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Autore: Ghevurah    19/05/2016    7 recensioni
Cosa dirai loro? [...]
Non lo so, mormora Ñolofinwë. Poi guarda avanti, verso la strada del porto che gli si staglia dinnanzi, inevitabile come la lealtà a un giuramento scellerato: per ogni curva, per ogni ciottolo bagnato di sangue una parola, un voto. Sia egli nemico o amico. Dannato o innocente. Elda o Maia.
Ad Alqualondë, dopo il Fratricidio, Fingolfin è una volta padre e una fratello.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Fëanor, Fingolfin, Fingon, Irimë
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta senza scopo di lucro; personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.

Nomi Quenya (impiegati nel racconto) con corrispondenze Sindarin:
Ñolofinwë - Fingolfin
Fëanáro - Fëanor
Arafinwë - Finarfin
Findekáno (Findo) - Fingon
Maitimo - Maedhros
Curufinwë - Curufin

Lalwendë è il nome materno di Írimë. In The Shibboleth of Fëanor (The Peoples of Middle-earth) è scritto che veniva generalmente chiamata con la forma abbreviata “Lalwen”, dunque ho pensato che fossero proprio questi due nomi i più appropriati da usare nel testo.










 




Quel che resta











 

E poi c’è questa tenebra ingorda che corre sotto pelle e inonda l’animo, dilagando su pontili insanguinati; un abbraccio teso verso il mare nero liquido, così che è davvero difficile scindere l’una dall’altro.
Ñolofinwë percorre la città in fretta. Un’altra ombra sotto le arcate, lungo i viali deserti; un altro sacrilegio.
La desolazione ha spento qualsiasi bellezza, persino le perle incastonate nei palazzi sembrano aver perso il loro candore. Alqualondë è un sepolcro stinto e immobile, un relitto in balia dell’oscurità, divorato dal silenzio.
Anche il mare tace: non ha parole per esorcizzare l’orrore consumato nella città.
E mentre Ñolofinwë s’aggira per le strade tombali, strade che anni, yeni1 prima ha visto in festa – ghirlande di fiori a coronare gli stemmi delle Casate di Finwë e Olwë –, vorrebbe strappare quello stesso stemma che ora porta ricamato sul mantello. Vorrebbe celarsi allo sguardo accusatore di Alqualondë, perché la sua presenza è un ulteriore stigma sulla pelle della città.
Per evitare ai propri figli di rendersi colpevoli della medesima profanazione, ha imposto loro di non seguirlo. Ma non è riuscito a imporre lo stesso a Findekáno, a capo dell'avanguardia, e alla propria sorella.
Abbassa lo sguardo sulla figura di Lalwendë: i capelli nascosti sotto il cappuccio, gli occhi spenti. Sul viso i segni di un cordoglio che entrambi hanno appena imparato a conoscere.
Non ti lascerò andare solo, gli aveva detto quando le loro schiere erano giunte alle porte della città e il più grande peccato dei Ñoldor era effigiato nell’orizzonte di morte, nello sgomento che abitava lo sguardo del messaggero inviato da Findekáno.
Non solo, aveva insistito Lalwendë e Ñolofinwë aveva sentito gli anni che li separavano venire colmati dalla sua autorevolezza. Per la prima volta aveva accettato di seguire la volontà di qualcuno che non fosse un Vala, un Vala o lui.
E in quell’oscurità eterna, in cui anche le stelle sembrano troppo lontane e fredde, sua sorella è diventata una presenza necessaria.
Cosa dirai loro? Domanda lei a un tratto, lo sguardo immerso nelle ombre delle strade, a rincorre memorie perdute.
Alle parole di Lalwendë, viali e palazzi funerei scompaiono, Alqualondë viene inghiottita da una tenebra diversa, una tenebra che Ñolofinwë sente fervere dentro di sé. Un abisso spalancato nell’anima.
Non lo so, mormora. Poi guarda avanti, verso la strada del porto che si staglia loro dinnanzi, inevitabile come la lealtà a un giuramento scellerato: per ogni curva, per ogni ciottolo bagnato di sangue una parola, un voto. Sia egli nemico o amico. Dannato o innocente. Elda o Maia.2
Ed ecco i porti bianchi di Alqualondë: forme scomposte tra corpi riversi, sul filo dell’acqua divenuta sudario. Le navi – un tempo sagome di cigno scolpite nel legno – sono ossari galleggianti, un chiasmo di candore e sangue. Perché questa non è solo una storia di città profanate o moli saccheggiati, qui si racconta di eternità rubate, di cadaveri lividi e ulcere aperte nel tessuto di destini creduti incorruttibili.
Ma oltre il tanfo della putrefazione, Ñolofinwë riesce ancora ad avvertire l’odore della salsedine. L’ha respirato in quello stesso luogo tempo prima, una conchiglia fra le mani e il sorriso emozionato di Arafinwë riflesso nello sguardo.
Cosa stiamo facendo? Cos’è tutto questo?
Le dita di Lalwendë gli sfiorano la mano, e lui si aggrappa a quel tocco per risalire i pendii della propria coscienza.
Assieme muovono i primi passi sul pontile trapuntato di frecce. Evitano alcuni cadaveri, e non importa che siano di Teleri o Ñoldor perché nella morte, nel sangue, si torna ad essere fratelli.
Poco più avanti, tra le lingue di foschia, iniziano ad emergere le prime figure in movimento. Spettri bardati di metalli scintillanti che abbassano lo sguardo al loro passaggio.
Ñolofinwë cerca la stella a otto punte sul loro petto, ma trova i colori della propria Casata, lo stemma ricamato sul proprio mantello.
Lalwendë gli stringe la mano e lo esorta ancora.
Avanti.
La piccola Lalwen che correva scalza per i corridoi, che rischiarava gli animi con quella sua risata squillante. La piccola Lalwen che come lui ha lasciato loro madre, loro sorella per perseguire una vendetta nell’oscurità. Per dissacrare quella città di fratelli.
Così avanzano di nuovo, ombre fra le ombre, mentre sguardi assenti li seguono o s’abbassano. Presenze lugubri che sfilano ai margini del loro campo visivo, scivolando via come nebbia, tra i gemiti dei feriti e la melopea del mare.
Ed ecco un’altra cotta incrostata di sangue, ecco il blu della Casata di Ñolofinwë, ecco il suo  stemma. Lui però non alza lo sguardo: non vuole scorgere negli occhi di quel Ñoldo, di quel fratricida, il riflesso della propria colpa.
Sbatte le palpebre, aspettando che la presenza si dilegui, ma quando sente Lalwendë sussultare è costretto a sollevare il capo.
Suo figlio è lì, immerso nell’oscurità.
Findekáno è lì, ma per una attimo lui non lo riconosce. Non riconosce quello sguardo caliginoso, quei tratti scavati da un crimine che sembra avergli prosciugato l’anima.
Sul suo viso non vi è più traccia di alcuna innocenza, si è spenta sui moli, assieme allo splendore di Alqualondë.
Ñolofinwë trattiene il fiato, impedendosi di guardare altrove. Osserva lo schizzo di sangue che macchia la guancia destra di Findekáno, ne imprime la forma, il colore – scurissimo sulla pelle nivea – nell’eternità della propria memoria.
È suo figlio a parlare per primo: Atto3, lo chiama. E quel termine infantile pronunciato dalla sua voce, bassa e roca come il mare che sciaborda in lontananza, ha il potere di farlo tremare.
Poi c’è il corpo di Findekáno contro il suo, e oltre gli strati di stoffe e metalli lui riconosce il calore del bambino che suo figlio è stato.
Lo stringe a sé con delicatezza, quasi avesse paura di fargli del male, di farne a se stesso.
Findo, hinya4; mormora tra i suoi capelli rappresi di sangue.
Sente Lalwendë farsi loro vicino: una mano sulle sue spalle, una sul capo di Findekáno.





Il vento sferza la salma di Alqualondë, quando finalmente lo incontra.
Ha attraversato la città chiedendosi come avrebbe reagito alla sua presenza, cosa gli avrebbe detto, ma la vista di quei pontili mortuari lo ha svuotato di pensieri e intenzioni.
Lui è seduto a un banco di fortuna, coronato dall’immensità del mare abbracciato al cielo nero. Veste ombre dense da cui emerge solo il chiarore del viso, chino su alcune mappe. Sicuramente ha sentito i suoi passi, eppure continua a studiare le carte senza prestargli alcuna attenzione.
Ñolofinwë avanza in silenzio, solo. Lalwendë e Findekáno attendono alle sue spalle, e per lui non è difficile indovinare la ragione che ha portato suo figlio a fermarsi: Maitimo è una presenza solida al fianco del proprio padre, i suoi capelli sono una nota di colore nell’oscurità – ricordano il sangue che incrosta le armature e coagula nelle ferite; il sangue che Ñolofinwë ha visto imbrattare il viso del proprio figlio.
Lo sguardo di Maitimo veleggia fra le ombre del pontile, e lui vorrebbe costringerlo a posarlo su Findekáno. Vorrebbe domandargli se è davvero questo ciò che desiderava li unisse; se l’afasia lasciata dal distacco può essere sanata solo dalle tenebre, da altra disperazione.
Ma poi osserva le navi-cigno all’orizzonte, il loro chiarore morente, e reprime quei pensieri di genitore.
S’avvicina ancora.
Alla destra di Maitimo, quasi celato dalla sua imponenza, Curufinwë è una sentinella di fumo, l’attenzione ormai calamitata dall’avanzare del nuovo arrivato. Ñolofinwë, però, si concentra su loro padre.
Fëanáro, lo chiama.
Vede Curufinwë tirare le labbra in una piega infastidita: forse avrebbe voluto che usasse un appellativo, che s’inginocchiasse. Ma lui non fa nulla di tutto questo. Li osserva, invece, uno a uno: i suoi nipoti, suo fratello5.
Alla fine Fëanáro solleva il viso e i loro occhi s’incontrano – cenere alla cenere. Solo allora Ñolofinwë s’accorge di quanto sia pallido, quasi spettrale, un ricordo stemperato nel presente. Persino l’orrore consumato sui pontili sembra essergli passato attraverso: nessuna impronta di sangue sul viso, nessun segno sull’armatura che trapela dalle ombre. Un’ironia, questa, che affila lo sguardo di Ñolofinwë.
Dov’è Olwë?
Fëanáro inarca un sopracciglio, e il suo viso ritrova concretezza in quella venatura di biasimo che gli è propria.
Suppongo nel suo palazzo a invocare i Valar.
Cos’è accaduto?
Sono certo che tu già lo sappia.
La calma di Ñolofinwë naufraga nell’oscurità, l’abisso si allarga e lui stringe i denti, avvicinandosi ancora di qualche passo.
Voglio sentirlo da te.
La sua pretesa è il tramonto del loro armistizio, semmai uno ce n’è stato. Curufinwë si muove, pronto a intervenire, ma a suo padre basta alzare una mano per farlo rimanere in silenzio.
Ora il viso di Fëanáro è immobile e durissimo, scolpito nelle ombre: uno scrigno della furia che s’accende sotto pelle.
È accaduto che ci siamo impadroniti di una flotta, ribatte con voce graffiante. Una flotta che ci permetterà di attraversare il Mare.
A Ñolofinwë però non basta. Fa un altro passo e poi un altro ancora, così da lasciarsi alle spalle il movimento nervoso di Curufinwë, il sussulto di Maitimo. E quando torna a parlare respira il respiro stesso di Fëanáro, le tenebre compresse fra i loro corpi.
Abbassa appena il capo, in modo da poter continuare a guardarlo negli occhi.
A che prezzo?
La risposta di Fëanáro è un morso nell’aria: Al prezzo che andava pagato.
Nel suo sguardo, nell’anima, brucia un fuoco cannibale, alimentato dalle ceneri di ciò che ha consunto: ormai non ha più nulla da ardere, se non i suoi stessi resti.
Ed è comprendendolo che Ñolofinwë scopre una nuova sfumatura dei propri sentimenti: un velame di compassione che gli increspa le labbra in un sorriso mesto.
E questo ciò che dici a te stesso?
Vede gli occhi di Fëanáro sgranarsi: iridi limpide come specchi su cui scivola il riflesso di un’esistenza perduta. Sente il suo respiro spezzarsi sulla propria pelle, scorge uno spiraglio del suo tormento – un’increspatura sul viso mai così fragile. Ma non c’è nessuna vittoria, solo rimpianto e dolore.
Se ti tendessi una mano ora la stringeresti? Inizieremmo ciò che non abbiamo mai cominciato?
A rispondergli è l’oblio dell’oscurità, il silenzio di una mente chiusa: Fëanáro ritrova un equilibrio stentato, riempie le crepe nella propria maschera e brucia ciò che può.
Non ho bisogno di dire nulla a me stesso, sibila. Io so cosa va fatto, conosco il mio scopo. Come coloro che erano qui conoscevano il loro.
E forse Ñolofinwë dovrebbe fremere di rabbia per quello sguardo che saetta fra le ombre e si posa, allusivo, su Findekáno, ma questa volta prova soltanto pietà. Pietà per quel che resta.












Note:
1 (Quenya) - Plurale di yén, lett. “lungo anno”, in realtà un periodo di centoquarantaquattro anni solari. Può concettualmente sostituire il nostro “secolo”.
2 - Estrapolazioni del Giuramento della Casa di Fëanor. Tra le varie versioni ho scelto quella contenuta in The Annals of Aman (Morgoth’s Ring), ma la traduzione molto approssimativa è mia.
3 (Q) - Alternativa informale del termine atar “padre”, è traducibile con “papà”.
4 (Q) - Lett. “bambino mio” (composto da hína “bambino” e dal suffisso -nya “mio”), può essere usato solo nella forma vocativa.
5 - Dopo che Fingolfin  definisce Fëanor half-brother in blood, full brother in heart, ho reputato corretto che egli non avesse più remore (semmai prima ne avesse avute) nel considerare Fëanor un  fratello a tutti gi effetti.

Inutile dire che nel racconto sono sparsi vari riferimenti all’ósanwë (“interscambio di pensiero”).
 
Per quel che concerne Maedhros ho preferito usare il nome materno “Maitimo” in quanto percepisco l’epessë “Russandol” (comunque molto identificativo) come “riservato” a fratelli e cugini. Forse il nome materno risulta essere un po’ troppo personale in questo contesto, ma essendo che il tutto è narrato dal punto di vista di Fingolfin avrei trovato fuori luogo usare il paterno “Nelyafinwë”, un nome che di per sé è un affronto a Fingolfin stesso. Senza considerare che sono proprio “Maitimo” e “Russandol” ad essere alla base della sindarizzazione “Maedhros” e quindi a connotarsi come i più identificativi del personaggio.
 
Con riguardo al racconto mi vedo costretta ad ammetterne una certa personalizzazione. Potrei scrivere qui di seguito un’infinità di spiegazioni (che suonerebbero tanto come giustificazioni), ma finirei con l’intaccare la vostra opinione sul racconto stesso, e non è questo che voglio. Mi limito quindi a un grazie, grazie per aver letto e a presto.

 

   
 
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