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Autore: Kary91    14/05/2016    4 recensioni
[One-Shot | Magnus!centric | Max&Magnus | Accenni Malec]
“Sono Max” annunciò, mettendosi a sedere in maniera un po’ più composta.
Una sfumatura di comprensione attraversò gli occhi felini di Magnus.
“L’ultimo della cucciolata, certo.”
Per un attimo, Magnus non poté fare a meno di cercare in quel visetto gli occhi azzurri del bambino che aveva tentato di far sorridere anni prima.
Non li trovò – gli occhi di Max erano grigio chiaro – ma riuscì comunque ad individuare qualcosa di Alexander in lui. C’era l’affetto evidente che il bambino nutriva nei confronti dei fratelli. La semplicità con cui il suo sguardo sembrava rischiararsi quando pensava di averli resi fieri di lui.
“Anche tuo fratello aveva il fuoco, da piccino” si sorprese a rivelare.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Magnus Bane, Max Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'We're Lightwoods;'
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Questa storia è stata scritta per l’event del 6 Maggio del gruppo We are out For Prompts, con il prompt Magnus&Max [preferibilmente con riferimento a questa os Magnus/baby!Alec che hai già scritto] — “Anche tuo fratello aveva il fuoco, da piccino. Solo che, a differenza tua, se lo teneva tutto dentro. Un po’ come fa anche adesso” di Giuns.

Nella one-shot ho inserito un accenno a Church, il gatto che nei libri vive nell’Istituto di New York, nonostante nel telefilm non abbia mai fatto comparsa. Diciamo che ho deciso di immaginare che non avesse semplicemente voglia di farsi vedere molto in giro, ecco u_ù

 


Of Inner Fires and Paper Towers

 

 

“Non così in fretta, bel micio.”

Magnus seguì Church, il gatto dell’Istituto, lungo uno degli innumerevoli corridoi dell’edificio. Era rimasto sorpreso quando se l’era visto arrivare incontro, guardingo e immusonito come sempre: ultimamente non si era più fatto vedere troppo  in giro.

Aveva chiesto al gatto di condurlo da Alec e l’animale sembrava aver acconsentito, ma zampettava così in fretta che aveva dovuto affrettare il passo per stargli dietro.

Non poteva biasimarlo, si era detto Magnus mentre con un miagolio svogliato la creatura imboccava l’ingresso della biblioteca. I gatti erano creature intelligenti: non potevano perdere tempo a fare da guide turistiche ai visitatori di un edificio.

Fu costretto a ricredersi almeno in parte, tuttavia, quando notò la persona da cui Church l’aveva portato. Era un bambino, una figuretta talmente minuta che a un primo sguardo Magnus non l’aveva nemmeno notata. Sedeva scomposto su una delle poltroncine, l’aria imbronciata e la giacchetta spiegazzata: a quanto pareva quel mattino erano tutti di cattivo umore, non solo Church.

Magnus sospirò con fare teatrale e si chinò per grattare la testa del gatto, che non sembrò apprezzare.

“È un po’ bassino per essere Alexander, non ti pare?” osservò rivolto al gatto, mentre analizzava meglio il ragazzino: una trentina di carte runiche, di quelle che utilizzavano i cacciatori più giovani durante l’addestramento, erano sparse per il tappeto. Alcune, tuttavia, erano state impilate le une sulle altre, a formare un agglomerato di torri sbilenche.

Il bambino distolse lo sguardo dalla runa che aveva in mano – estinzione, riconobbe Magnus inclinando la testa di lato per sbirciarla – e gli rivolse un’occhiata guardinga.

“Sono Max” annunciò, mettendosi a sedere in maniera un po’ più composta.

Una sfumatura di comprensione attraversò gli occhi felini di Magnus.

“L’ultimo della cucciolata, certo.”

Sorrise, ignorando il miagolio seccato con cui Church si stava congedando da loro per poi tornare in corridoio.

Non aveva molta dimestichezza con i bambini, benché meno con quelli che non erano dei Nascosti. Tuttavia, gli piacevano. Gli ricordavano due delle doti umane più belle che l’immortalità negava a chi ci viveva dentro: l’innocenza e la possibilità di generare un figlio, qualcuno da amare più della propria vita.

“Sai dirmi dove posso trovare tuo fratello Alec?” chiese, chinandosi per poter analizzare meglio la costruzione sbilenca di Max. “Chiederei di nuovo a Church, ma oggi mi sembra un tantino indisposto.”

Lo sguardo del bambino si fece più imbronciato.

“Sta parlando con Izzy e mamma nella stanza delle armi” mugugnò, alzando gli occhi al cielo. “Volevo andare con loro, ma non me l’hanno permesso: discorsi da grandi” aggiunse, scuotendo infastidito la testa.

Un guizzo divertito fece capolino nello sguardo dello stregone: c’era qualcosa del piccolo Max che lo incuriosiva. Aveva senz’altro qualcosa di Isabelle – quel principio di insofferenza agli ordini dei genitori ne era un chiaro esempio – tuttavia il broncio tratteggiato sul suo volto aveva risvegliato in Magnus il ricordo di un altro ragazzino. Non erano trascorsi poi molti anni dalla volta in cui, a soli pochi corridoi di distanza dalla biblioteca, era incappato in un bambino dall’aria altrettanto incupita.

Un bambino col portamento fiero e controllato di un guerriero, ma con gli occhi colmi di insicurezza.

“Ho sentito qualcosina sul tuo conto” osservò ancora Magnus, avvicinandosi al ragazzino. “Alec parla volentieri di te: il che è una manna dal cielo, visto che di solito è difficile scucirgli più di qualche parola di bocca. Pare che tu abbia appiccato un incendio all’Istituto di Mumbai con una runa del calore.”

Un guizzo divertito illuminò lo sguardo del bambino per una frazione di secondo, ma Max lo represse in fretta.

“È stato un incidente!” si difese con l’aria di chi ha appena subito una terribile ingiustizia.

Magnus sollevò le mani in cenno di resa.

“Cercherò di crederti sulla parola: i tuoi fratelli, comunque, l’hanno trovato molto divertente.”

Questa volta il sorriso compiaciuto di Max rimase impigliato alle sue labbra un po’ più a lungo.

Per un attimo, Magnus non poté fare a meno di cercare in quel visetto gli occhi azzurri del bambino che aveva tentato di far sorridere anni prima, aiutandolo a centrare un bersaglio con una freccia.

Non li trovò – gli occhi di Max erano grigio chiaro – ma riuscì comunque ad individuare qualcosa di Alexander in lui. C’era l’affetto evidente che il bambino nutriva nei confronti dei fratelli. La semplicità con cui il suo sguardo sembrava rischiararsi quando pensava di averli resi fieri di lui.

“Anche tuo fratello aveva il fuoco, da piccino” si sorprese a rivelare, sorridendo al ricordo.

Gli occhi chiari di Max si sgranarono, incuriositi.

“Jace?” azzardò, confuso.

Magnus scosse la testa.  

“Alec. Solo che, a differenza tua, se lo teneva tutto dentro. Un po’ come fa anche adesso.”

Max sembrò rimuginare sulle sue parole per qualche istante.

 “Alec è forte” mormorò infine, mettendosi a sedere sul tappeto. Sfiorò con i polpastrelli il tetto di una delle sue torri di carta, cercando di raddrizzarla. “Molto forte. È solo che non gli piace mettersi in mostra: Jace dice sempre che è per questo che lui lo fa anche al posto suo.”

Un sorriso orgoglioso illuminò il volto del bambino, nel momento in cui nominò il fratellastro.

Lo stregone si limitò ad annuire. Si accovacciò al suo fianco ed esaminò con vago interesse la costruzione di carte.

“Alicante” la riconobbe, chinando la testa per esaminarla meglio. “La Città di Vetro.”

Max annuì, visibilmente compiaciuto.

“Una volta, con Jace, ho costruito tutta Idris con le carte runiche” rivelò, sistemando il tetto della torre più alta. “La mamma gli aveva chiesto di aiutarmi con i compiti e quando è tornata in biblioteca e ha visto che in realtà stava giocando ce ne ha dette di tutti i colori.”

Il bambino ridacchiò al ricordo, prima di incrociare le gambe sul tappeto e incominciare a costruire una nuova torre.

Per qualche istante rimase in silenzio, concentrato su quell’operazione.

“Secondo te gli assomiglio?” chiese poi, sollevando gli occhi per incrociare quelli luminosi di Magnus.

Lo stregone inarcò le sopraciglia.

“A Jace?”

Il bambino scosse la testa.

“Ad Alec: dicono tutti che siamo un sacco diversi.”

Le carte che Max stava facendo coincidere gli sfuggirono di mano e urtarono una delle torri, facendola cadere.

Con un movimento elegante delle dita, Magnus ne fece volteggiare i vari tasselli per aria: nel giro di qualche secondo erano già tornati al loro posto.

Max osservò l’operazione ad occhi sgranati, stupore e curiosità a contendersi il volto.

“Sei uno stregone?” esclamò, il volto contratto in una smorfia di incredulità infantile.

Magnus allargò le braccia.

“Perché, non si vede?” 

Max indietreggiò di poco, le sopracciglia aggrottate a modellare un’espressione guardinga sul suo viso: ed eccolo di nuovo, il piccolo Alexander. Un lieve accenno a matita abbozzato sotto i lineamenti infantili del fratello minore.

“Ma gli stregoni sono cattivi[1]…” mormorò il ragazzino, arrossendo al suono delle sue stesse parole.

Un sorriso divertito accarezzò le labbra di Magnus.

“Questo te l’ha detto mamma Lightwood, vero?” commentò, alzandosi in piedi. “Posso solo immaginare quante storielle della buonanotte ti abbia raccontato con noi Nascosti nei panni dei cattivoni di turno.”

Max sembrò incerto su cosa dire per qualche istante, lo sguardo perplesso rivolto alla torre che Magnus aveva appena ricostruito con la magia.

“Ma tu vuoi bene a mio fratello…” mormorò infine, senza distogliere gli occhi dalla città di carta. “… Vero?”

“Vero.”

Magnus fu sorpreso dalla rapidità con cui quella conferma gli sgorgò dalle labbra.

Non se ne pentì, comunque: ricambiò fiducioso il sorriso che il bambino gli stava rivolgendo.

“Allora non puoi essere tanto cattivo” dichiarò a quel punto Max, alzandosi a sua volta. Arrischiò un passo verso di Magnus e tese la minuscola mano verso di lui, con lo stoicismo di un cacciatore.

Con la compostezza di un Lightwood adulto.

Con la determinazione di Alexander.

“E tu non puoi essere così diverso da tuo fratello, se pensi questo” concluse lo stregone in tono di voce insolitamente dolce, ricambiando la stretta di mano del bambino.

 

 



[1] Riferimento a una frase che Max pronuncia in “Città di Cenere”, mentre parla con Alec e Isabelle.

   
 
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