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Autore: stereohearts    18/05/2016    2 recensioni
L'aria era afosa, umida, per essere di già Settembre; sentivo il sudore imperlarmi la fronte, e avevo la maglietta fastidiosamente incollata in alcuni punti del torace.
Avvertivo una strana sensazione che mi attanagliava lo stomaco, scombussolandomi; mi sembrava quasi d'avere dei massi che mi gravavano sulle spalle, che volevano spingermi sempre più giù contro l'asfalto bagnato. [...]
Mi ritrovai improvvisamente a terra, con le gambe all'aria e la schiena dolorante. [...]
Qualcosa sembrò tagliare, all'improvviso, quell'atmosfera tesa e soffocante; sferzò l'aria, così come la sua maglietta candida. [...]
E poi uno sparo; uno sparo fu l'unica cosa che sentì.
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Questa storia è il sequel di Ablaze. Consiglio prima la sua lettura, per poter comprendere meglio le dinamiche di ciò che accade.
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"Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di carattere, personalità, scelte o preferenze sessuali e non delle persone presenti o nominate all'interno della storia, né offenderle in alcun modo."
Genere: Malinconico, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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1.



 
 
Carter.
 
 
 
 






Uscì dal bagno delle donne stringendomi la pochette color cipria contro il fianco. Mi feci spazio tra due ragazze che stavano in fila, sentendo la pelle scoperta rabbrividire al cambio di temperatura.
L’unica pecca del Kaiser era proprio quella dell’avere i bagni in una piccola costruzione in pietra che affiancava il locale; certo, in quanto pulizia, fila ridotta e spazio amplificato tanto di guadagnato. Ma il dover uscire dalla discoteca per arrivarci era una tortura.
Un po’ perché, essendo il locale più in voga nel periodo estivo di Palm Beach, era pieno zeppo di gente.
E un po’ perché quella sera indossavo i tacchi a spillo più sottili che avessi mai visto in vita mia – che, in parte, Bailee mi aveva costretta a mettere.
Mi fermai esattamente di fronte all’entrata del locale, sotto ad un lato dell’insegna bianca al neon; sollevai il polso, cercando di scorgere l’ora che puntavano le lancette.
Avevo dimenticato il mio cellulare in macchina, quindi in quel momento dovevo rifarmi per forza all’orologio da polso che Neal mi aveva regalato per il mio diciottesimo compleanno, l’anno prima. Solitamente non tendevo a portarne; l’ultimo che ricordavo d’aver avuto era probabilmente quello elettronico di Barbie regalatomi a otto anni.
Li trovavo un impedimento, fastidiosi e poco utili; ma quello che mi aveva regalato il biondo mi era sorprendentemente piaciuto. Aveva il cinturino molto sottile, dello spessore di un normale braccialetto, ed il quadro altrettanto piccolo - non ne ero certa, ma credevo potesse anche essere d’oro. Inoltre la larghezza sembrava essere stata fatta su misura per me, così potevo camminare tranquillamente senza la paura di poterlo perdere da qualche parte.
E poi, Neal era stato l’unico a ricordarsi del mio compleanno; letteralmente.
I primi mesi successivi alla fuga da San Diego erano volati via senza che nemmeno me ne accorgessi; troppo impegnata a sistemarmi, prendere confidenza con le strade e – soprattutto – dimenticare, anche io avevo finito col dimenticarmi tale data. Solo quando la mattina mi ero svegliata con quel pacchetto candido vicino al cuscino, me ne ero ricordata.
Non che me ne importasse particolarmente, ma dentro di me avevo sentito una strana sensazione di tenerezza nel realizzare che Neal se n’era ricordato – malgrado ci conoscessimo da pochissimo.
Quello era stato il primo gesto carino che qualcuno avesse fatto per me negli ultimi anni, senza alcun secondo fine almeno. E ne ero rimasta segretamente felice.
Dopo qualche attimo, riuscì a scorgere l’ora: mezzanotte meno venti.
Avevo ancora venti minuti prima che scattasse la mezzanotte, e che quindi il biondo compisse venticinque anni.
Infilai la mano nella pochette che mi aveva prestato Bailee, tirando fuori il pacco di sigarette e l’accendino. Ne portai una tra le labbra, avvicinando la fiammella alla sua estremità per poterla accendere.
La fila formata dalle persone in attesa per entrare era ancora abbastanza lunga, anche se comunque notevolmente meno agitata di quando eravamo arrivati noi.
Fortunatamente Neal conosceva il buttafuori di turno quella sera, quindi eravamo riusciti tutti e quattro ad evitare la ressa iniziale.
Il Kaiser era una discoteca che si sviluppava su due piani: il primo fungeva come pista da ballo. L’intera sala era affollata da un’infinità di corpi che lottavano fra loro per guadagnare spazio, e sulla parete laterale correva il lato bar, il quale bancone era occupato da quattro baristi.
Il piano superiore era invece una sottospecie di privè aperto per il quale accesso si doveva prenotare; lo spazio era cosparso per intero da divanetti scuri e tavolini bassi in vetro. Il lato bar sulla parete in fondo era più piccolo rispetto a quello di sotto, ma sicuramente più fornito.
Il clima rilassato e l’aria fresca grazie ai balconi socchiusi permettevano di sopportare molto meglio la confusione proveniente dalla sala ballo.
Sollevai il volto al cielo, lasciandomi accarezzare dalla brezza che affrescava la serata, altrimenti soffocante.
Palm Beach era il posto adatto dove trascorrere le vacanze; che fossero tre giorni o tre mesi.
Avrei potuto passarci il resto dei miei giorni, se il costo della vita non fosse stato così alto; da piccola mi sarebbe bastato passarci anche un giorno.
In effetti mi ero spesso chiesta perché Neal non avesse scelto di vivere lì; il luogo gli piaceva, lo conosceva come le sue tasche, ed inoltre aveva una casa enorme e bellissima che dava sul mare a sua completa disposizione.
Però, come mi aveva fatto notare lui stesso, arrivare fino all’Università tutte le mattine sarebbe stato solo stancante e dispendioso.
Ed inoltre, il posto sembrava essere meta di visite da parte della famiglia almeno una volta ogni sei mesi – quando trovavano la forza di staccarsi dal lavoro, e tornare alla realtà.
Il fratello maggiore, Gregg, a quanto avevo capito amava alla follia quella casa.
Gregg era cresciuto come la perfetta copia del padre, ugualmente privo di sentimenti e coscienza, quindi non sapevo con certezza quanto un uomo del genere potesse davvero ‘amare’ un luogo bello come quello.
Comunque, quando la nostalgia si faceva sentire, e voleva fare un salto a Palm Beach, Neal si preoccupava di chiamare la nonna per accertarsi che nessuna persona indesiderata lo avesse preceduto nel occupare la villetta.
Quel fine settimana eravamo stati fortunati.
Certo, il dover comunque prendere alcune decisioni in base alle possibili azioni della sua famiglia lo scocciava; in fondo, era proprio per avere la sua indipendenza che se n’era andato via senza dire niente a nessuno.
Se al posto mio ci fosse stato qualcun altro, probabilmente quella persona avrebbe fatto di tutto pur di riappacificare Neal con la sua famiglia.
Ma io non lo avrei mai fatto. Per quanto crudele potesse risultare, non avrei mai incoraggiato quel ragazzo a tornare indietro sui suoi passi, sulle sue decisioni.
Non sapevo cosa significasse esattamente avere una ‘famiglia felice’, ma conoscevo ogni sfumatura dell’altro lato della vita familiare.
Sapevo cosa significava avere una famiglia a metà.
Avevo sentito sulla mia pelle cosa si provava nel nascere senza un padre affianco, e cosa  nel crescere con un uomo violento e senza sentimenti; poi mia madre era morta per mano di mio fratello maggiore, e avevo provato in contemporanea il dolore del continuare la vita senza entrambi.
Alla fine mi era stato sbattuto in faccia che quello che ne era avanzato della mia ‘famiglia’ era solo una bugia, e avevo capito cosa si prova a ritrovarsi senza. Senza più niente a cui aggrapparsi; senza niente e nessuno da usare come appiglio nelle difficoltà quotidiane.
Con il passare del tempo mi ero infine resa conto che mi trovavo meglio senza nessuno di loro; forse, se avessi saputo cosa la vita aveva in serbo per me, mi sarei distaccata molto prima da tutti quanti.
Avrei scelto mille volte ancora la solitudine ad un’esistenza basata su bugie e sotterfugi; al dolore e allo smarrimento provato nel realizzare che ero rimasta senza più niente.
E speravo davvero che Neal non mi chiedesse mai consigli in merito, perché nulla m’avrebbe trattenuta dal ribadirgli quanto giusta fosse stata la sua decisione di scappare.
Forse, avevo anche un po’ paura di rimanere senza di lui - forse.
Ma quella era un’emozione che non avevo voglia di provare; mai più, ma soprattutto in quel preciso momento.
Scossi la testa, tornando alla realtà, nello stesso istante in cui sentì chiamare il mio nome.
Voltai la testa alle mie spalle, trovandoci la figura snella di Neal; le luci al neon dell’insegna lo illuminavano strategicamente, mettendo il risalto il pezzo di pelle del petto che si intravedeva dalla camicia sbottonata.
Alcuni punti sul collo e sulle guance luccicavano, probabilmente a causa della crema illuminante che avevamo usato io e Bailee, e che dovevamo avergli lasciato addosso quando lo avevamo abbracciato.
Potevo però giurare, dalle occhiatine che gli lanciavano le ragazze, che quel effetto luminoso gli donasse particolarmente.
“Ti ho trovata!” Il biondino mi sorrise, socchiudendo gli occhi per guardarmi.
Gettai a terra la sigaretta, infilando l’accendino di nuovo nella borsa, tentando di non dar troppo peso al suo sguardo.
Sapevo stesse osservando quello che avevo addosso, ciò che non sapevo era quello che ne pensava – magari era troppo.
Shepley non aveva commentato – cosa che di solito faceva, anche per il pigiama -, e Bailee era di parte ovviamente.
Certo, io mi piacevo; il top color corallo, che avvolgeva il collo e si staccava in due fasce sul petto - lasciando leggermente scoperto un lembo di pelle centrale - era il mio pezzo preferito. La gonna lunga, a vita alta che partiva dopo una striscia di pelle libera lasciata dal top, con due spacchi lungo le gambe e dello stesso colore del top non mi dispiaceva. Le scarpe beige, a sandalo, erano un pò scomode, ma per un serata credevo di riuscire a sopportare il tacco alto e sottilissimo.
Vedendo il completo sul manichino mi ero inizialmente aspettata un risultato peggiore, ma indossato era tutto un altro effetto, e mi piaceva da morire – stranamente.
Solo per quello non mi ero presentata con addosso jeans strappati e canottiera nera.
Lo sguardo di Neal si ammorbidì, mentre allungava gentilmente una mano verso di me, invitandomi a raggiungerlo sulle scale. “Sei stupenda, credo di non avertelo ancora detto” mormorò, sorridendomi. “Adesso però credo che dovremmo entrare, se non vogliamo che Shep si scoli tutte le bottiglie.”
“E svuoti il conto a tutti noi” aggiunsi ridacchiando, iniziando a seguirlo su per le scale.
Sollevai di poco l’orlo della gonna, per non rischiare d’inciampare, fare una figuraccia e rovinare la serata a tutti.
Un fascio di luce, preceduto da un quasi inudibile click, mi investì di schiena, facendomi sobbalzare; voltai la testa di scatto, fermandomi in mezzo alle scale con un piede a mezz’aria sul gradino.
Tra un paio di ragazzi che fumavano sotto la frescura di un albero, e un bodyguard che perlustrava i dintorni, l’unica figura che intravidi fu quella di un ragazzo il cui volto era nascosto da una macchina fotografia professionale, puntata verso di noi.
Dopo un altro flash che mi accecò per un momento, abbassò l’aggeggio e la sua testa contemporaneamente, impedendomi di vedergli il volto.
“Tutto bene?” mi domandò Neal, accarezzandomi una spalla.
“Si,si. Tranquillo.” Mi offrì di nuovo la mano, aiutandomi a saltare un pezzo di gradino sollevato che mi avrebbe sicuramente mandata gambe all’aria.
Nello stesso istante in cui afferrai la mano di Neal, un’altra sequenza di flash mi fece sobbalzare sul posto; automaticamente, spaventata e inquietata per chissà quale motivo, mi voltai nuovamente vero il punto in cui avevo notato il ragazzo.
Scattò un’altra foto, l’ennesima, sempre in nostra direzione, e poi finalmente si decise ad abbassare quella macchina.
Con la stessa velocità con cui faceva foto, di nuovo abbassò la testa. Quella volta però, per un brevissimo istante, un paio di occhi color cielo incontrarono i miei; talmente in fretta che magari con le luci del neon i suoi occhi potevano essere apparsi di un altro colore, ma il necessario perché il cuore mi si fermasse in petto.
Neal mi richiamò un paio di volte, trascinandomi all’interno del locale e facendomi perdere di vista il ragazzo. “Fanno sempre un sacco di foto a questo posto” mi urlò al orecchio il biondo, stringendosi a me per non perderci nella folla che ballava.
Magari erano state le luci. Poteva essere stata la velocità. O il flash della macchina fotografica.
Ma io quegli occhi li conoscevo, e non era possibile che fossero arrivati fino a Palm Beach per trovarmi.
Non poteva davvero essere così.
 
 
 
 
Justin.
 





Gancio. Frontale. Gancio. Montante. Diretto.
Il suono scaturito dai colpi che si scontravano contro la pelle del mio avversario mi arrivava alle orecchie netto e ben distinto, riuscendo a coprire ogni altro possibile suono intorno a me. Come se avessi rinchiuso me stesso in una bolla dove nessuno poteva entrare; dove l’unica altra fonte di rumore era il mio cuore. Percepivo chiaramente ogni singolo battito schiantarsi contro la cassa toracica, ad un ritmo tutto suo; si ripercuoteva per tutto il corpo, come una pallina impazzita, fino ad arrivare al collo.
Riuscì ad assestare altri due ganci ed un frontale prima che Bob, quarant’anni per cento chili di massa muscolare, crollasse a terra: esanime, con le labbra spaccate ed un rivolo di sangue brillante che gli colava lungo il mento, annidandosi sull’orlo della canottiera blu.
Imbranato.
“Non dovrei farti combattere contro i veterani, Bieber” esclamò esaltato Brody, l’allenatore,
battendo le mani sul materassino rosso. Si appoggiò con le braccia al cordone, nell’angolo del ring, osservando soddisfatto la scena che gli avevo regalato. “Me li rovini tutti!”
Lanciai a terra la canottiera nera, inzuppata fradicia del sudore di quattro ore di allenamento, voltandomi vincente verso il pelato.
M’infilai tra le corde rosse che delimitavano la mia area di combattimento, trovandomi di fronte al suo abbondante metro e novantuno; la maglietta rossa che gli fasciava le spalle enormi sembrava sul punto strapparsi, tanto era tesa.
“Ottimo lavoro ragazzino, come sempre” si complimentò fiero, battendomi qualche pacca ben assestata sulla schiena umidiccia. “E tu, Bob, alzati e vatti a dare una pulita. Mi stai sporcando tutto, fratello!”
Afferrai la bottiglia d’acqua da terra, versandomene una gran quantità su testa e petto, sentendomi già più fresco e meno appiccicaticcio; sentivo la guancia destra formicolarmi, a causa del destro che avevo incassato pochi minuti prima.
La palestra – o meglio: un rudere fatiscente ottocentesco dimenticato da Dio nella periferia di Salt Lake City – pullulava di uomini, e raramente di qualche donna più coraggiosa delle altre.
Tra la massa di corpi sudati, lucidi e mezzi nudi riuscì a scorgere – nell’angolo più buio ed isolato – la testolina scura di Blake.
Stava di fronte ad un sacco blu, con i piedi ben saldi a terra, sferrando colpi mirati e di una precisione millimetrica.
Piano, iniziai ad avvicinarmi alla sua postazione, instancabile e pronto alla mia ultima sessione giornaliera.
Il sacco era fermo, immobile. Non si muoveva, era lì ad aspettarmi.
Di solito io preferivo quello rosso; ma c’era anche quello blu, quello nero, quello bianco e quello giallo.
Preferivo quello rosso perché le mani - quelle che almeno una volta alla settimana si spaccavano e lasciavano colare rivoli di sangue, anch’essi rossi - si confondevano con il sacco e non le vedevo più.
Rosso come la rabbia.
Il dolore, la paura, la rabbia, il disprezzo, l’amore.
Riuscivo a racchiudere tutto nei colpi, nella precisione con cui attaccavo, nei ganci diretti che smuovevano il sacco.
Era l’unico modo che avevo a disposizione per combattere i mostri, le ossessioni, le paure e i ricordi di lei.
Erano passati quasi due anni, da quando era scomparsa nel nulla senza lasciare alcuna traccia dietro di se.
Diciannove mesi in cui non avevo mai smesso di cercarla; avevo girato ogni angolo della California, mi ero spinto fino a New York, superandola ed arrivando nel Maine.
Avevo cercato nei posti più scontati e quelli più improbabili; mi ero addirittura fatto un giro a Las Vegas, pur sapendo quanto odiasse quel posto.
Avevamo escluso la maggior parte delle grandi città sapendo che il rischio d’incontrare Rick l’aveva tenuta alla larga; così avevamo fatto anche per le piccole cittadine periferiche, troppo piccole per essere invisibile come probabilmente voleva.
Ci eravamo concentrati maggiormente sulle località che costeggiavano il mare, sapendo quanto le piacesse quell’ambiente. Nonostante il campo leggermente ristretto, trovarla rimaneva comunque un’impresa impossibile. E dopo i primi dodici mesi, avevano quasi tutti gettato la spugna.
Elia si era rinchiuso nel suo dolore, senza lasciarvi entrare nessuno - nemmeno la sua fidanzata storica, Riley, tornata dall’Australia solo per lui.
Da quello che sapevo, non rivolgeva più la parola a nessuno. Avevamo la certezza che fosse ancora vivo solo perché continuava ad andare regolarmente al lavoro.
Dante stava ancora cercando – in vano – di riprendere in mano la sua vita; ma il ricordo di sua sorella lo tormentava, anche nel sonno. E il silenzio spettrale del fratello maggiore gli ricordava costantemente ciò che era successo a causa sua – o meglio, nostra.
Sembrava destinato a non trovare pace, come un dannato; perlomeno fino a quando la piccola Harvey non avrebbe deciso di fare ritorno nelle nostre vite – idea alquanto improbabile, se non assurda.
Quel poco che era avanzato della famiglia Harvey si era sgretolato quando la piccola di casa aveva deciso di averne abbastanza di tutte quelle bugie.
Aveva sempre messo tutti di fronte ad una scelta: o lei, o i nostri sporchi segreti.
E non importava che quei segreti, quelle menzogne, fossero nati – in buona parte - per tenerla lontano da altro dolore e sofferenza. Avevamo avuto una possibilità di scelta, e avevamo fatto quella sbagliata.
Dopo diciannove mesi ne stavamo ancora subendo le conseguenze, ognuno a modo suo.
Io ero spaventato.
Semplicemente e sinceramente spaventato, come mai lo ero stato negli ultimi anni.
Mi turbava l’intensità con cui ne avvertivo la mancanza - e non solo fisicamente.
Ero terrorizzato all’idea di non rivederla mai più, e mi terrorizzava ancora di più sentire quella paura farmi vibrare le viscere.
Mi faceva una paura assurda l’dea che si fosse rifatta una vita, - chissà quanti chilometri da San Diego - magari con qualche ragazzo. E di nuovo, mi spaventava ancora di più che il mio stomaco protestasse sempre a quell’ultima ipotesi.
Tutta quell’angoscia, quello spavento, quello smarrimento, convertivano tutte in un sentimento che mi infuocava da capo a piedi – al quale raramente riuscivo a resistere: rabbia.
Era stato proprio per quello che avevo iniziato con la boxe. E proprio così ero riuscito a sopravvivere per quasi due anni a tutte quelle emozioni – decisamente troppe, solo per me. Avevo trovato una sorta di equilibrio. E l’unica cosa che mi preoccupava era il momento in cui quell’equilibrio sarebbe sparito, liberando il mostro verde che si annidava dentro di me.
A quello però cercavo di pensarci il meno possibile.
“Bieber, Fay! Andate a farvi una doccia e poi smammate!”
Bloccai il sacco con le mani, ricambiando l’occhiata smarrita di Blake, ancora al mio fianco; la palestra era ormai vuota, se non per noi due e Brody. E, da quello che segnavano le lancette dell’orologio appeso al muro, era arrivato il momento di chiudere la baracca.
L’omaccione mi lanciò al volo un mazzo di chiavi, infilandosi una giacca di pelle – ormai consumata – mentre si avviava verso l’uscita. “Chiudete voi. Lasciami le chiavi al solito posto Bieber. E ci vediamo domani alla stessa ora. Ottimo lavoro ragazzi.”
Blake lo salutò non un cenno del capo, dirigendosi con tranquillità verso le docce; si spogliò dei pochi vestiti che aveva addosso – pantaloncini e boxer – e s’infilò in uno dei box doccia liberi. “Per quanto ancora hai intenzione di stare qui, Justin?” mi domandò, alzando di poco il tono di voce perché riuscissi a sentirlo sopra il getto dell’acqua. “Non fraintendermi, puoi stare tutto il tempo che vuoi. Mia madre e mio padre ti adorano, e le mie sorelle ti muoiono dietro. Ma continuare ad evitare San Diego ogni volta che litighi con Dante non serve a niente, se non a peggiorare i vostri rapporti.”
Mi passai una mano tra i capelli, indeciso se fare subito la doccia o aspettare di tornare a casa Fay; dopo qualche istante optai per la prima soluzione. Preferivo evitare di avere addosso gli occhietti indiscreti delle sorelle anche in quell’occasione.
Azionai il getto e chiusi gli occhi; lasciai i miei muscoli indolenziti godersi la sensazione dell’acqua che mi scivolava addosso, come un massaggio ristoratore. “Sabato me ne vado” risposi allora alla domanda di Blake, frizionandomi i capelli con un po’ di shampoo. “Ho degli appuntamenti in negozio che non posso più rimandare. E Billy e Isaac non riescono più a mandare avanti tutto da soli.”
“Non potrai comunque continuare ad evitare Dante. Lavorate nello stesso posto, ti sarà praticamente impossibile” continuò il moro affianco a me, uscendo dalla doccia due secondi dopo. “E non potrete di certo continuare a litigare in questo modo.”
Legandomi un asciugamano in vita uscì a mia volta dal box. “Sai che non è una cosa che mi fa impazzire. Essere preso a pugni da Dante ogni volta non è la cosa che preferisco fare, Blake.”
“Lo sai che è la scomparsa di Carter a fargli questo effetto. E sapere che stavate insieme, dopo tutto quello che è successo, non può di certo fargli piacere” mi rispose subito lui, sollevando la testa verso di me. “E’ sempre suo fratello. Ed essere geloso come una bestia è sempre stato nella sua natura. Anche io ti prenderei a pugni se venissi a sapere che esci con mia sorella.”
“Io non uscivo …”
“Non importa, Justin. Qualunque cosa eravate, è comunque un qualcosa che è andato oltre l’idea che Dante poteva avere e accettare del vostro rapporto.” Afferrò una sigaretta dal suo pacco e me ne offrì un’altra in silenzio, sedendosi sulla panca attaccata al muro. “Quel che è fatto è fatto. Ora devi solo assumerti le tue responsabilità con lui. Lo devi fronteggiare, dirgli tutto quello che è successo con la sua sorellina, e cercare di aggiustare al meglio il vostro rapporto. Almeno sotto questo punto di vista.”
Sbuffai, portando il mozzicone della sigaretta sotto il rubinetto, gettandolo poi nel cestino della spazzatura. “Sarà un’impresa. Lo sai.”
Mi infilai un paio di pantaloncini, piegandomi sul mio borsone alla ricerca di una maglietta pulita.
Io e Dante eravamo sempre andati d’accordo facilmente; un po’ per la somiglianza caratteriale, un po’ per il passato che ci accomunava. Ma da quando avevo baciato sua sorella davanti ai suoi occhi – cioè prima della sua scomparsa nel nulla – non riusciva a rivolgermi parola per più di un’ora senza rivedersi dinanzi agli occhi quella scena. E quindi attaccarmi e prendermi – in alcune occasioni – a pugni.
La rabbia e la frustrazione per il non riuscire a ritrovare la piccola Harvey, allora, si mischiava alla gelosia cieca che da fratello provava nel sapere che più volte l’avevo toccata in un modo ‘inappropriato’ – a suo dire.
Ed io riuscivo anche a capirlo, davvero.
Ma dopo un paio di mesi che continuava a rinfacciarmi d’averla fatta innamorare di me, quelle sue accuse avevano iniziato ad infastidirmi particolarmente – e il mio caratteraccio non mi permetteva di rimanere fermo ad ascoltarlo. Così eravamo arrivati a non poterci vedere per una giornata intera senza litigare e prenderci a pugni.
Sembrava non accorgersi di quanto il senso di colpa mi logorava dentro.
Dirmi che sua sorella era innamorata di me non faceva che peggiorare la situazione.
Lei non era mai stata innamorata di me.
Me lo aveva detto chiaramente.
“Provaci. Non limitarti a rispondere ai suoi pugni con altri pugni” mi consigliò il moretto dietro di me, già pronto ad andarsene, con il borsone sulle spalle.
“Se questo metodo non funzionerà tornerò a quello precedente, sappilo.” Afferrai una canottiera bianca dal fondo del borsone, facendo così rotolare a terra il mio cellulare.
“Fanculo!” bofonchiai, allungando il braccio per riprenderlo. Me lo rigirai tra le mani, e sbloccai lo schermo per accertarmi che non si fosse rotto.
Solo allora notai una ventina di messaggi da parte di Ian. Se la memoria non mi ingannava doveva essere appena tornato dal viaggio fatto a Palm Beach con la sua matrigna.
Indossai in fretta la maglietta e mi caricai in spalla il borsone , seguendo Blake fuori dalla palestra e lasciando a lui il compito di abbassare la saracinesca.
Mi appoggiai allo sportello della macchina, aprendo i messaggi di Ian e scoprendo che la maggior parte erano delle foto.
L’ultimo messaggio portava scritta unicamente una parola: ‘trovata’.
Il mio cuore iniziò a fremere.
Speravo di non sbagliarmi.
Con foga e mani tremolanti aprì una delle ultime fotografie; per sbaglio schiacciai troppe volte sullo schermo del telefono, finendo per zoomare su un paio di gambe abbronzate, avvolte da una gonna lunga.
Con il dito risalì sulla foto, ignorando la fitta che mi colpì lo stomaco nello scovare un paio di mani intrecciate alle sue; continuai a salire, ansioso come mai nella vita, finendo per scontrarmi con ciò che speravo – e temevo.
Un paio di occhi scuri – quegli occhi scuri - fissavano spaventati l’obiettivo del telefono – o della macchina fotografica. Poco m’importava.
“L’ha trovata” mormorai a bassa voce, più a me stesso che a Blake, restio a crederci.
“Come?” mi chiese Blake ad alta voce, chiudendo a chiave la serratura della scatoletta che conteneva i pulsanti per azionare la saracinesca.
“Carter. L’ha trovata.”









 
Sono viva. Si.
In un ritardo mostruoso. Si
Con un capitolo merdoso.Si.
Ho fatte pure rima.
Direi che si trova tutto, quindi sono proprio.
Non sto neanche a darvi le solite motivazioni per cui non ho aggiornato fino ad ora, perchè si, sono sempre le solite.
Scuola, mancanza di ispirazione, tempo.
Mi dispiace davvero, per chi voleva il secondo capitolo della storia - che in effetti sarebbe il primo, ero e proprio.
Ma niente, in realtà avrei aggiornato anche ieri, ma sono stata ad un concerto. Quindi il tempo di arrivare a casa, mangiare, riposare una mezz'oretta ed ero già fuori casa - cosa non si fa perchè le amiche lacrimino per il loro idolo.
E niente, eccomi qua.
Carter vuole festeggiare in serenità, ma si trova dinanzi a questo paio d'occhi azzurri che la spiazzano.
Poi c'è Justin, finalmente.
Arrabbiato, stronzo, violento come sempre. Con però una sana dose di paura addosso.
La vita è stata complicata per tutti, da quando la piccola Harvey è scomparsa nel nulla.
Adesso sembrano averla trovata, ma non crederete che sarà così facile rintracciarla, vero?
Vi ricordo che l'hanno vista a Palm Beach, e non dove vive realmente adesso.
Poi, traete voi le conclusioni.
Spero che vi sia piaciuto almeno un pochino il capitolo(?)
Non voglio dilungarmi troppo, quindi vi lascio con delle immagini dei ragazzi (per rinfrescarvi un pò la memoria), e con la promessa di aggiornare più assiuamente adesso che la scuola è quasi praticamente finita.
Grazie per chi ha dato un'occhiata anche a questo sequel, e spero con tutto il cuore che vi iacerà quel che scriverò in seguito.
Grazie.
Un bacio 




 
Justin

Blake

Elia

Dante

Ian
 

 
   
 
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