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Autore: vereor cruz    14/05/2016    0 recensioni
"All'inizio dell'estate ti sei tagliato i capelli così corti che il biondo si poteva quasi solo
vagamente intuire, gli occhi azzurri sembravano più grandi e il grosso anello al naso
spiccava sul tuo viso da bambino, facendoti sembrare ancora più magro, ancora più perso"
Guardare negli occhi certa gente è pericoloso. Guarda poi cosa tirano fuori dagli angoli più in ombra, nascosti nella tua testa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LOOKING BACK AT ME

Sogno di Una Notte di Inizio Autunno

 

Sei un ragazzo strano. Una volta si sarebbe detto che sei uno di quelli che ne nascondono sempre un paio in una manica, ma non di assi, di cose assurde. O forse non è vero e questo detto non è mai esistito, pazienza, perché è il modo migliore per descriverti, e se non esisteva, da adesso esiste.

All'inizio dell'estate ti sei tagliato i capelli così corti che il biondo si poteva quasi solo vagamente intuire, gli occhi azzurri sembravano più grandi e il grosso anello al naso spiccava sul tuo viso da bambino, facendoti sembrare ancora più magro, ancora più perso.

Quando i capelli hanno cominciato a ricrescerti, la bellezza graffiante di ragazzo giaguaro è esplosa, gli occhi si sono caricati di violenta inquietudine e le linee del viso si sono scavate, facendoti tornare, da scheletrino drogato che sembravi all'inizio, a persona profonda, adulta, con idee e obbiettivi, e anche un po' di schifo di vivere, ma quanto basta a non mollare tutto.

Quando ti sei ripresentato a settembre, i capelli folti e gli occhi azzurri ti facevano sembrare uno di quei modelli dall'aria ferina, diversi, il bel sorriso, ma perfetti soprattutto con l'espressione corrucciata. Angelici quando sorridono. Gli occhi turbolenti. Mai fermi. E non sei nemmeno biondo, si è scoperto, hai i capelli scuri, più scuri di quello che si pensava, castano molto chiaro.

Ti vesti spesso di nero, e di azzurro, e di blu. I colori che ti metti ti stanno bene perché sai cosa metterti. Non sei così trasandato come si poteva pensare guardandoti scheletrino d'estate. Stai attento all'aria che dai, e non è vero che il tuo cervello è così bruciato che non sai studiare. All'arrivo dell'inverno, passi sempre più tempo sui libri, le cui pagine scorrono come se effettivamente qualcuno le stesse leggendo, non alzi più così tanto lo sguardo, stai studiando davvero, meraviglia per chi ti ha visto a giugno.

Ti metti spesso a leggere piegato su un gomito, il mento vicino al dorso della mano, il naso e la bocca premuti contro, chissà cosa senti; ogni tanto alzi gli occhi grandi e molto più spesso li tieni giù, sul libro che tieni piegato su se stesso.

Quando parli con i tuoi amici, in biblioteca non si sente il suono della tua voce; quando sei fuori e parli liberamente, si sente, ed è un suono strano, non è una di quelle voci profonde da uomo, ma una a metà, da ragazzo, quasi stridula ogni tanto, ma quelle volte che si riesce a concentrarsi attentamente solo sulle tue parole, il senso sembra quello di un ragazzo con certe idee. Non tante, perché non sei un genio, ma qualche idea, in quella testa su cui i capelli sono ricresciuti velocemente e sembrano così morbidi, ce l'hai.

Sembri a guardarti il ragazzo che sembri ad ascoltarti, e probabilmente non avrai più di 23, 24 anni.

Sei un animale selvatico, non uno di quelli grossi e tenebrosi, o cattivi, o feroci, ma selvatico ugualmente, ti distingui, sei agile, scattante, ma non nel senso che sei veloce, bensì che quando ti muovi il tuo corpo sembra attraversato da scatti nervosi, correnti elettriche, scariche secche che ti travolgono e ti fanno muovere. Non sei uno di quei maschi pantera, o stallone, o orso, sei più grosso di una lince, meno femminilmente aggraziato, non fai branco come un lupo, non hai quell'aria così austera e nobile.. il giaguaro ti calza a pennello.

Sei un ragazzo giaguaro, ma anche un giaguaro ragazzo. Non sarai mai vecchio, non ti si può pensare cresciuto, in nessun senso.

Porti una casacca di cotone grosso, intrecciato a mano, a strisce giallo scuro e grigio chiaro, l'effetto è andino e hipster-alternativo. Sotto hai una maglietta chiara, azzurra forse, e deve essere una banale maglietta azzurra, senza scritte; jeans di un blu denso, larghi in vita, stretti al bacino da una cintura, più aderenti sui polpacci, e quelli che sembrano anfibi neri, al posto delle tue solite scarpe da ginnastica a suola piatta.

Il solito anello al naso è sempre grosso allo stesso modo, cioè non poco, ma da quando ti sono ricresciuti i capelli si nota sempre meno.

Fumi, ma raramente ti si vede fumare tabacco; le sigarette non le tiri mai fuori da qualche tasca o dallo zaino blu scuro a finimenti gialli della NorthFace, ma le chiedi a qualcuno. La maggior parte delle volte sembrano più il pretesto per passare vicino a qualcuno che ti interessa, e stare a guardarti intorno, o per attaccare bottone con qualcuno dei tuoi tanti, troppi, infiniti conoscenti che ti accolgono sempre, evidentemente perché sei di buona compagnia.

La ragazza con il fermaglio decorato a fiore giallo scuro ti rivolge sempre un sorrisone, e tu hai sempre almeno un bacio sulla guancia al giorno per lei, e ti chini spesso anche più di una volta, a baciarla ogni volta che esci. Sempre e solo sulla guancia. Quando però davanti a te c'è qualcosa che ti interessa, non è lì che guardi. Non è quasi mai questa nuova Lei che guardi, punti spesso lo sguardo attorno, anche se poi è sempre della ragazza con il fermaglio a fiore la guancia che baci.

Chissà come ti chiami, si chiede qualche ragazza.

Chissà di cosa ti facevi quest'estate, si chiedono i più, quelli che hanno assistito al cambiamento indotto dalla ricrescita di quella folta chioma che davvero, sembra morbida e setosa, e anche profumata.

Alle feste ad agraria ci sei sempre. Non arrivi presto, ma neppure troppo tardi, non ti presenti ubriaco e neppure troppo marcio di fumo, arrivi e ti sposti, con i tuoi amici, via dalla reggae, verso la tecno, con le sue luci sempre strane, e ondeggi a ritmo, perso nella troppa gente, assieme ai tuoi amici o solo. Se qualcuno ti si avvicina, scivoli via, improvvisamente spaventato, come a chiederti chi diavolo siano, cosa vogliano. Certo, alcune cose le rivorresti, ma all'estraneo non è dato sapere e all'estranea tanto meno.

Alle feste a Novoli non ci vai, perché sei vestito abbastanza bene ma non sembri soffrire gli ambienti di quel tipo.

E chi ce la fa?

Le ragazze che guardi sono carine, anche belle. Non sono sfattone, ma neppure eccessivamente truccate o curate, bentenute proclamanti quanti soldi i genitori mettono loro a disposizione. Ti piacciono le belle ragazze che sembrano distinguersi.

Ti piace guardarle e sei contento quando ti guardano, ma non ti muovi. Guardi e basta.

Forse qualche difettuccio ce lo hai pure tu, insomma, se guardare ti piace così tanto.

Qualche perversioncina, qualche tendenza al voyeur, per dirla alla francese, o forse semplicemente non hai il coraggio di avvicinarti a qualcuna e parlare direttamente, qualcuna che vedi solo in facoltà, tu e la tua voce da ragazzetto; non hai l'aria di chi sa bene di essere bello, o carino, o guardato, sembri piuttosto sorpreso ogni volta che ti scopri oggetto di sguardi e attenzione.

 

Quella mattina piove, ma tu esci lo stesso dal portone di Brunelleschi, e ti affacci nel chiostro, la pioggia che ti bagna fino alle ginocchia i jeans blu scuro, le scarpe nere tipo anfibi; non hai il cappuccio, solo la casacca tipo andina che scende leggermente a campana, e le braccia tese lungo i fianchi. Stringi i pugni a momenti, e a momenti li rilassi, non si sa dove guardi, avanti a te, nel nulla che si nasconde tra le particelle di polvere e danzano in mezzo al cortile, fra i cinque alberi con quella specie di recinto, sullo sfondo il lato opposto del chiostro e la porta della ex sede di architettura.

Dei tuoi amici, sulla panca di cemento non se ne vede uno. Alcuni sono dentro, la ragazza con il fiore giallo scuro, il rasta biondo con gli occhi azzurri, la barbetta e l'orecchino nero di legno, il ragazzo con i capelli neri, gli occhi neri, che si è appena tagliato la barba nera.

Studiano tutti e tre, nessuno fuma, fuori piove, non hanno voglia di uscire a fumare, alcuni di loro hanno il pranzo in una busta di plastica bianca sul tavolo, la ragazza che non lo ha e che, evidentemente, ci penserà dopo, e passa il tempo a leggere e arrotolarsi i capelli corti sul dito magro e lungo.

Tu sei fuori e ti prendi la pioggia fino alle ginocchia.

Quando torni dentro, ti guardi a desta e a sinistra finché non hai raggiunto i tuoi amici al tavolo, e, con i fianchi protetti dal rasta e dal tizio con i capelli neri, guardi avanti a te e incroci qualche sguardo di ragazza e qualche sorrisetto o gesto con la testa, che ricambi, di ragazzi che ti conoscono perché è capitato che abbiate fumato insieme.

-Notizie?- chiede il rasta, la voce bassa, un sospiro rauco e virile.

La ragazza e il ragazzo con i capelli neri, gli occhi neri e che si è tagliato la barba nera ti guardano in silenzio.

Scuoti la testa fissando gli occhi chiari del rasta e la sua faccia abbronzata.

-Cazzo. È tardi- commenta il rasta.

Tu alzi le spalle: “lo so”stai pensando, preoccupato, e i tuoi occhi inquieti sono agitati, carichi di colore, si spostano in fretta nella stanza, sul libro, le pagine, di nuovo suoi tuoi amici, che si sono riabbassati sulle pagine dei loro libri, dispense o quaderni, giri un paio di pagine in avanti, un paio indietro, ancora due indietro, torni a quelle giuste, respiri forte dal naso.

Sì, è tardi.

Lei non c'è.

Sei preoccupato.

Sai cosa può essere successo.

Se lei non c'è, sai perché non si presenta.

Perché è rimasta a casa con un ago infilato nel braccio.

Sei stanco di quella storia, di andare a fare l'angelo custode di quella pazza ribelle scatenata che non si sa contro cosa combatta, bellissima e con l'aria distrutta, che, a quanto pare, si sono scopati tutti.

Eppure continua ad essere così bella, malgrado l'alcool, malgrado il fumo, malgrado l'erba e il crack e l'eroina.

Sei davvero stanco.

Respiri forte un'altra volta.

Lei ti guarda, una Lei che ti piace, una Lei con i suoi profondi occhi verde scuro, erba bagnata al crepuscolo di un inverno gelido, incrocia il tuo sguardo tormentato, lo regge, sembra chiederti cosa ti turbi, e tu riabbassi gli occhi sulle pagine stampate di lettere che non vedi.

Respiri forte di nuovo.

Il rasta solleva la testa, muto.

Ti alzi, prendi il telefono dal tavolo, esci.

Qualche minuto dopo, mentre sei di nuovo a bagnarti i jeans fino alle ginocchia e le scarpe che sembrano anfibi, il rasta ti raggiunge, infilandosi i capelli sotto al cappuccio della felpa grigia, arrotolando le punte sempre più sfatte.

Resta appena dietro di te, al riparo dalla pioggia, per non farti accorgere della sua presenza, ma in realtà sai che c'è e lui sa che lo sai.

Restate in piedi insieme, lui vicino alla tua spalla, guardate tu il nulla e lui la tua testa e la tua schiena, entrambi ascoltate la pioggia che cade forte e il telefono che squilla cadenzato il suo tuuuuu-tuuuu-tuuu...

Non risponde.

Attacchi, chiudi gli occhi, respiri forte, una mano nei capelli.

Ti volti, il rasta è lì, le mani nelle tasche dei jeans chiari, quasi bianchi tanto l'azzurro è slavato, ti guarda in faccia e sembra non azzardarsi a ripetere a voce la solita preghiera che gli occhi ancora ti rivolgono.

Mollala, ti prego.

Sono stanco di vederti correre a riprenderla, a ripescarla dal baratro della sua merda in cui si è lasciata cadere.

Smetti di cercare di salvarla.

Buttala fuori dal tuo letto, da casa tua, mollala, non vederla più, cambia numero e ripulisci casa dalle stronzate che può averci lasciato. Anche la sua erba non è buona, dio solo sa cosa ha rollato insieme alla maria.

E magari vatti a fare un esame del sangue, non si sa mai.

Respiri di nuovo forte dal naso, e torni a guardare il nulla in mezzo al giardino del chiostro.

Non risponde.

-Non risponde ancora- dici, la tua voce da ragazzo si spezza sull'ultima parola.

Il rasta alza le spalle, palesemente trattenendosi dal ribattere “ma va?”.

Chiudi gli occhi.

Sai che ha ragione, vorresti proprio fare tutto quello che ti dice, esame del sangue compreso, anche se vedere gli aghi ti fa sempre un po' paura. Ti sei stancato, ti sei arrabbiato, ne hai piene fin sopra i capelli e sei stanco di stare male, in pensiero, triste, arrabbiarti, deludere ed essere deluso sempre per colpa sua. È bella, ma è malata, non vuole guarire, né essere salvata, e tanto meno lo vuole da te. Basta, lasciala.

Ti giri.

-Mi accompagni a casa? C'è una cosa che devo fare- spieghi.

Cioè, non spieghi un bel niente, ma da come si illuminano gli occhi chiari del tuo amico si capisce che ti ha letto ogni pensiero, o quasi, di sicuro sa che stai pensando di buttarla fuori; i suoi occhi azzurri si caricano, le sue labbra si stirano appena in un sorriso controllato, dice: -Vado a chiedere a quei due un ombrello- e rientra.

 

Arrivate a casa in mezzora, bagnati, tu con i jeans e le scarpe già bagnati, adesso anche il tuo amico, i jeans quasi bianchi scuritisi in un azzurro scuro che sottolinea la consistenza della stoffa. Sali le scale, lui si volta verso la porta e si indaffara a chiudere l'ombrello e sfilare le scarpe fradice, tu invece giri per casa con le scarpe quasi anfibi bagnate e i pantaloni che gocciolano, non te ne frega, deve pulire qualcuno proprio quel pomeriggio, e il pavimento è già segnato di impronte dei soliti coglioni che non si preoccupano certo di togliere le scarpe all'ingresso.

In bagno non c'è nessuno, in cucina non c'è nessuno, a parte la tazzina del caffè sporca, la moka mezza piena, nel lavello i piatti sporchi che non ha usato con te; vai in camera tua, il letto è sotto sopra, coperta e lenzuola raggomitolate in malo modo, il cuscino per terra, alcune cose cadute dal tavolo, altre solo ribaltate, sul pavimento degli involucri di carta e plastica che ben conosci, la collanina che le hai regalato a terra, aperta, come se nemmeno si fosse accorta di averla persa.

È già tanto che non hai trovato i suoi vestiti, pensi; almeno è in giro con tutti i pezzi addosso. Fatta, probabilmente ancora con la siringa nel braccio, ma vestita, e considerato che sta piovendo non è bene che sia in giro mezza nuda.

Espiri.

Raccogli gli involucri della siringa e li butti via nella spazzatura in cucina.

Il rasta sta sistemando le cose che affollano il tavolo, trasferendole alla bell'e meglio nel lavello non abbastanza vuoto; ti guarda senza proferire parola, ma tu ne hai davvero piene le palle. Butti via anche la catenina:-Grazie a dio non ha le chiavi, non voglio vederla mai più- sancisci.

Il suo sorriso è grande, mette in mostra i denti dritti e bianchi, e anche tu cerchi di fare un sorrisetto: -Ci vuole un brindisi per celebrare l'evento- ti dice: -stasera c'è Agraria!-

Alle feste lei non si presenta mai, non da quello che è successo sei mesi prima, non con quella gente che pretende di vedere tornare nel proprio portafoglio i soldi che le hanno prestato, anticipato o che spettano loro per cose comprate a credito.

È un posto dove puoi stare sicuro che non la rivedrai.

Annuisci.

Quella ragazza con gli occhi verde scuro come erba bagnata ai tramonti d'inverno la volta scorsa ad agraria c'era, magari c'è anche questa volta, e può ridare un senso alla giornata, chissà; annuisci di nuovo e sorridi: -Non torniamo in Brunelleschi adesso, però-

-Io ho là la roba- osserva il rasta. Poi sorride:-E non intendo solo i libri. Fidati, ti conviene-

Tu scrolli le spalle:-Ok-

Tornate in Brunelleschi, attraversate la biblioteca, chiamate con voi la ragazza con il fiore giallo scuro in testa e il ragazzo con i capelli neri, gli occhi neri, che si è tagliato la barba nera. Vi sedete fuori sulla solita panca di cemento che si asciuga piano piano nell'umidità del pomeriggio, la pioggia che lentamente diminuisce d'intensità, e respiri, respiri, respiri.

In due ore esce anche il sole.

Sembra che persino lui voglia dirti che hai fatto bene a toglierti quel peso dalla coscienza.

Quando torni in biblioteca, occhi verde scuro color dell'erba bagnata dei tramonti d'inverno ti fissano per qualche secondo, poi si abbassano di nuovo sulle alte dispense con le parole che si susseguono fitte fitte sulle pagine, e tu ti metti a studiare.

 

 

Quella sera ad Agraria ti sdai come se ti fossi risparmiato per mesi, non solo per qualche giorno; sei ubriaco e fumato perso nel giro di poche ore. Balli ondeggiando al ritmo della musica e socchiudi gli occhi, concentrandoti sui fasci di luce violetta che fa splendere tutto ciò che è bianco.

Occhi nervosi ti guardano.

Occhi famelici ti guardano.

Occhi arrabbiati ti fissano con attenzione e seguono ogni tua mossa.

Lei non c'è.

Anche occhi verde scuro colore dell'erba bagnata nei tramonti d'inverno non c'è.

Ci sono molte altre ragazze che conosci, ma non ti avvicini a nessuna.

La tua amica con il fermaglio con il fiore giallo scuro non c'è. Il rasta ti sta accanto come un'ombra più alta e con più capelli, o una guardia del corpo. I suoi occhi azzurri si girano qui e là, incontrano e riconoscono qualcuno, e si sgranano preoccupati quando riconoscono qualcuno che non ti vorrà lì, perché per loro tu sei un'estensione naturale di lei, e loro vogliono i loro soldi.

Ti prende sottobraccio e fa per tirarti via, portarti via dalla bolgia di persone accalcate, ma quei quattro occhi arrabbiati sono subito lì, lo spintonano via da te, e due braccia quasi ti sollevano, tanto forte ti stringono, due da un lato e due dall'altro, facendo più o meno quello che voleva fare anche lui, ma con ben altro scopo in mente.

Facendo finta di essere solo tre amiconi bevuti, si allontanano con te in mezzo fino al prato vuoto e buio poco lontano, ma abbastanza da essere certi di non incontrare nessuno.

Lei dov'è, vogliono sapere.

Non lo so, non voglio più saperlo.

Dicci dove cazzo è, ripetono, e un pugno ti colpisce sulla bocca, aprendo il labbro sotto e mandandoti a terra lungo disteso. Ti sollevi su un gomito e sull'altro, a fatica, strizzi gli occhi un paio di volte cercando di mettere a fuoco, la lucidità che si fa strada attraverso la nebbia dell'alcool, e sei di nuovo lucido e attento. E consapevole di essere nei guai, se hanno già iniziato a picchiarti.

Ti giri, cercando di metterti seduto, con la testa che gira e le tempie che martellano implacabili:-Giuro che non lo so, dov'è. Non voglio più saperne di lei, se n'è andata da casa mia questo pomeriggio e non l'ho vista tornare. Non è tornata e non la voglio più in giro-

Un paio di altri pugni tra bocca e stomaco, e qualche calcio per rimarcare la minaccia, ti intimano di dire dove è finita, altrimenti le faranno male, perché loro vogliono i loro soldi:

-Ma che cazzo volete da me allora? Io non vi ho chiesto nulla, andate a cercarvela-

Un altro calcio ti avverte che le faranno male:-Pensi che me ne freghi qualcosa?-

Qualcosa nei tuoi occhi, nonostante il buio, deve fargli capire che sei serio, che sei ferito, che sei deluso, che non ne puoi più, che sei stanco, che davvero non vuoi rivederla, e che sei talmente pieno di questa storia che nemmeno se la picchiassero ti importerebbe di andare a raccoglierla per strada.

Uno dei due afferra per un braccio l'altro, pronto a darti ancora un pugno:-Andiamocene-

Non li vedi più.

Resti lì, la testa sull'erba umida, il prato ancora un po' bagnato che ti impregna di fango e umidità e pioggia i jeans blu scuro e la felpa nera e grigia e ti sporca le mani e la faccia; tieni le mani premute al petto, come se bastasse a lenire il dolore, come se potessi impedire ai lividi di comparire, e preghi perché la bocca domani non sembri essere stata investita da un camion. Quello che ti ha picchiato in faccia è il più meschino dei due, sfiga ha voluto fosse pure il più grosso. Speri davvero tanto che non si vedano. Per il resto, puoi solo sperare che il rasta ti trovi in fretta, riesca a trovare un passaggio per portarti a casa, perché a piedi non ci puoi arrivare, e che il Voltaren che hai comprato per lei qualche settimana fa non sia finito.

Senti dei passi sul ghiaietto oltre la siepe.

Ti fa pure male la testa per l'alcool.

Cominci a odiare quella stronza che con la sua faccia da “salvami, sono bella”, anche se non ha mai voluto essere salvata, ti ha messo nei guai. Non solo non ha mai provato niente per te, ti ha usato, ti ha fatto stare male, ti ha fatto perdere tempo, sonno, lucidità, appelli di esami, adesso per colpa sua sei anche a terra a tenerti lo sterno dolente.

Cristo, se fa male.

Erano solo calci e pugni, non avevano certo queste grandi scarpe grosse con la punta di ferro, eppure ti senti come se avessero usato un martello.

La bocca non la senti nemmeno, il dolore come attutito, hai una vaga percezione del sangue che scende lungo il mento e speri che la mascella e la mandibola non siano rotte, perché se senti così poco nitidamente il dolore non può essere che sia perché ci sono andati piano, quindi deve essere che stai svenendo perché senti troppo male.

La puzza ferrosa del sangue che scivola ti riempie il naso, insieme alla terra bagnata, all'erba che hai fumato che ti è rimasta addosso, alla pioggia. Senti i rumori della festa, la musica, la gente.

I passi si fanno più incerti, e poi un'ombra, non abbastanza alta per essere il rasta, si avvicina, supera la siepe e fa un sospiretto così alto e femminile che no, decisamente non è il tuo amico. E la ragazza con il fermaglio con il fiore scuro giallo non è venuta, quindi non hai idea di chi sia. Forse quella alta magra magra..?

Alzi appena la testa da terra, e la giri verso l'ombra, ma la faccia è ancora nella controluce che getta il lampione sul vialetto; dai vestiti puoi capire che non è nemmeno l'altra ragazza, eppure sì, è una ragazza, vedi stivali neri alti fino al ginocchio, aderenti a polpacci magri, infilati sopra un paio di calze alte fino al ginocchio che quando finiscono scoprono calze traforate. Sopra vedi solo un giacchino di pelle avvitato da donna, nero, con la zip giù quasi da essere del tutto aperto, una sciarpa verde scuro.

Quello che vedi ti basta a capire chi è.

Anche se i capelli raccolti e il viso affilato sono in controluce, hai capito chi è.

Soprattutto, anche se gli occhi verde scuro color dell'erba bagnata nei tramonti d'inverno sono persi nella massa nera del viso in controluce, hai capito chi è.

Respiri cercando di non iperventilare, e ti chiedi quando hai cominciato ad ansimare.

La ragazza si avvicina in pochi, veloci passi e si accovaccia vicino a te, la mano fresca sulla tua fronte, nell'altra compare un fazzoletto di carta e ti tampona il mento e il labbro; fa attenzione ma preme al tempo stesso, come se sapesse cosa fare. Ti piacerebbe abbandonarti alle mani di un'infermiera, qualcuno che sappia cosa fare in questi casi meglio di te.

Lei ti volta con lenta decisione, spingendo con la mano aperta sulla spalla, e tu gemi perché ti fa male il petto, e assecondi la spinta e ti sdrai sulla schiena, riempiendoti ancora di più di fango probabilmente; lei capisce perché hai le mani schiacciate contro di te, e ti chiede cosa è successo.

Ti accorgi all'improvviso di quanto ti è difficile respirare.

Lei tampona il labbro, si inginocchia al tuo fianco, tira fuori dalla borsa scura una bottiglietta d'acqua e ti fa bere a piccoli sorsi. Deglutire è un inferno ma lo fai, e lei ti pulisce il labbro e il mento.

-Alla faccia- la senti sussurrare, e ti accorgi terrorizzato che sei sdraiato del tutto, la testa nell'erba, le braccia lungo i fianchi e lei ti ha aperto la felpa e sollevato la maglietta:-Non ti ho sentito- dici, la voce raspa e strozzata, e cerchi di metterti seduto ed è una gran brutta idea.

Lei ti spinge di nuovo giù, ti accarezza la fronte e i capelli:-Sei svenuto per qualche secondo, credo- spiega:-Senti, va tutto bene. So cosa fare, ok?-

-Meno male- riesci a sussurrare tu; di sicuro lo pensi, ma forse sei anche riuscito a dirlo davvero perché la vedi sorridere.

Ha un bel sorriso, ma non lo scopri certo adesso. È da un po' che lo pensi, guardandola in biblioteca.

-Dimmi dove abiti, così posso portarti a casa-

Sia lodato il cielo, ha una macchina?

Fai per aprire la bocca, ma ti accorgi che il lampione non proietta più luce, e la sera è di colpo molto più buia, non vedi proprio più nulla, non senti la musica, le sue mani, il suo respiro,il tuo, il suo profumo, l'odore del prato e quello dell'erba.

Oh, no, pensi.

Poi senti lei sospirare:-Se mi senti, non fa niente, ok? Ti porto a casa mia-

Boom, tutto nero.

Fantastico.

 

Quando ti svegli, capisci con fatica di essere sui sedili posteriori di un'auto, sdraiato con la testa appoggiata a qualcosa di morbido, e non è un cuscino, la fodera del sedile, una borsa o una sciarpa. Sono le gambe del tuo amico rasta che ti guarda dritto negli occhi, e tu guardi in su dritto nei suoi. Ti sorride e tu cerchi di ricambiare.

Siete su un'auto, e chissà dove andate.

-Dove siamo?-

-In macchina, stiamo andando a casa-

Ricordi che c'era lei, e che ha detto qualcosa riguardo al portarlo a casa sua.

-Casa di chi?-

-Tua- risponde il rasta, sorridendo un po' di più, poi si fa serio:-Mi dispiace di non averti aiutato, mi dispiace davvero.-

Tu fai per dire che non è colpa sua, perché non è la tua guardia del corpo, quando ti accorgi che sul suo zigomo c'è un brutto segno rosso-viola:-Hai fatto a botte?-

-Sono venuti a chiedermi se vi eravate lasciati davvero- commenta serafico, e si tocca con una mano la guancia offesa:-Picchiano duro davvero, quei due bastardi-

-Me ne sono accorto- mormori.

-E' sveglio?- senti una voce chiedere.

Una voce delicata, femminile, lontana. È lei e sta guidando. Sposti appena lo sguardo e noti che lei non si volta a guardarvi, ma vi cerca nello specchietto retrovisore. Guida tenendo le mani alle nove e un quarto e va abbastanza piano per non darti fastidio, ma abbastanza veloce per non arrivare a casa domani mattina.

“E' già domani mattina”, pensa la solita vocina per abitudine.

-Sì- le risponde il rasta, sollevando gli occhi e guardandola.

-Controlla che non vada di nuovo in iperventilazione- raccomanda lei.

-Sei un'infermiera?- chiedi, ma la tua voce non è molto più alta di un mormorio, e l'aria che ti esce dai polmoni quando parli ti fa molto più male di quando respiri.

Il rasta guarda te guardare lei, e poi guarda a sua volta la ragazza:-Ha chiesto se sei un'infermiera-

-No- risponde lei, e la vedi sorridere.

Anche il rasta sorride, ma guarda fuori dal finestrino, quello sopra le tue gambe piegate.

Cerchi di distenderle ma muoverti ti fa vedere le stelle, e il movimento fulmineo con cui il rasta ti ferma le ginocchia che si alzano non ti sembra affatto stupido:-Male- sussurri, e lui annuisce:-Meno ti muovi, meglio è- consiglia:-Siamo quasi arrivati-

Resti fermo.

Arrivate, e salire le scale è una tormenta; lei vi precede, salendo le scale praticamente di corsa, i tacchi bassi degli stivali risuonano cupi nella tromba delle scale silenziosa e male illuminata, e tu ti accasci sulla spalla con cui il tuo amico ti tiene. Sollevi le ginocchia piano, per salire ci vuole un'eternità, quasi dieci minuti probabilmente, e ogni volta è un dolore allucinante, ma agli ultimi dieci gradini ti sei ormai quasi abituato e non fa più così male che ti strapperebbe una bestemmia o le lacrime.

Ti accompagnano in camera e lei ti sfila la felpa mentre il rasta ti sostiene, tu fai fatica persino a tenerti sulle gambe; lasci che ti metta in maglietta e ti sfili la cintura, poi insieme ti aiutano a sdraiarti, il rasta ti slaccia le scarpe nere quasi anfibi e tu ti lasci accudire da quei due perché non riesci nemmeno ad alzare un braccio. Ti fa un po' strano che sia il tuo amico a toccarti, sfilarti le scarpe, i calzini bagnati, ti aiuta ad aprire la patta perché ti fa troppo male da sdraiato slacciare il bottone; le sue mani ti aiutano a sfilare i jeans bagnati e sporchi di fango giù lungo i fianchi, le mani non ti toccano, il movimento è attento ma allo stesso tempo non curante, come se lo stesse facendo a se stesso.

Cerchi di respirare e ti infili a fatica sotto la coperta, lui appoggia per terra i pantaloni e ti aiuta appena capisci cosa stai cercando di fare.

-Che schifo- borbotti.

-Cosa?-

-Il fango-

-Ah. Ma non sei così sporco, sai?-

Tu lo guardi male, un'occhiataccia sola, poi storci la bocca perché diamine, se ti fa male lo sterno. Quanto diamine hanno picchiato forte quei due maledetti spacciatori della miseria? Gliene auguri di tutti i colori, ma mentalmente perché ti fa troppo male parlare per provarci davvero; sempre mentalmente, ne stai anche snocciolando contro quella maledetta stronza puttana drogata, e intanto inizia anche la nausea da sbronza. Oh dio, ti prego, non farmi vomitare. Eh, salute.

-Davvero, non sei così messo male-insiste il rasta:-Sporco, intendo. Vuoi che ti prenda del Voltaren?-

No, non adesso. Scuoti la testa e sospiri, prendendo la rincorsa:-Appena lei va via, voglio fare una doccia-

Il rasta alza gli occhi al cielo ma non discute, annuisce e basta.

La ragazza dagli occhi verde dell'erba bagnata nei tramonti d'inverno torna in camera, senza che tu ti sia mai accorto che era uscita, vi sorride, ti guarda più che il tuo amico, vi saluta e se ne va:-Ci vediamo in Brunelleschi- lascia cadere, senza dirti come si chiama e senza chiederti come ti chiami tu.

Restate per un po' a guardare la porta aperta di camera tua, oltre cui lei è sparita, anche quando non si sente più l'eco dei suoi stivali neri e alti sulle scale; non l'hai osservata troppo, perché per una volta che avresti potuto eri impegnato a sentire il dolore lancinante al petto, ma non era affatto male. Il rasta ad alta voce te lo fa notare e tu annuisci, poi cerchi di alzarti, e lui ti aiuta a tirarti su, strisciare in bagno, togliere la maglietta. Non riesci ad alzare le braccia, per cui fondamentalmente te la sfila lui, ma poi ti lascia in boxer davanti alla doccia aperta, l'acqua che scende e si scalda:-Ti aspetto fuori- e torna in camera tua.

Non sei messo così male da farti aiutare a fare la doccia.

Non sei messo così male da farti togliere le mutande dal tuo amico.

Ti pieghi il meno possibile per togliertele, e ti infili sotto al getto caldo. Il primo impatto sui lividi è una botta mostruosa, ma poi è piacevole, anzi, senti i muscoli contratti sotto al colpo rilassarsi; alla fine, quando sei fuori e ti asciughi, non sai se è stato meglio o peggio, perché ti fanno quasi più male.

Zampetti fino al letto, avvolto nell'asciugamano, e ti rivesti da solo, un paio di pantaloni di un pigiama e una t-shirt, poi lasci che il tuo amico ti metta il Voltaren, anche se le sue mani che te lo spalmano sul petto e sullo stomaco sono davvero strane, calde, forti, non dicono niente, ma allo stesso tempo è imbarazzante. Sono.. inquietanti. Gli occhi azzurri sopra di te sono concentrati su quello che stanno facendo ma sei pronto a scommettere che anche il tuo amico sia in imbarazzo.

-Scommetto che avresti preferito te la spalmasse lei- ti prende in giro lui.

-Ma se ho aspettato apposta che se ne andasse!-

-Sì, e non ho capito perché-

Alzi le spalle:-Non sono nella forma migliore per fare colpo, dai-

Lui annuisce, apparentemente dello stesso parere.

Quando finisce si sfila le scarpe e si raggomitola sul divano, coprendosi con una coperta che ha rubato da uno dei letti vuoti in una delle stanze dei tuoi coinquilini che non rincaseranno, e insieme aspettate di addormentarvi.

-Persino lasciandola è riuscita a farmi male- sussurri nel silenzio del palazzo addormentato.

-Meglio tardi che mai- commenta il rasta.

-Mi sarei evitato volentieri la ramazzata-

Lui fa un suono che deve essere una mezza risatina addormentata:-Guarda il lato positivo..-

-Sarebbe?-

-La ragazza che ti ha soccorso era davvero bellina-

-Quello sì-

-Un bel modo di rifarsi-

-Mi ha fatto da infermiera per pietà- obietti.

-M-mm. Certo. Non ti ha mai guardato in biblioteca in effetti. Come sapeva dove trovarti, poi?-

Quello però ti spinge a farti delle domande.

-Dici che ha visto?-

Pausa:-Spero di no-

-Lo spero anche io.-

-Puoi sempre chiederglielo-

-Mmmm.. Forse, vedremo-

-Notte-

-Notte-

Cerchi di addormentarti, e non fai fatica. Il tuo corpo stanco è scosso da un fremito di scarica elettrica, e poi crolli addormentato. Il tuo amico rasta ci mette di più, e spesso si sveglia durante la poca notte che rimane, e ti lancia delle occhiate nel buio quasi totale della stanza, cercandoti, come per assicurarsi che sei al sicuro.

Tu dormi.

Chilometri più in là, anche lei dorme, le palpebre chiuse sui suoi occhi verde scuro color dell'erba bagnata nei tramonti d'inverno, e sogna la stessa scena, ma con un finale diverso, e tu nel suo sogno dormi con lei, a casa sua.



Eccoci. Non so bene neppure io come definirlo, ma, ehi, questo è quello che è uscito dalla mia testa.
Fatemi sapere cosa ne pensate. Un parere mi piacerebbe davvero.
Un seguito in realtà esiste, ma, appunto. Ditemi voi se vale la pena farlo leggere al mondo.
VQA
   
 
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