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Autore: Artemisia246    19/05/2016    1 recensioni
Vi sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali.
La prima, serve per far ricordare a loro da dove provengono.
La seconda, serve per far capire a loro che sono liberi di volare per il cielo infinito.
Ma il figlio deve ricordarsi di avere le radici, altrimenti cadrà con le ali.
Sostenendo che le radici sono fin troppo spesse, i figli finiscono col reciderle totalmente e abbracciare le ali, commentando che i genitori non potranno mai volare su quello stesso cielo perchè sono troppo ancorati a terra.
(tratto da un antico proverbio cinese)
Cosa succederebbe, allora, se uno di quei figli si sentisse troppo solo su quel cielo e tornasse a terra, per domandare ai famigliari di seguirlo?
[Seconda Guerra Sino-Giapponese, se volete c'è un lieve CinaxGiappone]
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Cina/Yao Wang, Giappone/Kiku Honda
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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 La Seconda guerra sino-giapponese (7 luglio 1937 - 2 settembre 1945) fu il maggiore conflitto mai avvenuto tra la Repubblica di Cina e l'Impero giapponese. Combattuta prima e durante la Seconda guerra mondiale terminò con la resa incondizionata del Giappone il 2 settembre 1945, che mise fine alla Seconda guerra mondiale. La Seconda guerra sino-giapponese fu il più grande conflitto asiatico del XX secolo

 
Watashi wa sore ga hakai sa reta gomen'nasai

Pioveva, a Tokyo, il due settembre.

Il cielo era plumbeo, coperto da uno spesso manto grigio di nuvole da cui non si riusciva a vedere il sole.

Grosse gocce di pioggia si infrangevano sui tetti dei grattacieli e dei palazzi, andavano a rinfrescare la terra degli alberi e a macchiare il parabrezza delle auto.

Le persone si riparavano sotto ombrelli colorati e bambini piangevano perché non potevano giocare all’aperto.

Kiku Honda fissava, inespressivo, le goccioline d’acqua piovana che intrecciavano senza volerlo complicati arabeschi nel vetro della finestra. Le lunghe maniche del suo kimono ondeggiavano ogni volta che prendeva la sua tazzina di te verde e se la portava alle labbra, le righe azzurrine del suo hakama contrastavano leggermente quelle del legno chiaro del pavimento.

Ogni tanto un sospiro usciva dalle sue labbra, lungo ma silenzioso; parlando più forte, rischiava di disturbare gli attori che nella sua testa mettevano in scena un antico ma terribile ricordo.

Ricordava quel giorno di 79 anni fa come se fosse ieri.

Come se solo ieri avesse combattuto una guerra contro suo fratello maggiore, come se solo ieri la sua famiglia si fosse totalmente disgregata, mandando in pezzi tutto ciò per cui suo fratello aveva lavorato per millenni.

Ed era tutta colpa sua.

Tutta colpa sua, se la sua famiglia era andata in pezzi.

Dopo quella guerra, tutti quanti se ne erano andati dalla casa del loro fratellone, chi per un motivo o chi per un altro.

 
-Non vedi che così ci stai distruggendo tutti?! Che scopo ha questa guerra, Giappone?! Che scopo c’era dietro quella tua insulsa farsa del ponte di Marco Polo?! Perché stai facendo tutto questo, aru?!-

Ricordava bene anche la rabbia di Cina, dopo il massacro di Nanchino1.

Per quello, faceva ancora degli incubi la notte.

 
-Anche gli innocenti fanno parte del tuo piano di conquista?! Anche i miei bambini, uccisi per divertimento?! Anche le mie donne, stuprate davanti ai
loro mariti solo per soddisfare i tuoi soldati?! LA MIA GENTE DEVE RIMETTERCI PER DELLE TUE ASSURDE MANIE DI GRANDEZZA, ARU?!-

I suoi soldati avevano commessi crimini di guerra atroci, lo riconosceva. Avevano massacrato dei civili, li avevano usati come cavia e avevano adottato i campi di concentramento tedeschi. Erano diventati i nazisti orientali, e per cosa? Per la creazione di qualche stato cuscinetto e l’occupazione di poche città.

E colui che ci rimetteva altri non era che il suo fratellone, colui che l’aveva cresciuto con l’amore di un padre.

Giappone pregava ogni giorno per le vite di quei poveri cittadini.

Però…

 
-Smettila di combattermi, Giappone sai perfettamente di non poter continuare una guerra a lungo. Speravate di avere una vittoria completa e totale a Shangai, ma non ci siete riusciti. La Cina resisterà. Io resisterò. Ormai dovresti sapere bene come si comporta il tuo fratellone, aru-

Però…
 
-Abbiamo ottenuto delle armi e dei soldati esperti da Russia. La nostra controffensiva sarà potente. Smettila con questa insulsa battaglia e torna da me, aru-

Però suo fratello non poteva neanche pensare che sarebbe rimasto sotto la sua ala per sempre!

Giappone ruppe la tazzina che stava tenendo in mano e si scheggiò il palmo.

Anche Cina aveva delle colpe, in quella guerra.

Aveva minato i rifornimenti ai suoi soldati, aveva accettato i soldati e le armi da Russia, aveva accettato gli aerei italiani e non aveva battuto ciglio di fronte all’attacco di America alle sue terre.

Anche Cina l’aveva ferito, maledizione.

Il cuore di Kiku prese a battere più forte nel petto, il peso di quelle azioni gli gravava sulle spalle.

Il rumore del suo cuore contrastava anche quello della pioggia e senza pensare, senza considerare minimamente la conseguenza delle sue azioni o il loro perché, si alzò in piedi.

Doveva andare da Cina, subito.

Voleva andare da Cina.

Aveva bisogno di andare da suo fratello.

Mosso da un istinto primordiale, aprì di scatto la porta di casa sua e corse fuori, sotto la pioggia, con ancora il kimono addosso e non sentendo nessun rumore tranne quello del suo cuore.
***
 Cina sospirò tristemente, mentre sedeva su un morbido cuscino.

Fissava senza vederlo un punto indefinito sulla parete, rivivendo anche lui i terribili momenti della sua popolazione.

Rivivendo la terribile guerra con il suo fratellino, la ferita sulla sua schiena e le urla della sua gente.

All’epoca non erano preparati.

I suoi cittadini erano troppo colti del passato e troppo ignoranti del presente per riuscire a contrastare da soli la potenza nipponica.

Avevano dovuto richiedere aiuto a Russia e America, implorarli per avere un briciolo di aiuto.

Poi avevano resistito, e resistito e resistito.

Fino a quando la guerra non fu finta, i feriti curati e i morti onorati.

E la sua famiglia disgregata.

Quella è stata forse la conseguenza peggiore di tutto il secondo conflitto mondiale.

Vedere uno ad uno i suoi fratellini allontanarsi dalla sua casa e dalle sue cure, fu probabilmente il colpo più grosso subito…

Yao sospirò colpito da una fitta di nostalgia.

Gli mancavano terribilmente.

Gli mancavano le urla infantili di Hong Kong, Giappone e Corea che giocavano, gli mancavano i rimproveri di Vietnam, gli mancava vano le piccole
manine di Taiwan che l’aiutavano con il riso, gli mancavano le battute innocenti di Macau e la gioia sul volto di Thailanda mentre spupazzava il suo elefante di pezza.

Ma, ormai, non sarebbero più tornati.

Quasi sobbalzò, quando sentì qualcuno battere sulla porta.

-Ma chi mai potrebbe essere? Fuori piove molto forte, aru- sussurrò, alzandosi e aggiustandosi lo changhan2.
***
Giappone avrebbe probabilmente voluto amputarsi la mano, tremante, piuttosto che bussare a quella dannata porta.

Ma l’ansia gli divorava lo stomaco e il cuore gli faceva pulsare anche la testa.

La gambe tremavano per l’acqua e la corsa, con il kimono che gli si appiccicava alla pelle e i capelli alla fronte. Aveva freddo, probabilmente si
sarebbe preso un raffreddore ma non se ne voleva andare e non voleva che Yao non fosse in casa. Perché sapeva che, in entrambi i casi, probabilmente non sarebbe più riuscito a tornare.

Così, quando la porta si aprì, e il calore della dimora avvolse Cina come una visione divina, Kiku cadde sulla ginocchia, esausto.

-Giappone, cosa ci fai qui, aru?- disse, sorpreso, il cinese, facendo qualche verso di lui e abbandonando la soglia della porta.

Aprì la bocca per parlare, ma le parole si erano impigliate in qualche punto della sua gola e non volevano uscire.

Voleva scusarsi per la guerra e per ciò che i suoi soldati avevano fatto, voleva scusarsi per il dolore che gli aveva arrecato e voleva scusarsi per aver
distrutto la loro famiglia, ma le parole non riuscivano ad uscire.

Sembrava che fossero spaventate dalla figura di Cina, che emanava odore di casa.

In quel momento, Giappone avrebbe solo voluto rimanere abbracciato a lui finché non il suo tremore non si fosse fermato e finché non si fosse
calmato a sufficienza, come quando era piccolo e faceva un incubo.

Ma il suo orgoglio e le sue scuse glielo impedivano e tutto ciò che desiderava era poter dire qualcosa.

-Giappone? Kiku? Va tutto bene, aru?- Yao doveva aver confuso il suo tremore per il freddo della pioggia.

No, non va tutto bene, niente va bene, gege3.

-Perché sei qui? Volevi dirmi qualcosa, aru?-

Sì, sì. Vorrei dirti qualcosa, anzi, vorrei dirti tante cose. Vorrei dirti che mi dispiace per la guerra, che mi dispiace per i tuoi cittadini, che mi dispiace
per il comportamento dei miei soldati. Vorrei dirti che mi dispiace di averti ferito così, gege. Vorrei dirti che mi dispiace di aver fatto sciogliere la nostra famiglia.


-Ah, capisco. Devi essere raffreddato per la pioggia, aru. Vieni dentro, ti preparo un bagno. Devo avere ancora qualche tuo vestito rimasto dall’ultimo meeting svoltosi a Pechino, aru-

La mano calda, bollente, che Cina gli posò sulla guancia e il sorriso dolce che gli rivolse furono le peggiori ferite che, involontariamente, inflisse al nipponico.

Giappone lo guardò con gli occhi spalancati, mentre Yao si alzava e si rimetteva le mani nel changshan, invitandolo a seguirlo.

La guancia che gli aveva toccato gli bruciava come mille soli e ci posò la sua mano sopra, stringendola pieno di rabbia e frustrazione.
***
Trenta minuti dopo l’inattesa intrusione, Giappone stava indossando un leggero e tradizionale kimono bianco e azzurro.

Quando si ritenne pronto, uscì dal bagno e si diresse verso il salotto, lentamente, per prendere tempo e pensare a cosa dire.

Trovò Cina seduto vicino ad un basso tavolino di legno con sopra tue tazzine fumanti.

Si inginocchiò e il vapore del te verde gli scaldò le guancie.

Mormorò un leggero “grazie” quasi inudibile, con la testa bassa,  ma Cina non si scompose e gli sorrise, prendendo in mano la sua tazza.

-Allora, Giappone, perché sei qui, aru?- domandò, dopo aver preso un lungo sorso di te.

Kiku si morse un labbro, a disagio.

-I-io…- iniziò, piano, ma si interruppe, con la gola improvvisamente secca e conscio che ormai il suo fratellone avesse capito il perché della sua
visita.

La guerra, non citata ancora, aleggiava su di loro come una pistola carica aspettava solo di sparare il colpo.

A chi dei due, tuttavia, non era concesso saperlo.

Yao si fece più serio e assottigliò gli occhi.

Non avrebbe voluto parlare per primo, non ne aveva voglia e sinceramente era così stanco di rivivere quella disputa ormai conclusa da 71 anni che
avrebbe quasi preferito che il suo didi4 fosse venuto in casa sua solo per rimproverarlo di aver copiato una sua idea.

Però lo conosceva fin troppo bene per capire che, nonostante il suo orgoglio di giapponese, il suo fratellino era ancora imbarazzato e deluso dal
comportamento dei suoi soldati.

-Allora, didi, sei…venuto qui per parlare della guerra?- domandò, sospirando e con lo sguardo stanco, il volto una maschera inespressiva.

Furono quelle parole che fecero scattare Giappone.

-I-io- si morse il labbro inferiore, piegò ulteriormente la testa –Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace-
In qualche modo, Cina riuscì ad intuire i significati nascosti dietro quelle poche lettere.

 
Mi dispiace per quel maledetto pretesto del ponte di Marco Polo5.

Cina si ricordava ancora la furia cieca provata verso quel gesto di vigliaccheria.
 
Mi dispiace per aver torturato i tuoi uomini.

La prima cosa gli aveva insegnato suo fratello era che, nonostante fosse vinto o perso, chiunque meritava il rispetto.
 
Mi dispiace per aver violentato le donne.

Cina gli aveva detto che qualunque donna poteva solo essere colpita con dei fiori e dilaniata da belle parole.
 
Mi dispiace per aver ucciso i tuoi bambini

Cina lo aveva accolto quando non sapeva neanche camminare.
 
Mi dispiace per aver peccato di superbia.

Non poteva pensare davvero di riuscire a conquistare tutti i territori che suo fratello aveva faticosamente conquistato in quattromila anni, in appena tre mesi.
 
Mi dispiace per aver permesso la distruzione della nostra famiglia.

La sua famiglia, la loro famiglia, era un qualcosa a cui non avrebbe mai voluto rinunciare.

La voce gli si incrinò ad un certo punto, ma continuò a ripetere quei “mi dispiace” fino a quando non ebbe la gola secca.

Cina, intanto, osservava la scena con una fredda impassività.

Non aprì bocca, non espresse emozioni, non lo interruppe.

Quando Giappone terminò la sua nenia, abbassò ancora di più testa.

Lacrime pungevano gli angoli dei suoi occhi, la gola era secca e le mani tremavano, ma almeno aveva detto ciò per cui era venuto lì.

Restarono in un silenzio opprimente per troppi, lunghissimi, attimi.

Kiku sperava solo che Yao dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.

Il sospiro che uscì dalle labbra ci Cina fu come un crak nel silenzio, come un vetro che improvvisamente si rompeva.

-Vedo che non ti sei scusato per la tua indipendenza, didi- disse, con un accenno di ghigno sulle labbra.

Giappone alzò la testa, senza pensare.

-Mi scuso per il comportamento dei miei soldati. Mi scuso per l’umiliazione che hai subito. Mi scuso per aver peccato di superbia. Mi scuso per aver
costretto la nostra famiglia a scegliere da che parte stare. Mi scuso per aver contribuito a distruggerla. Di tutto questo mi scuso, ma non mi scuso per la mia indipendenza. Non mi scuserò mai per quella, fratello. Mai- il suo orgoglio si mostrò con tutta la sua forza, sputando praticamente quelle parole in faccia a Cina senza che prima pensasse alla sua posizione. Sgranò gli occhi, aspettando la reazione del maggiore.

-Ahahah, vedo che almeno uno dei miei insegnamenti ti è rimasto impresso, didi, aru- rise, bevendo una tazza di thè.

Giappone non riuscì ad interpretare quei gesti.

-Spiegati, per favore- sussurrò, confuso. Cina sorrise mestamente, rimettendo le mani nello changshan.

-Non hai buttato via il tuo orgoglio, didi. Non ti sei scusato per l’unica cosa di cui sei andato fiero in quella guerra, aru- spiegò, guardandolo
stancamente –E per questo…accetto le tue scuse-

A dirla tutta, Kiku non si aspettava che le sue scuse venissero accettate così facilmente.

Era piuttosto sicuro che l’antica Nazione l’avrebbe lasciato fuori di casa sua, non facendogli intuire se le avesse o meno accettate e continuando a comportarsi normalmente durante i meeting o a citargli qualche aneddoto sul suo passato per farlo sentire in colpa.

Di certo, non pensava che bastasse così poco per riuscire a scusarsi della più grande guerra combattuta fra loro due.

-Tu…accetti le mie scuse?- domandò sconvolto, sgranando gli occhi e stringendo le mani a pugno.

Yao chiuse gli occhi e sospirò.

-Si, didi, accetto le tue scuse. Anche io ho delle colpe, nella nostra guerra, aru-

Il nipponico raddrizzò la schiena, colpito profondamente da quelle parole.

-Forse…forse dovrei scusarmi anche io, aru-

In quel momento, il cinese sembrava improvvisamente dimostrare tutti i suoi quattromila anni. Riusciva a vederli, Giappone, pesare su quelle spalle
più sottili delle sue ma incredibilmente più forti e fargli inarcare quella schiena su cui da bambino amava arrampicarvisi. Gli sembrava di vedere il mondo, dalle spalle di Yao. Ed era appunto il mondo che Cina gli prometteva, il mondo dove loro due avrebbero governato insieme ed uniti, come una famiglia.

-Dopotutto, una guerra si combatte sempre in due, no? Però, egoisticamente, speravo che nessuno di voi mi abbandonasse mai, aru. Insomma, eravate tutti così piccoli, così carini, che non avrei mai pensato di riuscire a vedervi crescere-

Si ma non avresti iniziato questa guerra, fratello.

-Mi ricordo ancora di quando tu e Hong Kong vi allenavate con me, mentre Corea, Taiwan e Vietnam pensavano a migliorarsi con le lame, aru-

E io ho permesso che tutto questo morisse.

-Forse all’epoca ero troppo concentrato sul passato per poter davvero pensare che un giorno avreste potuto chiedermi l’indipendenza. Immagino sia
così per tutti i fratelli maggiori, aru-

Sì, ma avrei potuto semplicemente chiedertelo. Avrei potuto tentare con la via diplomatica, piuttosto che partire subito con la guerra.

-Quindi, mi dispiace per le azioni mie e del mio popolo, didi. Però, se avere la tua indipendenza ti rende felice, allora non posso che essere felice di
conseguenza-

Ed è quando Cina si alza, gli va vicino e gli accarezza la testa con la mano che Giappone ritorna ad essere quel piccolo bambino spaventato che la notte gli si avvinghiava contro quando aveva degli incubi.

Prima che Yao abbia il tempo di dire qualcosa, le mani di Giappone lo tirano giù per terra e si ritrova seduto scompostamente, con le braccia del nipponico strette alla sua vita e il viso affondato nel suo stomaco.

Il corpo del più giovane era scosso da tremiti, lacrime calde si infrangevano sulla stoffa rossa e le braccia strinsero l’antica nazione come se temessero di vederselo sfilare via da un momento all’altro.

Cina non seppe dire cosa Kiku sussurrasse tra le lacrime, forse un misto di “gomennasai6” e “Ani watashitoisshoni koko ni taizai shite kudasai7”, ma sorrise e gli posò una mano sulla nuca, accarezzandolo lentamente e dolcemente.

Rimasero così, nel silenzio scandito dall’incessante battito della pioggia sulle pareti e dai singhiozzi del Paese del Sol Levante, abbracciati per un tempo indefinito.

Si creò come una specie di bolla, attorno a loro. Una piccola bolla, calda e accogliente, che sapeva anche troppo del loro passato.

La bolla venne fatta scoppiare da dei suoni di passi, tanti e frettolosi, venire dal portico di Cina.

La porta si spalancò e, con la gonna rosa bagnata e gli occhi in procinto di piangere, Taiwan  sconvolta si presentò a loro.

Non si presentò da sola, però.

Dietro di lei, come funghi, spuntarono le teste di Corea, Thailandia, Vietnam, Macau e Hong Kong, tutti, chi più o chi meno, con un principio di lacrime
agli occhi e una espressione sconvolta in viso.

Si bloccarono quando videro gli occhi rossi di Giappone e la faccia sorpresa di Yao.

Cina sorrise caldamente e allargò le braccia mentre l’altro tornò a sedersi in maniera composta.

Nello stesso istante, tutti quanti gli si buttarono addosso, piangendo e urlando dei: -Fratellone- in cinque lingue diverse. Lo abbracciarono tutti contemporaneamente, senza dargli tempo di replica e quasi soffocandolo.

Una sensazione di calore scoppiò nel petto del maggiore, intenerito quel marasma scomposto di braccia e busti che si era venuto a creare. Quasi scoppiò a piangere pure lui, andando ad unirsi a tutti i suoi fratellini, mentre finalmente pensava che la grande spaccatura avvenuta tra loro si fosse finalmente risanata.

E colui che aveva permesso tutto questo se ne stava per andare, approfittando del fatto che fossero tutti troppo occupati ad abbracciare Cina e a chiedergli scusa per ciò che avevano fatto.

Giappone, infatti, voleva andarsene, da quando aveva visto sulla soglia tutti gli altri.

Aveva avuto il coraggio di chiedere scusa a Yao, ma a tutti gli altri? Come poteva continuare a guardarli in faccia, dopo ciò che era successo?

Peccato solo che i suoi fratelli non fossero della sua stessa opinione.

Non appena si alzò in piedi, sia Corea che Hong Kong gli agguantarono l’orlo del kimono e lo spinsero in mezzo a loro, facendo in modo che si trovasse tra Cina e loro due.

-Ma cosa…- sussurrò appena. Irrigidendosi quando sentì il braccio di Cina avvolgergli la vita.

Provò a dire che lui non meritava di stare lì, in mezzo a tutti, perché non aveva fatto altro che del male e aveva diviso la loro famiglia.

-Siamo una famiglia, didi, non importa ciò che tu hai fatto in passato, conta solo ciò che farai nel futuro- gli sussurrò Yao nelle orecchie.

L’abbraccio si strinse ancor di più, e Giappone, stretto tra Corea e Hong Kong, riuscì a frenare l’impulso di nuove lacrime.

-Watashi wa sore ga hakai sa reta gomen’nasai8- si scusò, avvolgendo le mani sulla vita di Hong Kong e portandosi più vicino a Cina.

-Wǒmen zài zhèlǐ9- gli risposero, sorridendo.




























Piccole precisazioni:
1= Il Massacro di Nanchino, La città (in quel periodo capitale della Repubblica di Cina) era caduta in mano all'Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e la durata del massacro non è stata definita con sicurezza, anche se si sa che le violenze continuarono almeno per le sei settimane successive, fino all'inizio del febbraio 1938.
2= abito tradizionale da uomo cinese.
3= "gege"  vuol dire "fratellone" in cinese.
4= "didi" vuol dire "fratellino" in cinese.
5= Secondo la storiografia cinese l'incidente venne inscenato dalle truppe giapponesi dell'Armata del Kwantung allo scopo di legittimare l'invasione della Cina; un gruppo di militari giapponesi travestiti da cinesi ed un gruppo di militari giapponesi in divisa si sarebbero quindi sparati tra di loro, cosicché il Giappone potesse accusare i militari cinesi di aver attaccato per primi. 
6= "gomennasai" vuol dire "scusa" in giapponese.
7="Ani watashitoisshoni koko ni taizai shite kudasai" vuol dire  "ti prego, resta qui con me fratellone" in giapponese.
8="Watashi wa sore ga hakai sa reta gomen'nasai" vuol dire "mi dispiace di averci distrutto".
9="Wǒmen zài zhèlǐ" vuol dire "siamo qui" in cinese.

 
 
  
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