile, di chi lavora tanto sotto il sole, a scorticarsi i palmi mentre raccoglie erbe e grani. Gliela baciai, con trasporto, e poi baciai lei come mi venne – guance, fronte, braccia.
Mia madre rise – non emise suono. «È bello, Sebé. È molto, molto bello. Gli vuoi bene?» mi chiese, con gli occhi lucidi a guardare la notte. Sapevo che pensava a mio padre.
«Lui…» Il silenzio mi riempì la bocca. Non ho mai saputo parlare di certe cose.
«Non importa se il cuore non parla. Il cuore fa. Ci porterà dolori?» mi chiese, con la voce flebile.
«No. Nessuno lo saprà.»
Mia madre tornò a sdraiarsi sull’amaca con lo sguardo fisso verso le stelle. «Io sono contenta di saperlo. Sono contenta di sapere chi sei.»
*
*
*
*
Ciao a tutti, lettori carissimi. Questo racconto è nato come un continuum – copre un arco di tantissimi anni – ma per ragioni di comodità di lettura ho deciso di dividerlo in tre parti. Ieri, in Italia, seppur con i suoi limiti, è stata approvata la legge delle unioni civili ed io volevo festeggiare in qualche modo, così ho pensato di pubblicare questa mia prima storia slash *.*
Ogni cosa che scrivo è una sfida. Ho cercato di entrate nell’ottica di una persona devota alla Matematica, appropriandomi come possibile delle conoscenze che già possedevo e studiando ciò che non conoscevo. Se sbaglio qualcosa, qualunque cosa, correggetemi assolutamente.
Devo ringraziare Joe Grimaldi Oliveira per le nostre conversazioni sulla sua terra d’origine, è stato gentilissimo e tanto disponibile; e grazie a Francesca, a cui ho dedicato la storia, per tante cose che sa; e grazie a Stefania, che mi aiuta sempre laddove mi serva una conoscenza in più in una lingua che non conosco, ma questo si vedrà nelle parti successive; e grazie a te, lettore, chiunque tu sia, per essere arrivato fin qui e avermi dato una possibilità.
 
Ania <3
 

Arpoador, Rio de Janeiro
 
[1] Gli Orixas, nel sincretismo del culto afro-cristiano del Macumba, corrispondono ai santi della religione cattolica
[2] Menino: ragazzino in portoghese
[3] Buongiorno in Danese
   
 
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