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Autore: Nadine_Rose    16/05/2016    1 recensioni
Nadine ballava, rideva ed era viva.
[Continuo di “Un amore diviso da un filo spinato”]
Nadine e Werner sedettero vicino alla riva del lago all’ombra di un’alta conifera e restarono lì, stretti l’uno all’altra, avvolti dall’aria fresca dell’estate berlinese mentre dentro di loro scoppiava la primavera. Una nuova stagione era cominciata per la loro vita ma i due contavano ancora i loro inverni.
[Capitolo 33: Il dono della vita]
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Capitolo 25

 

Come un’unica famiglia

 

“Pensa a tutta la bellezza ancora intorno a te e sii felice”.

Anna Frank

 


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Immagine dal film “L’incredibile vita di Timothy Green”

 

Città di Fürstenberg/Havel, 29 giugno 1955

 

Le dieci candeline dell’enorme torta che avanzava lentamente lungo il corridoio illuminavano il volto sorridente di Nadine, pronta ad intonare la canzoncina di buon compleanno per il suo Andrej. Il lungo applauso degli invitati accompagnò il forte soffio del bambino sulle candeline mentre l’abbagliante flash della macchina fotografica di zio Kurt immortalava quel momento felice. Le luci della sala da pranzo furono riaccese, rivelando larghi sorrisi e sguardi luminosi e i colori sgargianti dei vestiti delle signore. Seguì un altro fragoroso applauso quando Werner stappò la bottiglia di spumante e un altro ancora quando Andrej, guidato dalla mano di sua madre, iniziò a tagliare la torta. La prima fetta, quella più grande, fu per zia Edith e la seconda per suo marito Yonathan. Due anni prima, la cugina di Nadine aveva conosciuto e, subito dopo, sposato un bellissimo ragazzo dai capelli fulvi e gli occhi verdi, anche lui miracolosamente sopravvissuto all’orrore della Shoah. La loro storia d’amore era nata tra le testimonianze ad un convegno organizzato per contrastare quello che qualche anno dopo sarebbe stato chiamato Negazionismo[1] e stava per essere coronata dalla nascita di una bambina … rossa come suo padre, sperava Edith. Un lieto fine che non era ancora toccato a zia Käthe e a suo figlio Radolf, adesso dodicenne. L’anno precedente, la sorella di Kurt aveva incontrato un uomo dolce, gentile, sensibile che sapeva bene come farla sentire importante, protetta, amata e al quale veniva naturale comportarsi da padre verso il ragazzino. Ma l’epilogo di questa favola non era stato “E vissero felici e contenti” perché, come la prima volta, il principe azzurro si era trasformato nell’orco cattivo e il sogno era diventato un incubo dal quale doversi svegliare prima che fosse troppo tardi. Al secondo schiaffo, memore delle cicatrici del suo passato che ancora le bruciavano nell’anima, Käthe seppe dire basta e scappare da quell’amore sbagliato. Adesso non era più sola, aveva l’affetto di una famiglia che le dava la forza di volersi bene e aspirare al meglio per la propria vita e, questa volta, fu più facile per lei ricominciare a sorridere. Con un sorriso a trentadue denti, prese il bicchiere di spumante che le aveva offerto Werner. La vita dell’uomo procedeva abbastanza serena e appagata nei suoi quarant’anni da un matrimonio che andava a gonfie vele e un lavoro che lo gratificava e permetteva alla sua famiglia un certo benessere economico. Nel ’52, mentre tantissime persone abbandonavano la Germania dell’Est per fuggire a Berlino Ovest in cerca di libertà nella Germania Federale[2], lui e Nadine decisero di fare ritorno nella città di Fürstenberg/Havel. Tra i due non c’erano più state grandi incomprensioni e, con il passare degli anni, il loro amore si era consolidato maturando sempre di più. Werner era cresciuto nella fiducia in se stesso vincendo le sue paure e, senza fare troppe storie, aveva condiviso la scelta di sua moglie di accettare la proposta di lavoro di Kurt. Quest’ultimo non rappresentava più un rivale ma adesso era diventato un amico, quasi il fratello che non aveva mai avuto. A lui non nascose le lacrime quando la vita gli presentò un altro dolore e riaprì crudelmente una ferita che mai si sarebbe rimarginata. Suo padre, il dottor Günther, fu processato per crimini di guerra e condannato a morte per aver partecipato al programma nazista di eutanasia[3]. Prima che la pena venisse commutata in ergastolo, credendo che quelli fossero gli ultimi giorni di vita di suo padre, Werner tentò un riavvicinamento. Anche se l’aveva disconosciuto come figlio, anche se durante la guerra si era macchiato di crimini contro l’umanità più debole e indifesa, quell’uomo rimaneva sempre e comunque suo padre e pensarlo vicino alla morte gli lacerava ugualmente il cuore. Sostenuto dalla comprensione di Nadine, andò a trovarlo in carcere ma suo padre non era cambiato: nessun segno di ravvedimento traspariva dai suoi occhi per i quali Werner continuava ad essere un estraneo. Il loro incontro durò meno di un minuto, il tempo necessario per infliggere altro dolore a un figlio che il dottor Günther non considerava più come tale. Lo rinnegò di nuovo ma furono le parole che seguirono a fargli ancora più male; parole di rabbia scandite lentamente, a pugni stretti per esprimere fermezza, guardandolo negli occhi affinché potessero penetrare bene nella sua mente e ferirlo per punire la sua scelta di cambiamento: “So benissimo perché sei qui ma non posso darti quello che cerchi. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto e mille volte ancora.” disse suo padre. E quegli occhi verdi, così infuocati di odio ma tanto uguali ai suoi, ricordavano a Werner chi era stato durante la guerra; la complicità del suo silenzio, la codardia del suo conformismo, il suo assistere ad esperimenti e mutilazioni di una medicina che avrebbe dovuto curare anziché portare alla morte, le migliaia di persone passate cadaveri davanti all’indifferenza dei suoi occhi, ciechi a quel tempo. Dopo lo smarrimento iniziale, seppe rialzarsi prima che i sensi di colpa lo facessero sprofondare di nuovo nell’abisso della disperazione e allontanare dalla sua vita presente: lui non era più quel ragazzo, inconscio del male, succube di suo padre e dell’ideologia nazista e adesso aveva una famiglia, una moglie, un figlio ancora piccolo che aveva bisogno della sua protezione e della sua serenità. Per Andrej dovette farsi forza e tornare a sorridere anche dopo l’ennesimo dolore. Werner rivide sua madre soltanto una volta, prima che il cancro la portasse via, ma in lei si era ormai spenta quella luce che un tempo brillava nei suoi occhi e traspariva dal suo sorriso. In lei l’abbraccio e le lacrime di suo figlio non riuscirono a risvegliare quell’amore materno, scomparso nelle pieghe di un cuore troppo accartocciato dal risentimento. Neanche in punto di morte la signora Günther volle conoscere il suo nipotino. “Ma è bellissimo! Grazie zio Kurt!” esclamò Andrej carico di entusiasmo, dopo aver scartato il regalo di Kurt: uno dei primissimi modelli di macchinina telecomandata a filo. Il ragazzino corse felice verso l’uomo e si tuffò in un abbraccio riconoscente. In quegli anni, la vita di Kurt aveva finalmente trovato il suo equilibrio, superando pian piano le ferite del passato e maturando nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Alla direzione del giornale e dalla responsabilità che ne derivava, l’uomo – alla soglia dei quarant’anni – aveva iniziato a comprendere suo padre e il suo essere spesso di cattivo umore e, dai suoi errori, aveva imparato a lasciare il lavoro fuori alla porta di casa. Nel ’53, decise di tentare altre operazioni facciali ma, nonostante gli sforzi di Werner, i risultati non furono quelli che aveva sperato. Dovette allora intraprendere un percorso interiore per arrivare ad accettarsi per ciò che era diventato e ci riuscì, fino a portare con orgoglio quelle cicatrici, per se stesso e per tutti coloro che avevano lottato contro l’odio razziale e vinto … e per Nadine. Rimessi in ordine i pezzi della sua vita e i suoi affetti, Kurt ritrovò in lei un’amica e con Werner acquisì un fratello, fu risanato completamente il suo rapporto con Engel e cominciò a vivere appieno la sua paternità. Adesso poteva essere felice. Andrej, incoraggiato da Nadine, corse a ringraziare con un bacio anche zia Engel e Brigit, che arrossì; poi tornò da sua madre per mostrarle con fervore quel giocattolo speciale e, insieme a lei, scoprirne le funzioni. Rideva Nadine, ritornando bambina insieme a suo figlio. Rideva di gusto, con la spensieratezza di una gioventù riconquistata. Rideva, per un amore consolidato e sempre in crescente e per quella famiglia unita e felice che tutti insieme avevano costruito. Rideva di vera gioia, mentre la guerra e i suoi orrori sembravano un ricordo lontano. Nadine era riuscita a dimenticare. Un dimenticare che non significava cancellare dalla memoria l’incubo di Ravensbrück ma ricordare senza permettergli di farle ancora del male. Un dimenticare che non le impediva di raccontare nella pagina del giornale di Kurt a lei affidata la verità dei soprusi inflitti a migliaia di donne e bambini. Un dimenticare che però non aveva ancora il significato del perdono: a questo Nadine ci sarebbe arrivata più tardi. Adesso indossava disinvolta un vestito con stampa floreale a maniche corte, mostrando senza più vergogna il numero inciso sul suo braccio, da marchio di schiavitù a distintivo di forza. Lei aveva resistito, combattuto e vinto, ricevendo come premio una nuova vita e non poteva che esserne fiera. Abbracciò suo figlio e si rivolse verso Kurt, pronto a scattare un’altra fotografia. La vita era un dono meraviglioso e lei aveva imparato a sorriderne di ogni attimo. Il flash si accese, immortalando la tenerezza dell’abbraccio tra madre e figlio mentre Nadine continuava a ridere, godendo di quel momento di vera felicità.

 

Può stupirci ancora tante volte

questa vita è forte

trova le risposte.

E tanto dimentico tutto

dimentico tutti

i luoghi che ho visto, le cose che ho detto,

i sogni distrutti.

La storia non è la memoria ma la parola

non vedi che cosa rifletti

sopra un mare di specchi si vola.

 

Emma, Dimentico tutto



[1]Il Negazionismo è una teoria che nega la realtà storica degli avvenimenti legati al nazismo secondo la quale l’Olocausto sarebbe un’enorme finzione per screditare la Germania e avvantaggiare lo Stato d’Israele.

 

[2]Nel 1952 il confine tra Germania Est e Germania Ovest venne chiuso e l’attrazione dei settori occidentali di Berlino per i cittadini della Germania Democratica iniziò ad aumentare. Tra il 1949 e il 1961 fuggirono circa due milioni e mezzo di persone e i dirigenti della Germania dell’Est trovarono un rimedio nella costruzione del Muro di Berlino (13 agosto 1961-9 novembre 1989), simbolo di una nazione divisa in un mondo ancora oppresso.

 

[3]Riferito all’Aktion T4 che, sotto responsabilità medica, prevedeva l’uccisione sistematica di persone affette da malattie genetiche inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. Le vittime furono circa duecentomila persone.

   
 
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