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Autore: adrasteia    19/05/2016    1 recensioni
Dicono che il regno della letteratura è caduto, perché la scienza ha trionfato su di essa. È del tutto vero: la terra aspetterà sempre dal sole la luce e il calore, le nazioni chiederanno sempre agli scienziati la luce che le illumini, ma ai poeti nessuno chiederò più il fuoco che le riscaldi.
[Storia partecipante al contest "Somewhere, over the Ratings" di Setsy]
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo della OS: La Regina è morta, lunga vita alla Regina.
Rating Vero: Giallo.
Generi: Drammatico, Triste.
Avvertimenti: --
Rating Creativo scelto e suo specchietto: Rating Grigio. È il colore della nebbia, della cenere, dei capelli delle persone di una certa età. È il colore della tristezza, della monotonia, delle giornate senza sole, dell'inverno senza neve. Il grigio è il colore della solitudine, dell'impotenza, della tristezza, della fine delle speranze. Il grigio è la fine dell'estate e l'inizio della scuola; il grigio è un amore finito; il grigio è un addio non detto, un litigio mai avuto, un distacco mai voluto. Il grigio è la paura, l'impotenza, la mestizia, l'incapacità di vincere su se stessi per gridare "IO SONO QUI, IO SONO VIVO." Il grigio è la fine della lotta, la fine della speranza, la fine. 
Il grigio è un suicidio che non si ha il coraggio di compiere. 

Note: Il titolo deriva da una celebre frase. Alla morte di ogni sovrano, non appena veniva costatato il decesso, si acclamava al sovrano seguente. La Regina morta è ovviamente la letteratura mentre quella acclamata è l'ignoranza e la barbarie del mondo contemporaneo. 




 

La letteratura è morta ma nessuno ne ha ancora dichiarato il decesso. È da questo assunto che dovremmo partire, da questa amara consapevolezza del reale che dovrebbe spingerci ad un'attenta analisi delle cause: perché la letteratura è morta e qualcuno l'ha uccisa. Come in un (mediocre) giallo d'autore dovremmo dunque partire dal rinvenimento del cadavere: è stato un uomo pallido e grassoccio, le dita sporche di inchiostro e le spalle curve a lanciare l'allarme. Sta in un angolo, inadeguato a quel mondo frenetico che gli scorre intorno, quasi terrorizzato dalle voci acute degli agenti che gli fanno domande sempre più incalzanti, sempre più pressanti, sempre più minuziose e sterili. Vorrebbe riprenderli, di tanto in tanto; correggere questo o quell'inciso, apostrofarli con una correzione grammaticale a questa o quell'espressione. Indossa una giacca logora, una fantasia scozzese ormai fuori moda. Si passa una mano sulla guancia paffuta fino alla nuca su cui danno mostra di sé i pochi capelli bianchi, unti di gel, che gli sono rimasti. Non sa cosa rispondere, balbetta, arranca, butta giù qualche parola incomprensibile in burocratichese a quegli uomini in uniforme. È un professore lui, insegna lettere in un prestigioso liceo della capitale. Il terrore dei suoi alunni. È un professore e se non si trova nella posizione di forza di dover catalogare i suoi ragazzi con un voto decimale si sente piccolo, impotente ed inutile. Gli agenti ringraziano, tornano a catalogare le prove mentre una donnina dal viso volutamente compito fa il suo ingresso in scena; ha una borsa in mano, di pelle nera, nuovissima. Il professore la guarda per un attimo, la analizza e poi decide che la sua proprietaria deve essere un medico. Anche lui ha una borsa simile, una borsa di (finta) pelle, beige, logora; cerca di tenerla chiusa con tecniche più o meno innovative da quando si è rotta definitivamente la chiusura a scatto. Sospira nel contemplare la borsa di pelle nera che non riesce a smettere di osservare con sguardo vorace. Sua moglie lo ha lasciato per un uomo che poteva regalarle una borsa nuova, bella come quella della dottoressa che si avvicina al cadavere della Letteratura, si abbassa su di lei e le poggia due dita sul collo per tastarne il polso, per verificarne l'effettivo trapasso. Il Professore si domanda quanti soldi le daranno a fine giornata per essersi tanto scomodata a poggiare due dita sul collo di un essere visibilmente morto, quasi putrefatto, gonfio e purulento: non riesce a rispondersi tanto è lo sdegno pur tuttavia sa che saranno certamente più di quelli che lui riceverà alla fine del mese. Lui non ha mai voluto fare il medico, lui ha scelto di studiare lettere perché aveva la passione per l'insegnamento, era un giovane intelligente, attento, appassionato che contro il parere dei genitori si è buttato in una vita senza sbocchi consapevole della sua scelta. Non era stato l'inaridimento dei suoi docenti universitari tutti attenti alla forma, alla carica e alle loro pubblicazioni magari anche false a renderlo quello che era, non era stata l'idea di dover studiare non gli autori della letteratura che tanto amava quanto chi prima di lui li aveva già studiati abbondantemente e ne aveva scritto lunghissimi saggi critici di impronta moraleggiante, non erano stati neanche i trent'anni di precariato prima di avere un posto fisso in una caotica città ben diversa dal piccolo paesino in cui aveva desiderato invecchiare e insegnare e vivere. Niente di tutto questo. Erano stati i ragazzi la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: quella massa di inetti, inebetiti, mediocri ragazzini che occupavano i banchi di legno di fronte a lui solo perché non avevano l'età legale per lasciare la scuola e poi perché avevano l'innata consapevolezza che la scuola era meno faticosa di un sano lavoro nei campi, ben più adatto a loro e alle loro capacità. Quando si reca sulla tomba di sua madre, tutti i sabato pomeriggio, il Professore posa un fiore sulla lapide e mormora: «Avevi ragione, mamma. Dovevo prendere medicina.»

I rilevamenti sono veloci ed imprecisi, il capo della polizia sembra esser certo che si tratti di un suicidio, non c'è nulla per loro lì, quella bellissima donna si è tolta la vita da sé. Depressione, dicono. Aspettano qualcuno che porti via il cadavere, fanno le condoglianze al Professore, salutano e vanno via uno dopo l'altro alla ricerca di un altro lavoro matematico e preciso. Ora è solo il Professore. Solo con l'immagine ancora viva di fronte ai suoi occhi della Letteratura, il suo unico conforto nella vecchiaia, la sua unica gioia, l'amore della sua vita, l'unica amante con cui abbia mai pensato di tradire quella moglie adultera e veniale che lo ha lasciato per una borsa di pelle nera nuova. Non ha ancora capito davvero quello che è successo, non riesce a crederci, non è capace di realizzare, è impossibile. Non ha ancora preparato la sua lezione per l'indomani ma sa già che non lo farà, non c'è bisogno che lo faccia e non ne ha la forza. Nessuno avrebbe prestato la benché minima attenzione a quello che avrebbe detto, avrebbe anche potuto raccontare di una vita in una Firenze immaginifica in cui Petrarca e Dante andavano a passeggio insieme rincorrendo le gonnelle di Laura e Beatrice senza perciò causare in quei ragazzi alcun danno intellettuale rilevante. Va a dormire presto quella notte, si rigira nel suo letto per un po' prima di addormentarsi e lasciarsi andare a quel mondo perfetto che lo attendeva nei suoi sogni, quel mondo in cui lui e la Letteratura vivevano una vita felice insieme, convolati a nozze, forti del loro infinito e passionale amore sulle note di una sinfonia per orchestra scritta dal migliore dei compositori.

 

Il suo ingresso in classe, l'indomani mattina, è uguale a quello del giorno precedente e verosimilmente a quello del giorno seguente. È accolto da ragazzini che si rincorrono tra i banchi rischiando di picchiare la testa contro il muro e di avere una commozione, di inciampare su uno di quegli zaini lasciati disordinatamente per terra, di cadere e rompersi una gamba, di sbattere contro lo spigolo di un banco; ragazzine intente a spettegolare tra loro; all'angolo destro, vicino le finestre, tre o quattro figli di avvocati così fatti che se fossero stati appena più dotati avrebbe potuto scrivere di mostri, dolori e visioni meglio di Baudelaire e Coleridge, tuttavia loro non erano dotati e si sfondavano i timpani di musica metallica fatta a computer. Il Professore prende posto in cattedra, posa il registro sul piano di legno di un verde sgradevole e attende che quel branco di cerebrolesi si renda conto della sua presenza. Si schiarisce la gola per un attimo, poi batte la mano sul legno e solo allora qualcuno volge la testa verso di lui, lo guarda inarcando le sopracciglia quasi disturbato che il suo gioco sia stato interrotto e spinge i compagni all'ordine. Venti minuti: è questo il tempo che intercorre tra il suo ingresso in aula e il momento in cui sono tutti seduti per fingere un minimo di attenzione. Una recita patetica. Il Professore fa l'appello, apre il registro e decide di interrogare. Il momento di terrore prima che pronunci i nomi delle vittime lo esalta. Lascia correre il dito su e giù per la pagina stampata e ghigna. Interroga solo perché non ha voglia di parlare al vento per le successive due ore e allora preferisce ascoltare qualche blasfemia che verrà fuori dalla bocca dei malcapitati che sta per scegliere nella sua funzione di Capo Supremo del Registro Elettronico. Chiama quattro nomi a caso e poggia la schiena contro la sedia. È ovviamente un disastro: nessuno di quei quattro ha la più pallida idea di cosa stia dicendo, qualcuno di loro ha diligentemente studiato a memoria la paginetta del libro assegnatali e la riversa sul docente-giudice come un fiume in piena, sbrodola parole insignificanti e insipide sperando di fare colpo, legge la poesiola come un bambino dell'asilo senza badare alle cesure, agli ictus, agli enjambements tanto cari all'uomo seduto in cattedra. Il Professore diventa sempre più nero ogni secondo che passa, ogni parola che viene pronunciata: la sua Letteratura, la sua amata Letteratura, già morta, viene colpita anche nella memoria da quegli insulsi ragazzini cresciuti a Pane, Justin Biberon e Uomini e Donne, educazione che ha lasciato evidenti segni di disagio mentale negli adolescenti che sono diventati. Scoppia alla fine il Professore. Grida tutto il suo sdegno ed il suo disappunto, getta lontano contro il muro il libro che uno degli studenti aveva portato alla cattedra: «Siete esseri senza sentimenti! Senza passione! Senza Vita!» Nemmeno per un momento il Professore si ferma a pensare se non fosse colpa sua, nemmeno per un momento si chiede se, in fin dei conti, non avesse in qualche modo contribuito a far passare l'immagine di una Letteratura sterile, che aveva ormai fatto il suo corso, improduttiva e senza attrattiva. No! Impossibile! Lui non aveva contribuito minimamente all'istupidimento grave e irreversibile di quei debosciati. Lui era la vittima! Loro i carnefici! Gli tornano in mente le parole di un libro che ha appena finito di leggere: “L’istupidimento della società, un istupidimento generalizzato, diffuso, inarrestabile […] ha radici antiche […] ma la velocità del fenomeno è sicuramente aumentata in modo tanto repentino quanto drammatico a partire dagli anni '90, talché, per quanto fosche, le previsioni di tutti questi maestri appaiono decisamente sbiadite rispetto alla realtà odierna. […] Per una serie di ragioni, che hanno a che fare in primo luogo con la struttura della nostra società, in secondo luogo con i nuovi mezzi di comunicazione, e soprattutto con la barbarie consumistico-visuale della televisione e di internet, non solo i fondamenti della nostra cultura sono stati profondamente erosi, ma la stessa architettura della nostra organizzazione cerebrale è a rischio.”

Qualcuno, in fondo alla classe, ride. Il Professore sente dentro di sé una tale frustrazione da spingerlo ad alzarsi ed uscire dalla classe dopo aver trascritto sul registro una fila di insufficienze e di note. Niente avrebbe piegato minimamente alla riflessione quella classe, nulla li avrebbe fatti intristire o abbattere. Loro erano felici. Tra gli stupidi gli infelici sono rari, Shaw aveva ragione. Lui non aveva la possibilità di essere felice, era fuori dalla sua natura. Tre cose occorrono per essere felici: essere imbecilli, essere egoisti e avere una buona salute. Ma se manca la prima tutto è finito. Era inutile chiedersi perché lui non fosse abbastanza imbecille da essere felice. Era nato nella generazione sbagliata, nella famiglia sbagliata, nella città sbagliata. Era nato quando ancora la televisione era un privilegio per pochi, quando ancora l'unico svago possibile era un bel libro di Fiabe, un Romanzo o la Poesia; era nato quando la figura del professore era temuta, rispettata e non rappresentava solo un fantoccio per la società, quando chi studiava lettere era considerato un Maestro, non un deficiente che gode di una futura vita di stenti, precariato e disoccupazione; era nato quando non esistevano i videogiochi ma si scendeva in strada a nascondersi, correre e socializzare; era nato in una casa di professori e musicisti: suo padre suonava Bach, sua madre leggeva ad alta voce le favole per farlo addormentare tenendolo stretto contro il suo petto per cullarlo con il rumore ritmico del suo cuore. Se avesse avuto maggiore umanità, se non fosse stato del tutto arido, il Professore avrebbe avuto pietà di quei poveri ragazzi che avevano vissuto una vita incompleta, che non avrebbero mai conosciuto la vera gioia. Sarebbero stati felici per tutta la vita poiché non avrebbero mai avuto pretese, sarebbero stati felici per tutta la vita perché la vera felicità, loro, non avrebbero mai potuto vederla. Nonostante questa nuova generazione di miopi il futuro è chiaro davanti agli occhi di tutti: disinteressati alla politica, alla società, alla cultura si lasceranno trascinare da qualcuno che penserà per loro, che agirà per loro, che renderà tutto facile e accessibile tramite un click. Non ci sarà bisogno di far nulla. Si penserà a salvare il pianeta e per questo motivo non si stamperanno più libri ma si venderanno su internet a cifre accessibili a chiunque, si metteranno in comodi tablet capaci di contenere anche mille libri e si sfameranno le nuove generazioni di romanzi erotici e libri di cucina. Che mondo meraviglioso! Tutti parleranno inglese, una lingua unica per tutta l'umanità, tutti saranno capaci di intendersi l'uno con l'altro, tutto sarà accessibile e niente avrà più bisogno di essere tradotto cosicché non si perda il gusto dell'opera così come l'autore l'ha pensata. Niente dialetti, niente leggende popolari o miti, niente teatri accessibili a pochi ma sale cinematografiche enormi, multisale, film campioni di incassi dalla trama incalzante e sagace aperti a tutti. Tutto perfetto! Tutto facile! Tutto reale, anche la realtà multimediale da vivere, in cui perdersi per uscire da una vita alcune volte tediosa. Nessuno userà più la parola cretino perché non ci saranno cretini e tutti saranno infinitamente intelligenti per gli standard di quel presente che non ricorda il passato da cui viene.

 

Quella sera il Professore torna a casa come tutte le sere. È già buio e non ha voglia di cucinare alcunché. È passato davanti ad un buon ristorante, pluristellato, e lo ha poi guardato dalla vetrina del McDonald's in cui è entrato per fare la fila e portare via un McMenù grande con Coca-cola e patatine. Se avesse potuto scegliere avrebbe preso un buon filetto cucinato in quel ristorante dagli interni eleganti ma è solo un professore e quel filetto non può proprio permetterselo. Mentre dà un morso al suo panino sogna quel gustoso pezzo di carne tenero e ben cotto che non ha potuto comprare e fantastica. Il senso di vuoto persiste anche quando il suo stomaco è ormai pieno. Si alza da tavola e si dirige in salotto dove il giorno prima quella Dottoressa aveva dichiarato la morte della sua amata.

Non piange il Professore, resta semplicemente in piedi per un attimo sul tappeto di lana in mezzo alla stanza prima di avvicinarsi alla sua libreria e prendere dagli scaffali polverosi un libro dalla copertina rigida, rilegata in pelle, profumata e bellissima. Si sposta sulla sua poltrona, vicino alla finestra da cui entra ancora un po' di luce dei lampioni sulla strada e si mette a sedere. Si rilassa, si mette comodo come gli suggerisce Calvino. Apre il libro, lo sfoglia, ne aspira l'odore, ne tasta la consistenza sotto le dita e sorride prima di iniziare a leggere e di immergersi nel ricordo di quell'amore mai finito. Nell'arte c'è una finezza che il Professore apprezza: il lieto fine che consola dell'esistenza quotidiana. La vita è delusione, tanto spesso ci defrauda dell'atto finale. Ma questa non è forse la stupidità della naturalezza? E allora resta il ricordo di quella Letteratura grandiosa che fu e che ormai è morta.

  
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