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Autore: Oxygen7724    17/05/2016    0 recensioni
"Le vecchie regole" è una storia a episodi di genere low-fantasy ambientata in una città stato un tempo prospera. È scritta in terza persona, dal punto di vista di Gerardo, il protagonista, che si trova costretto a prendere decisioni importanti per il suo futuro e per quello di molti altri.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il nonno morì nel cuore della notte, molto prima che il sole sorgesse. Nessuno se ne accorse fino al mattino, eppure nessuno si stupì. Il nonno aveva visto sessantasei primavere, ed era stato muratore per gran parte di esse. Non respirava quasi più, negli ultimi tempi; furono in molti fra quelli che lo conoscevano a pensare, pur senza dirlo, che in verità il sonno della morte fosse giunto a liberarlo dalle sofferenze.
Gerardo, uno dei suoi due nipoti supersititi, la pensava esattamente così. Il rantolo del vecchio lo teneva sveglio la notte, quasi un presagio del decadimento inevitabile che un giorno avrebbe colto anche lui. Così, quando sua madre Esperanza annunciò che il nonno era morto, provò uno strano senso di sollievo misto a tristezza. Si alzò lentamente dal pagliericcio su cui dormiva e ricambiò lo sguardo freddo di suo fratello Arturo.
«Il nonno è morto» ripetè mamma Esperanza.
«Possa trovare la pace» disse Arturo, con rispetto.
«Era un bravo muratore» aggiunse Gerardo.
La madre annuì, passandosi le mani sullo stinto abito da casa che indossava.
«Lo seppelliremo al tempio della dea Neite, ma dovremo chiamare la sacerdotessa.»
«E la sacerdotessa vorrà del denaro, non è così?» fece Arturo.
«Certamente. E a noi non è rimasto.»
«Potremmo fare alla maniera dei Candidi. I loro sacerdoti non possono farsi pagare.»
«No!» gridò mamma Esperanza, con rabbia del tutto nuova. Gerardo scattò in piedi, preoccupato. Non l'aveva mai vista in quelle condizioni. Il viso era distorto in una smorfia di dolore insostenibile, e le lacrime lo solcavano. Sembrava una di quelle strane maschere che indossavano i guitti del teatro.
«Sii ragionevole, madre. Non abbiamo alternative. I Candidi sono felici quando qualcuno si converte alla loro fede. Poco importa che sia già morto.»
«I Candidi hanno già preso vostro padre. Non voglio averci niente a che fare, mai più. Prego ogni notte perché un'altra pestilenza li spazzi via da questa città. Non lascerò che profanino la memoria del vecchio Anatreo.»
«E allora?»
Mamma Esperanza trasse un sospiro lungo, doloroso. «Ora mangerete la colazione e dopo andrete al cantiere. Lavorerete. Spiegherete agli altri che il nonno è mancato e che ora dovranno decidere chi sarà il nuovo mastro. Arturo, tu cercherai di ottenere il favore degli altri. Gerardo, tu aiuterai tuo fratello. Direte che il nonno ha espresso il desiderio che fosse suo nipote a prendere il suo posto. Cercate di fare in modo che vi credano. Altrimenti sarà un inverno molto duro.»
Gerardo annuì. Era un piano sensato. In qualche modo si sentiva sollevato. Gettò un'occhiata furtiva al fratello. Arturo non sembrava per nulla soddisfatto. Forse non pensava di potere convincere gli altri muratori a sceglierlo come loro capo. Oppure stava pensando a qualcosa di molto diverso e molto meno prevedibile. Era del tutto possibile. Gerardo, nonostante vivesse con lui da tutta la vita, spesso non riusciva a capire suo fratello. E la cosa lo preoccupava, specialmente adesso che di colpo Arturo era divenuto il capofamiglia.
Senza aggiungere altro la madre si voltò e iniziò a preparare la farinata. I due fratelli sedettero al tavolo. Faceva caldo. Il sole era sorto da poco ma era già alto. Gerardo guardò l'involto di coperte sotto il quale sapeva che giaceva la salma di suo nonno. Era strano vederlo ancora lì, così reale, e sapere che non c'era più. Il nonno non gli era mai piaciuto: era molto stupido e irascibile, e molte volte, dopo la morte di suo padre, aveva picchiato lui, Arturo e mamma Esperanza senza alcuna vera ragione. Però, nonostante la malattia lo tormentasse, aveva continuato a lavorare e a dirigere il cantiere con durezza e abilità. Era stato lui, due mesi prima, a procurarsi la commessa per la grande casa di una giovane coppia di Candidi facoltosi. Quel lavoro aveva garantito denaro sufficiente per pagare cibo, abiti nuovi e riparazioni per la casa.
Nel complesso, si disse Gerardo, Anatreo era stato un uomo con pregi e difetti, non dissimile in questo da quasi tutti gli altri, compreso lui.
«Pensi al vecchio, eh?» disse Arturo, senza alzare gli occhi dal tavolo.
«Già. Adesso sei tu al comando, però. Forse dovrei pensare pure a questo.»
«Risparmiati la fatica. Non credere che ti dica cosa fare o ti racconti delle storie come quel fallito di papà. Ti sono maggiore di appena due anni. Non mi interessa come vivi la tua vita.»
«Papà non era un fallito» sussurrò Gerardo, cercando gli occhi del fratello. Inutilmente.
«Forse sì, forse no. Sta di fatto che sgobbava tutto il giorno come un mulo in quel maledetto cantiere per due soldi e poi tornava a casa tutto felice. Lo sai che è morto per questo, e che i Candidi non c'entrano niente.»
«I Candidi insistevano che l'ardesia del tetto non era spessa abbastanza...»
«E avevano ragione, naturalmente. Solo lui è stato abbastanza stupido da salire per controllare di persona. Una persona di buon senso ci avrebbe mandato uno degli apprendisti, uno di quelli che pesano meno dei sacchi di malta. Ma lui no.»
«Io avrei fatto lo stesso» ribattè Gerardo.
«Sì? Ecco chi ha ereditato tutta la sua stupidità, dunque.»
Gerardo non aggiunse nulla. Litigavano spesso in quel modo, e qualche volta arrivavano alle mani, ma quel giorno era diverso. Per sua fortuna, Esperanza arrivò con le tazze e un po' di pane. La farinata era un po' cruda ma dolce. Il pane era vecchio di appena un paio di giorni e aveva un buon sapore. Mangiò tutto con gusto, mentre Arturo toccava appena il cibo. Gerardo sapeva che non era una decisione saggia. Lavorare al cantiere era terribilmente faticoso, e senza mangiare si rischiava di svenire. Anche Arturo doveva saperlo, ma non se curava. Esperanza si accorse della cosa e fissò il figlio, ottenendo in cambio un gesto noncurante. Poi, di colpo, Arturo scattò in piedi. Gerardo lo imitò, turbato. Fissò la madre in cerca di rassicurazioni, ma lei non sembrava averne.
Il fratello uscì dalla porta senza salutare, come colto da una frenesia improvvisa. Gerardo lo seguì, cercando di tenere il suo passo.
La luce del sole lo abbagliò, accecandolo per qualche secondo. Fu in quell'istante che, per la prima volta, provò dolore per la morte di suo nonno.
 
Camminarono a lungo, attraversando le strade che costeggiavano il porto. Il quartiere dove vivevano era piuttosto piccolo e molto vecchio. Un tempo era vicino alle mura di cinta, ma la città si era espansa al punto che le fortificazioni ora si vedevano appena. In compenso l'odore del mare era rimasto. A Gerardo piaceva molto. Gli piacevano anche i gabbiani che si rincorrevano nel cielo e le barche colorate dei pescatori.
Arturo non diceva niente. Camminava soltanto, con il solito passo svelto. A vederlo così, pensò Gerardo, sembra del tutto normale. E invece non lo è per niente.
Desiderava molto chiedere al fratello che cosa gli fosse preso, ma non lo fece. Temeva di essere giudicato debole, e dubitava che la verità potesse fargli piacere.
«Hai visto in che cesso viviamo?»
Gerardo fissò il fratello. Non era la prima volta che gli sentiva dire delle oscenità, ma mai sulla casa o sulla famiglia.
«La casa è piccola, ma siamo in pochi...»
«Sì, è vero. Ora siamo pochi, ma quando c'erano papà, il nonno, Domitilla e mamma Esperanza la casa era sempre quella. E noi siamo cresciuti come animali nella stalla.»
«Come tutti gli altri, Arturo. Siamo cresciuti come tutti gli altri.»
La mano ossuta di Arturo saettò a velocità incredibile. Gerardo la vide appena, poi sentì una morsa terribile al collo.
«Come tutti gli altri pezzenti di questo quartiere, vuoi dire» sibiliò il fratello maggiore, a pochi centimetri dal suo naso.
«Ma tu hai visto che cosa stiamo costruendo, su al cantiere. Hai visto quella casa per i Candidi.»
La tensione si allentò di colpo. Gerardo si massaggiò il collo, tossì. Un paio di passanti lo fissarono, indecisi se chiamare le guardie. Fece un gesto di diniego, anche se non era sicuro che suo fratello non fosse realmente pericoloso.
«È tutta di pietra» aggiunse Arturo, guardando nel vuoto «ha tre stanze. Tre stanze! E loro sono solamente in due. Dimmi, fratello mio, tu non vorresti avere una stanza tutta per te nella tua casa di pietra?»
«Penso di sì.»
«E perché non puoi averla?»
«Perché siamo poveri. È questo che vuoi farmi dire? Siamo poveri. Sei contento ora?»
Arturo sorrise, amaramente. «No che non sono contento. Sono disperato. E ho fatto una cosa disperata.»
Gerardo, nonostante il caldo, si sentì gelare.
«Che cosa hai fatto?»
Arturo si strinse nelle spalle e riprese il cammino. Gerardo lo seguì, affannato. «Devo preoccuparmi?»
«Certo che devi preoccuparti. Se va male dovremo andare a elemosinare sotto al palazzo del Comune.»
«E se va bene?»
«Se va bene abbiamo finito di preoccuparci.»
«C'entrano i Candidi?»
Arturo lo guardò con compatimento. «Ma certo. Oramai tutto dipende dai Candidi.»
«E gli altri al cantiere lo sanno già?»
«Lo sapranno. In un modo o nell'altro.»
Marciarono in silenzio. La strada aveva cominciato a salire. Il cantiere si trovava nella parte orientale della città, quella più distante dal porto. I Candidi non amavano il mare, nonostante i primi fra loro fossero giunti molti anni prima su vecchie navi. Dapprincipio vivevano un po' ovunque. Di recente, però, avevano cominciato a costruire un quartiere tutto loro, pieno di case di pietra. I primi muratori erano stati piuttosto sorpresi da quelle richieste, ma si erano dovuti adeguare alla svelta. D'altronde i Candidi non difettavano né in lusinghe né in conio, una combinazione alquanto convincente.
Non si dissero niente finché le impalcature non furono in vista. Erano arrivati tardi, notò Gerardo. Diversi muratori erano già lì, e non stavano con le mani in mano. Andre, un tipaccio dalla pelle scura e segnata, stava rifinendo la pietra sulla parte frontale della casa. Aveva mani sorprendentemente abili, e lavorava con impegno. Un paio di garzoni preparavano la malta nei secchi. Arturo raddrizzò le spalle e cercò di assumere un contegno più maturo. Gerardo provò un moto di compassione. Aveva soltanto vent'anni, e anche se lavorava da quando era un bambino, c'erano molti muratori più esperti di lui in città. Era improbabile che venisse nominato mastro, e nemmeno era detto che riuscisse a conservare un posto come manovale. Gerardo vide profilarsi con chiarezza, di fronte a sé, gli anni da mendicante. Era un'idea terribile.
«Qualunque cosa succeda, fai come se sapessi già tutto. Non dare l'idea di essere sorpreso.»
Arturo aveva parlato senza voltarsi, a voce alta. Era evidente che aveva paura. I capelli neri grondavano di sudore, e le spalle sotto la camicia sottile erano contratte come se si stesse preparando a battersi.
«'Giorno, Andre» salutò, come se tutto fosse normale. Poi gettò un'occhiata ai secchi della malta e fece un gesto di assenso con il capo.
«Alla buon'ora, giovane Arturo» disse un uomo vecchio e magrissimo, con gli occhi neri. «Ti stavamo aspettando fin dalle prime luci.»
«E c'è una ragione particolare per questo, Luigi?» chiese Arturo, con apparente noncuranza.
«Sì e no. Ci chiedevamo se magari dovevi dirci qualche cosa. Informarci di qualche novità.»
«"Ci"?»
«Be', sì, noi e i ragazzi. Siamo un po' preoccupati.»
Gerardo si guardò attorno. Gli altri quattro muratori avevano smesso di lavorare e si erano avvicinati. Li conosceva, anche se non bene quanto avrebbe voluto. Vitaliano, che un tempo aveva servito nella guardia cittadina. Serrano, biondo e così pallido da potere essere scambiato per un Candido. Andre era apparso al fianco di Mino, suo coetaneo. Anche i garzoni si erano fatti avanti, interessati alla discussione.
«In effetti sì, c'è una novità. Una notizia triste, ma non inattesa. Nonno Anatreo ha lasciato questa vita. Con le ultime parole, ha voluto ringraziarvi per avere lavorato ai suoi comandi e chiedervi di confermarmi come mastro al suo posto.»
Fin'ora è stato convincente, pensò Gerardo. I muratori, però, si scambiarono un'occhiata significativa. Comprese che sapevano già della morte del nonno e si aspettavano quella richiesta.
«Siamo addolorati per la morte di mastro Anatreo. Era un uomo valido e capace, e non ce ne sono più tanti come lui oramai. Vi porgiamo le più sentite condoglianze.»
Gerardo accettò quella formalità con stupore. Non aveva mai sentito Luigi parlare in quel modo. Di solito era un bastione di blasfemie e volgarità. La cosa lo inquietava.
«Tuttavia, non possiamo soddisfare il suo ultimo desiderio. Vedi, giovane Arturo, un mastro deve essere un uomo esperto, assennato. Gestire una squadra può sembrare semplice, ma non è per nullla. Tu sei un buon lavoratore, nessuno lo nega, ma trattare con i committenti, deistribuire le paghe, appianare i litigi... non sei pronto per quelle cose. Per questo gli altri hanno deciso che sarò io il vostro mastro, da ora in avanti.»
«Ho un'obiezione» disse un uomo giovane e straordinariamente alto, spuntato fuori da chissà dove. Indossava una strana tuniche con le maniche lunghe che lo copriva da capo a piedi. La sua pelle chiarissima e gli occhi azzurro ghiaccio lo distinguevano chiaramente come un Candido. Parlava la lingua comune senza alcuna difficoltà, con lo stesso accento di tutti loro.
«Signor Thorsten. Non vi aspettavamo oggi al cantiere» disse Luigi. Poi, accorgendosi della scortesia, aggiunse: «altrimenti avremmo fatto preparare qualche rinfresco.»
Il Candido Thorsten sorrise amabilmente. «Non ce ne sarebbe stato bisogno. Non intendo trattenermi a lungo; sono venuto soltanto per consigliarvi di eleggere il giovane Arturo come vostro capo. »
Luigi si mosse, a disagio. Gerardo non ebbe difficoltà a capire che in cuor suo il muratore detestava Thorsten, e lo trattava cordialmente solo per tornaconto. Si chiese anche se Luigi non odiasse segretamente tutti i Candidi; fra i più vecchi era una posizione comune.
«Con tutto il rispetto, signor Thorsten, ma i muratori di questa città hanno sempre avuto il diritto di scegliere liberamente. Senza alcuna interferenza, voglio dire.»
«E non sarò certo io a chiedervi di infrangere la vostra tradizione. Devo però informarci che, se non seguirete il mio consiglio, è possibile che debba rivolgermi ad altri costruttori.»
Andre emise un fischio. «Accidenti, se ti sei intromesso, amico. Questo è un ricatto bello e buono.»
Thorsten fece una smorfia, infastidito dai modi del muratore. Luigi invece lo guardò in cagnesco. Gerardo capì che la situazione si era completamente ribaltata. Era Arturo adesso a essere in vantaggio. Come fosse riuscito a conquistare la simpatia del Candido era un enigma di cui non era certo di volere conoscere la soluzione.
«Signor Thorsten, qualunque cosa il ragazzo vi abbia promesso, sappiate che è disperato. Farebbe qualsiasi cosa per ottenere il posto di mastro. Nessuna squadra in questa città glielo concederebbe. Non dovete dargli ascolto.»
«E invece sì» disse Thorsten, con un lampo di fanatismo ad accendergli lo sguardo. «Il nostro Padre Celeste ci insegna che saranno i disperati e i diseredati ad avere il posto migliore al suo fianco. Arturo ha scelto di votarsi al Cammino ed è divenuto in questo modo mio fratello. Gli affiderei ben più della costruzione della mia dimora.»
Gerardo fissò suo fratello. Gli altri fecero lo stesso. Lui rimase immobile, a testa alta. «Ho accolto il Padre nel mio cuore» disse, come se quella frase chiarisse tutto.
Thorsten gli posò una mano sulla spalla. Luigi si guardò attorno in cerca del supporto degli altri. Non ne trovò. Gerardo provò pietà per lui. In fondo, se Arturo non fosse stato suo fratello, probabilmente lui stesso avrebbe scelto un mastro più anziano. E, sotto lo stupore, iniziava a sentire la rabbia. Anche ammesso che la fede dei Candidi avesse un qualche fondamento, non aveva nessun senso scegliere un muratore per ciò in cui credeva. Era assurdo, ma era anche reale, e questo rendeva il tutto molto simile ai sogni in cui qualsiasi cosa poteva accadere, senza seguire alcuno schema.
«Tu non hai niente da dire, Gerardo? Tuo fratello perde il senno e si mette ad adorare un qualche dio forestiero e tu te ne stai zitto? Oppure hai fatto lo stesso?» chiese Mino, guardando il cielo terso.
Gerardo scosse la testa. Avrebbe voluto dire che non ne sapeva niente, che era sconvolto quanto loro, ma non riusciva a parlare.
«Mi pare di capire che avete scelto di seguire il mio consiglio. Me ne compiaccio. Che il Padre vegli su tutti voi.»
Thorsten non attese risposta. Si voltò e andò via, come se non avesse fatto altro che occuparsi di un impiccio da niente.
Invece, pur senza saperlo, aveva appena cambiato il mondo.
 
Il tempio della dea Neite non si trovava in città. Era una vecchia, cadente costruzione di legno che sorgeva in un boschetto, qualche centinaio di metri oltre le mura. Neite era la dea di molte cose, ma in città veniva invocata quasi esclusivamente quando qualcuno moriva. C'era stato un tempo in cui erano state molte le sacerdotesse devote a Neite. Erano loro ad accorrere nelle case dei moribondi. Ascoltavano le ultime parole, rendevano meno doloroso il trapasso e poi piangevano assieme alle famiglie. Il loro compito più rilevante era preparare la pira nei pressi del tempio. Era credenza comune che essere arsi al cospetto della dea fosse garanzia di un riposo eterno e sereno.
Il tempo non era stato clemente con quel culto. Molti anni prima, per una fanciulla di buona famiglia, era considerato un grande onore diventare sacerdotessa. Le offerte erano grandi e ricche, e il tempio era splendido.
Gerardo non c'era mai stato, ma aveva ascoltato i racconti di mamma Esperanza. Trovò difficile sovrapporre il rudere marcescente che si trovò di fronte con il luogo ameno che gli era stato descritto.
Batté con le nocche sul legno del portale d'accesso, ma non ottenne alcuna risposta. Si guardò attorno, a disagio. Il bosco aveva reclamato per sé alcune costruzioni che dovevano essere in disuso da molto tempo. I rampicanti avevano avvolto pareti, sfondato soffitti e invaso ciò che gli umani avevano scelto di abbandonare.
Un lupo, in lontananza, ululò la sua solitudine. Gerardo colpì nuovamente la porta, maledicendo Arturo e la sua conversione.
Nessuno rispose. «Per piacere. È morta una persona... mio nonno. Sono venuto per la benedizione della Dea.»
Il portale si spalancò lentamente, come animato da una volontà propria. Gerardo non attese che fosse completamente aperto. Entrò senza guardarsi indietro, senza pensare.
Si ritrovò immerso nelle tenebre. Uno schiocco secco, alle sue spalle, gli diede la conferma che il portale si era richiuso.
Non vedeva niente, però sentiva. Un odore dolciastro di vecchie erbe aromatiche bruciate. Un altro, acido e pungente, di latte fermentato. Poi una litania di una tristezza indicibile iniziò a suonare. Parlava della fine di tutte le cose, del destino ineluttabile che attendeva ogni singola cosa: svanire per sempre, perdersi nel flusso del tempo.
Piccoli fuochi cominciarono ad ardere alla sua sinistra. Altri si accesero alla sua destra, fino a quando non riuscì a distinguere i controni di una sala lunga e cavernosa. Non c'era nessun pavimento, ma solo una strana terra rossa come il sangue, innaturalmente dura e compatta. Nel punto più distante dal portale c'era una statua. Era piccola, anch'essa di legno. Raffigurava una donna anziana, piegata dall'età. La vecchia portava una lanterna con la mano sinistra. Gerardo si chiese se fosse un simbolo per indicare che la dea Neite avrebbe condotto le anime dei morti attraverso l'oscurità del Vuoto.
«Giovane Gerardo. È stata una brutta giornata?»
Gerardo si voltò. Alle sue spalle era apparsa una figura avvolta in un mantello nero che assomigliava incredibilmente all'effigie della dea. Aveva una voce profonda, piena di una saggezza dolorosa.
«Siete una delle sacerdotesse del culto?»
«Sono la sacerdotessa del culto. Il tempo passa.»
Involontariamente, Gerardo annuì.
«È stata una brutta giornata?» ripetè la sacerdotessa, come se da quella domanda dipendessero molte cose.
«Sì. Forse la più brutta di sempre.»
Le parole erano uscite dalla sua bocca prima che potesse fermarsi. Si guardò attorno, terrorizzato, chiedendosi se la dea avesse preso il controllo della sua mente.
«No, Gerardo, non l'ha fatto. Non ne avrebbe alcun bisogno: nessuno può mentire alla dea. E nessuno le cui intenzioni siano impure può entrare. Tu sei venuto per tuo nonno, il vecchio Anatreo. È morto la scorsa notte, e il suo ultimo pensiero è stato per una donna. Si chiamava Magda. Era tua nonna?»
«No.»
La sacerdotessa rise. «No, certo che no. Nessuno può piegare la fiamma del suo cuore. Sei venuto per chiedere alla dea di accogliere l'anima di Anatreo?»
«Sì. Sono venuto per questo.»
«Però hai atteso molto. Sei giunto qui al tramonto, anche se il tuo cuore era colmo di paura e avresti preferito essere a casa tua. Perché non sei venuto prima?»
«È per via di Arturo, mio fratello.»
«Ah» fece la sacerdotessa, scoprendo le gengive sdentate in un sorriso spettrale. «Arturo, il più grande dei due, forte e fragile. Scaltro e irrequieto. Ogni notte senza luna esce di nascosto dalla misera casa, silenzioso come un gatto, e incontra la bella Hilde vicino al porto. Hilde dei Candidi, che gli ha parlato della bontà del Padre Celeste fra un bacio e l'altro...»
«Mio fratello ha una ragazza dei Candidi?»
La risata cruda della sacerdotessa echeggiò fra le vecchie pareti. «Tuo fratello è oramai perduto, perduto per sempre. Ha imboccato una strada... piena di dolori. Lui pensa che il mondo apparterrà ai Candidi, ma a causa della sventatezza della gioventù ha dimenticato...»
«Che cosa ha dimenticato?»
«Che il mondo... non appartiene a nessun uomo. Il mondo è della morte, e non si può fermare la morte. Si può solo accettare e adorare. I Candidi invece ne sono terrorizzati. Temono... il giudizio del loro Padre, così severo, così privo di amore. Pensano che al Padre importi molto quello che fanno e pensano, ma si ingannano. Per questo odiano così tanto la dea Neite.»
La sacerdotessa avanzò verso di lui, ma cadde in ginocchio dopo pochi passi. Gerardo le si avvicinò e finalmente la guardò in viso. Era di una bruttezza raggelante. Gli occhi erano velati e pieni di striature bluastre, del tutto ciechi. La pelle era una reticolo di rughe e strane cicatrici che forse, molto tempo prima, avevano formato un disegno.
«Ogni cosa, ogni cosa finirà» sussurrò la donna «e quando finirà, vorrai che succeda in fretta. Per non soffrire. Oh, dei, per non soffrire!»
«E i Candidi?»
«I Candidi sono le falene attratte dalla fiamma. Si avvicinano… scacciano tutti gli altri insetti… solo per essere bruciati. Non sanno, non capiscono. Portano con sè una maledizione, e ogni luogo in cui finiscono muore. Ma non a causa loro, no. A causa dell’incapacità di vedere…»
«Io che cazzo dovrei fare?» chiese Gerardo, ma nessuno gli rispose. La sacerdotessa era caduta in un sonno profondo, simile alla morte. La dea Neite, evidentemente, non aveva rassicurazioni per lui.
Rimase a lungo in quel tempio strano e abbandonato. Sentiva che la verità gli si sarebbe palesata solo quando tutto fosse stato compromesso.
Aveva ragione.
   
 
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