Il nostro tempo sta scadendo
Da dove vengo
io?
Una
goccia d’acqua le colpì il viso. Aprì gli occhi: davanti a lei solo un plumbeo
cielo.
Sbatté
le palpebre mentre una seconda goccia di pioggia si infrangeva sul suo volto e
poi una terza. Iniziò a piovere. Il concetto le sfuggì dalla mente e lei girò la
testa. Un forte odore aveva preso il sopravvento su tutto: sangue. Scattò in
piedi e si guardò attorno: cadaveri. Ovunque. Un immenso campo di battaglia in
cui lei era la sola in piedi, la sola a muoversi.
***
Ora: Zulu 0608
Luogo:
Sobborghi di Melbourne
“Non
mi piace.”
“Hanno
detto recupero.” La città grigia e informe scorreva rapida sotto i loro piedi.
“Sì,
ma non riceviamo segnali radio da parecchie ore.”
“Guardali…”
L’uomo distolse gli occhi dal Barrett M107 che stava
pulendo da invisibili tracce di polvere e osservò. “Sono solo una massa
indisciplinata: senza capi, senza regole.” Continuò il compagno.
I
due soldati osservarono in silenzio il triste paesaggio che stavano sorvolando.
“Indisciplinati,
ma non per questo meno letali.” Mormorò infine il cecchino poi distolse gli
occhi e riprese il suo lento e preciso lavoro.
***
La
pioggia si infrangeva sui corpi con impietosa ferocia, eppure la sua mente non
riusciva ad afferrare l’immensità della tragedia che aveva davanti. L’odore del
sangue era stato sostituito da uno più intenso: il penetrante puzzo di carne
umana bruciata.
“Reclute, sull’attenti!”
Obbedì all’ordine facendo del suo meglio
per stare rigida e ferma, ma i suoi occhi seguirono l’uomo che si era fermato
davanti a loro.
“Non vi farò il classico discorso
intimidatorio.” Ruppe il silenzio il sergente istruttore. “Siete dei
sopravvissuti, conoscete il mondo, conoscete la minaccia che dobbiamo
affrontare.” Guardò nei loro occhi, uno ad uno, erano tre e non ci mise molto.
“Farò tutto ciò che posso per insegnavi a battervi e a usare il meglio delle
ultime armi prodotte dalla nostra civiltà.” Fece qualche passo allontanandosi,
poi come in un ripensamento si voltò di nuovo verso di loro. “Avete deciso di
battervi invece che di procreare, questo significa che la vostra vita mi
appartiene e ricordate: da dove vengo io, un soldato che perde la testa in
combattimento si chiama bersaglio.[1]” L’uomo se ne andò, lasciandoli liberi di
rilassarsi. Il suo vicino ridacchiò: era un uomo dalla possente muscolatura,
evidenziata dalla maglietta aderente.
“Sergenti istruttori… una volta in un
libro che ho letto un soldato diceva che non hanno una madre, ma come i
batteri, si riproducono per cariogenesi.” Rise e questa volta lei sentì le
labbra incresparsi in un sorriso.
“Mi chiamo Matt, mi hanno trovato in
Canada.” Le tese la mano e lei la prese.
“Nisha, sono
indiana.”
“Ah sì? E come sta Toro Seduto?” La
terza recluta la guardò con aria provocatoria, aveva la pelle bianchissima e i
capelli rossi raccolti in una treccia.
“Non iniziare Erin.”
Intervenne Matt.
“Vengo dall’India, ma sono sicura che
Toro Seduto ti chiederebbe di mandargli delle patate. Irlandese.” Le rispose
decisa. Non aveva intenzione di farsi nemici il primo giorno alla base, ma di
certo non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da uno scricciolo di donna
senza sangue nelle vene e dal rivelatore tatuaggio a forma di trifoglio sul
collo.
Un soldato
Ora: Zulu 0613
Luogo:
Melbourne
“Dettagli
sulla missione?” Chiese il cecchino sistemando il Barrett
sul tetto mentre il suo osservatore riceveva informazioni via radio. La
risposta non giunse e il soldato voltò la testa verso il compagno. Il viso del
sergente era sorprendentemente pallido.
***
Il
sangue scorreva lungo la strada, lavato via dall’acqua, ma lei non ci fece
caso. Camminava senza una meta, la mente che rincorreva immagini e sensazioni
senza mai afferrarne nessuna.
Incespicò
nel braccio di qualcuno e i suoi passi si fermarono, come se gli occhi avessero
riconosciuto qualcosa che il cervello si rifiutava di accettare. Vestiva come
lei. Il pensiero fu fugace, ma la portò ad alzare le mani e a osservare i
guanti di metallo che le arrivavano fino al gomito.
Un
rumore le fece alzare bruscamente la testa: un elicottero. Senza riflettere
oltre sul corpo che giaceva a terra, riprese a camminare in direzione del
velivolo, le braccia ricoperte di metallo di nuovo abbandonate lungo i fianchi.
“Questa sarà la vostra uniforme: la
vostra armatura, la vostra ultima protezione.” Il sergente istruttore Radeski afferrò una delle corazze appese alla parete e la
mostrò loro. “È una lega di tungsteno e acciaio, resistente e leggera è anche
una buona schermatura contro le radiazioni.”
“Ed è tossica.” Intervenne con una
smorfia Erin. Radeski le
lanciò uno sguardo penetrante.
“Lo sarebbe se non fosse che il
tungsteno è stato trattato con composti chimici appositi per privarlo della
possibilità di crearvi attacchi convulsivi e insufficienze renali.”
Erin, provocatoria come sempre, fissò il suo sguardo su
di lei.
“Che lo provi prima Pocahontas, così
vediamo se con le convulsioni migliora.”
“Peggio di te non potrei diventare.” Le
rispose secca.
Matt sbuffò e prese l’armatura che il
sergente teneva tra le mani, poi la infilò, guidato dai secchi, ma precisi,
ordini dell’istruttore. Quando fu pronto Radeski gli
tese i guanti.
“Si adatteranno alle tue mani così come
ha fatto l’armatura al tuo corpo.” Indicò i due dischi posti sui pettorali
sopra i quali brillavano tre piccole luci blu. “L’unico modo per attivare lo
scudo personale è premere sui dischi con i guanti.” Con la mano colpì uno dei
dischi mostrando che non succedeva niente poi fece un passo indietro e annuì a
Matt che eseguì la stessa manovra. Attorno all’uomo si formò un brillante scudo
blu.
“Spegnilo: devi premere sul piccolo
disco che hai alla cintura.” Obbediente Matt eseguì e lo schermo si spense.
“Lo scudo d’energia vi proteggerà come
ultima risorsa, che siate troppo vicini a un’esplosione o che i nemici vi siano
addosso.” Erin si avvicinò alla parete afferrando con
un sorriso soddisfatto una delle armature, ma il sergente la bloccò fissandola
con intensità. “Lo scudo ha un’autonomia di dieci minuti, cinque minuti per
disco, non uno di più. Sono molti in battaglia, ma potrebbero non essere comunque
sufficienti. Ricordate: non siete invincibili e non lo sarete neanche con
queste addosso.”
Vestirono le armature e provarono a
muoversi, non erano comodissime, ma presto sarebbero diventate come una seconda
pelle. Nisha si guardò allo specchio e sorrise: ora
era un soldato.
Chi perde la
testa?
Prima di essere recuperata la sua vita
da sopravvissuta era stata al limite dell’umano, nascondersi in un buco da cui
sgattaiolare fuori solo per il cibo era stato difficile, ma nulla l’aveva preparata
per la sua prima brutale missione. Confrontarsi con l’orrore che era ora il
mondo aveva messo a vivo le loro anime e li aveva testati. Era stata sciocca a
credersi un soldato osservandosi allo specchio in armatura.
Perdere la testa, cosa poteva esserci di
peggio? Nulla.
Con un sospiro si sedette sulla panca
della mensa, aveva riposto l’armatura nel suo armadietto e ora era in t-shirt
cachi e pantaloni grigio scuro in silenziosa attesa che le portassero la
razione, ormai le missioni alle sue spalle erano numerose.
“Spostati, non vorrei sporcarmi stando
troppo vicina a un’Intoccabile.” Nisha saltò in
piedi, la quiete pensosa in cui era caduta dopo lo shock dell’ennesimo scontro
si dissipò in un baleno. Erin aveva aperto bocca nel
momento sbagliato.
“Ripetilo!” Intimò con lo sguardo
fiammeggiante e i pugni chiusi.
“Ragazze…” Iniziò Matt, ma gli occhi
dell’irlandese brillarono.
“Sporca Intoc…”
Non finì perché Nisha le saltò addosso. La colpì al
volto con un pugno lasciando che tutta la tensione accumulata fuoriuscisse.
Poté sentire la testa di Erin colpirle lo zigomo poi
le possenti braccia di Matt la afferrarono mentre altri trattenevano la sua
inviperita compagna di squadra.
L’elicottero
ruotò per un istante sulla sua testa, lei alzò lo sguardo cercando di capire
cosa stesse facendo, era lontano, oltre la sua portata, ma doveva raggiungerlo.
Quando abbassò gli occhi un colore attrasse la sua attenzione: rosso, ma non
era sangue. Un corpo giaceva poco distante, immerso nel bruciacchiato carnaio
da cui stava cercando di uscire. Un corpo tra tanti eppure diverso.
Si
avvicinò attratta da qualcosa che rimbalzava nella sua vuota mente.
La
morte non aveva tolto dal volto quell’espressione di caparbia risolutezza che
apparteneva alla giovane in vita, ma aveva spento il brillio dei suoi occhi.
Era un pensiero troppo elaborato e la sua mente non lo colse, l’interesse però
non si spense subito, come negli altri momenti di fugace lucidità. Con gli
occhi vacui osservò la treccia rossa che leggermente scomposta ricadeva
sull’armatura in tungsteno. Qualcosa di istintivo la spinse ad alzare la mano e
a sfiorarsi lo zigomo là dove un piccolo cerotto mostrava l’attenzione per una
vecchia ferita.
***
Ora: Zulu 0615
Luogo:
Melbourne
“Maledizione,
maledizione, maledizione!” L’osservatore calibrò l’ottica mentre masticava
imprecazioni. “Non avrebbero dovuto mandarli da soli, senza appoggio aereo.”
Aggiunse furioso, il tono di voce appena un sussurro.
“Non
si aspettavano un simile raggruppamento: doveva essere una missione di recupero
superstiti… superstiti che sono morti prima che loro giungessero, tirandosi
addosso mezza città.” Argomentò il cecchino, mentre scrutava le strade sotto la
loro postazione, alla ricerca del bersaglio.
In combattimento
Si
piegò, il volto teso nell’osservare quel corpo privo di vita. Perché? Perché
era così importante che ricordasse?
Un leggero bussare la distrasse dalla
sua lettura. Ripose il libro suo comodino e si alzò per aprire la porta, quasi
sicura che fosse Matt pronto a farle la paternale. Invece non era lui.
“Irlandese, se vuoi il resto…” Si
bloccò, la donna aveva alzato la mano, tra le dita vi era un piccolo cerotto.
“Credo che tu ne abbia bisogno.” Disse
solo, sulla mascella aveva un segno violaceo che presto sarebbe diventato un
bel livido. Nel vederla sospettosa sorrise, mostrando che poteva farlo anche
senza essere sarcastica. “Andiamo: è una proposta di pace!” Nisha
titubò ancora un istante poi annuì e le indicò di entrare.
La donna posò il cerotto sulla piccola
scrivania mentre si guardava intorno. Con le mani sfiorò l’elastico verde che
in combattimento le teneva i capelli lontano dagli occhi, poi afferrò il libro
che stava leggendo e notando che era scritto in hindi lo riposò, sedendosi sul
letto. Nisha che l’aveva osservata senza muoversi ora
la guardò interrogativa.
“Ti ha mandato Matt?” Rise all’idea poi
scosse la testa, si alzò e le indicò di avvicinarsi.
“Sono venuta di mia spontanea volontà.” Nisha si accostò quando vide che la donna aveva ripreso il
cerotto. “Non mi aspettavo che combattere fosse così…” Il suo tono era basso,
quasi mormorava mentre cercava la parola, liberò il cerotto dal suo involucro e
si avvicinò ancora di più a lei. “Difficile.” La parola non la soddisfece e lei
scosse la testa.
“Brutale, pauroso… disumano.” Le venne
in aiuto lei. La donna fissò i propri occhi nei suoi. Colpita nel ritrovare
espressi i propri sentimenti.
“… brutale, pauroso e disumano e ho
sempre pensato che la sofferenza fosse solo sofferenza, ma combattendo per la
sopravvivenza incominci anche a capire che i dolori, le delusioni e la
malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità,
ma per maturarci.[2] Uscire in missione è uno schifo, però…” Di nuovo si
fermò, sembrava improvvisamente impaurita, come se essersi aperta con lei la
spaventasse.
“Sì, è uno schifo, ma ti insegna ad
amare la vita, ad amare anche solo la bellezza di un fiore o il sapore di
quella sbobba che chiamiamo cibo. Gettarsi con il paracadute verso una
probabile morte non mi spaventa più, ormai vedo solo la bellezza del volo. Sì,
credo che tutta questa sofferenza ci abbia fatto crescere, non solo come
soldati, ma come esseri umani.” Erin rimase in
silenzio, sistemandole con delicatezza il cerotto sullo zigomo poi, senza
distogliere lo sguardo dei suoi occhi, le accarezzò il volto.
“Siamo qualche centinaia di superstiti
contro milioni di mostri, miliardi anzi, e tutto quello a cui riesco a pensare
sei tu.” La dichiarazione di Erin la lasciò senza
parole, il suo cuore che aveva battuto furiosamente in battaglia ora sembrava
essersi liquefatto, il suo stomaco si contrasse dandole la bizzarra sensazione
di aver ingoiato farfalle. Il viso della donna era vicino e i loro occhi erano
allacciati, ma Nisha poteva leggere, per la prima
volta, la verità in quegli occhi azzurri come il mare.
“Mi hai rivolto sempre e solo parole
taglienti e offensive!” Osservò ed Erin si strinse
nelle spalle.
“Come dicevo ho capito che proteggersi e
tentare di non soffrire è solo una perdita di tempo. Volevo starti lontana, non
volevo aggiungere i problemi di cuore alla lista dei nostri castighi, ma quando
ho visto il furore nei tuoi occhi un attimo prima che tu mi colpissi, ho capito
che crescere e maturare significa accettare tutto quello che la vita ci offre, anche
l’amore. Soprattutto l’amore.”
Nisha sorrise, sorrise perché il mondo era un posto
orribile, aveva e avrebbe giocato ancora con la morte, ma Erin
le stava offrendo qualcosa di puro e bello.
Così come, poche ore prima, aveva
sferrato il primo pugno ora fu lei ad annullare le distanze. Con decisione e
coraggio catturò le labbra sottili di Erin e la
baciò.
Quando due ore dopo le chiamarono per
una missione di recupero di possibili superstiti dovettero correre per farsi
trovare pronte dal Lockheed C-5 Galaxy che le avrebbe
condotte a Melbourne.
La
pioggia scorreva da lei al corpo riverso senza che la sua memoria le suggerisse
un ricordo, qualcosa a cui aggrapparsi. Un quadrifoglio verde spiccava sul
collo pallidissimo del cadavere: irlandese. Il pensiero durò un istante poi un
refolo di vento le portò un odore. La sua testa scattò mentre il suo corpo
incominciava a muoversi. Doveva correre ora.
***
Ora: Zulu 0618
Luogo:
Melbourne
“Soggetto
in avvicinamento, preparare copertura.” Mormorò alla radio il cecchino. Il suo
fucile ora era nelle mani del sergente, il suo osservatore aveva deciso che
quel colpo sarebbe stato suo e lui non aveva discusso la volontà del suo ex
istruttore.
Radeski, accucciato sul
tetto del palazzo, assestò meglio il fucile alla spalla.
Si chiama
bersaglio
Correva,
l’armatura non infastidiva più i suoi movimenti, nell’aria quell’odore che
faceva impazzire tutti i suoi sensi. I capelli bagnati le frustavano il volto
un tempo ambrato, ora tremendamente pallido. Gli occhi verdi e pieni di vita
non erano altro che vitrei riflessi. La ferita al volto non bruciava più e
neppure le ricordava dolci momenti di comprensione, condivisione e amore, così
come non bruciava il morso al braccio o il graffio che le aveva strappato il
pantalone sotto il ginocchio.
Correva,
perché ora che aveva colto quell’odore non c’era più spazio per i piccoli
barlumi di coscienza, no, c’era solo più spazio per la caccia, per la fame,
quella fame prepotente e inarrestabile che sapeva di non poter colmare mai, ma
che l’avrebbe spinta sempre a cercare la carne: carne fresca, carne umana.
“Sono troppi!” Erin
lanciò una granata cercando di arginare l’assalto, mentre Matt sparava alla
folle massa di gente che correva verso di loro.
“Il nostro tempo sta per scadere, non ce
la faremo…” Mormorò Nisha con un tuffo al cuore.
Doveva essere solo una missione di
recupero, una di quelle semplici, un segnale radio rintracciato a Melbourne
aveva acceso le speranze di trovare sopravvissuti e loro erano stati inviati in
esplorazione.
L’Australia non aveva basi operative
così il supporto aereo sarebbe arrivato da una struttura petrolifera nel mar di
Tasmania, ma il centro di Melbourne era stato ripulito tempo prima e il livello
di pericolo era ragionevolmente basso: quei cosi non si spostavano senza un
obiettivo.
Nella loro foga di farsi trovare i
superstiti, una famiglia di tre persone, erano usciti in strada non appena
avevano sentito passare il C-5 dal quale loro si erano paracadutati: un errore.
I portatori del virus erano spuntati da
ogni strada attirati dal rumore e poi dalla carne fresca. Avevano preso i
superstiti prima ancora che loro toccassero terra e poi li avevano accerchiati.
Mentre osservava la massa informe di
uomini, ormai solo cacciatori di carne vivente, Nisha
capì che sarebbe morta lì.
Dalla porta di una palazzina uscì quello
che un tempo era un giovane, la morse al braccio prima che lei avesse il tempo
di reagire. Erin sparò, colpendo alla testa l’essere
che era caduto indietro, definitivamente morto: ma era tardi.
Si erano guardati, un solo istante
perché il pensiero cogliesse tutti e tre: sarebbero morti e sarebbero risorti,
infestando quel mondo e minacciando i pochi sopravvissuti rimasti.
“No, non io.” Disse l’irlandese
risoluta. Matt lanciò l’ultima granata dando loro qualche minuto di respiro.
“Qual è il piano?”
“Un sovraccarico delle tute.” Erin e Matt la fissarono sorpresi e confusi. “Ricordate?
L’elettricità frigge i loro cervelli e li uccide quanto un proiettile e le
nostre tute sono dotate di uno scudo energetico piuttosto potente.”
“Ok, ma come pensi di sovraccaricarlo?”
“Non è così difficile. Basta unire le
due celle di potenza. Estraetele.” Era una procedura abbastanza semplice e che
loro eseguivano ogni volta che rientravano alla base, così che i nuclei di
energia venissero ricaricati o semplicemente supervisionati da un tecnico.
Raccolte le celle Nisha
si ingegnò collegando i circuiti poi le restituì a ognuno.
“Sarà una bella esplosione, niente a che
vedere con il C4 però. Ho visto esplodere una cella di energia all’università
di Bombai, sarà come un fulmine che si irradierà tutto attorno a voi.” Nisha sorrise nel vedere i loro volti stupiti. Non aveva
mai detto di essere andata all’università altrimenti l’avrebbero considerata
troppo preziosa per fare il soldato. “Il nostro tempo sta per scadere.” Ripeté,
poi: “Siete pronti a morire?” Matt sparò un colpo abbattendo una donna poi
voltò la testa e annuì.
“Tanto lo sapevo che sarebbe finita
così.” Sorrise mentre sparava un secondo proiettile. Sembrava serafico, come lo
era sempre stato. “Però voglio portarmi dietro il maggior numero possibile di
loro.”
“Va bene, allora separiamoci in un
raggio il più ampio possibile.” Il giovane annuì e lei voltò la testa verso la
ragazza “Erin?” Chiese. L’irlandese scattò verso di
lei per catturarle le labbra in un ultimo bacio.
“Ora sì.” Sorrise e poi si allontanò
correndo.
***
Ora: Zulu 0619
Luogo:
Melbourne
L’osservatore,
ora cecchino, nonché sergente istruttore Radeski
strinse i denti mentre l’obbiettivo entrava nella sua linea di tiro.
“Fuoco
quando pronto.” Annunciò il suo compagno di team, solo un piccolo tremito nella
voce mostrò che anche lui conosceva l’obiettivo.
***
Matt aveva tenuto la posizione mentre Erin era corsa a Sud. Nisha sparò due colpi precisi aprendosi la strada
verso una piazza affollata, non avrebbe mai cercato un luogo così aperto, non
se voleva sopravvivere, ma l’idea era morire e portarne il maggior numero con
lei quindi: quello era il posto giusto.
Non aveva più granate e dopo una decina di
colpi finì anche i proiettili, il suo cinturone era vuoto.
Alzò la mano verso il comunicatore che
portava al collo.
“Pronti?” Chiese.
“Go.” Rispose conciso Matt.
“Oh sì, mia bella dalla pelle ambrata.
Ci rivedremo in paradiso!” Poi iniziò a canticchiare lasciando il canale
aperto:
“And our time is running out
Our time is running out
You can't push it underground
You can't stop it screaming out
How did it come to this ?”[3]
Nisha sorrise riconoscendo la lingua madre della ragazza,
premette il guanto sul generatore di scudi e fu avvolta in una piccola palla
azzurra. Stupita, abbassò gli occhi e capì che mentre sparava doveva aver
urtato i fili sconnettendo le due fonti di energia. Le celle alimentavano di
nuovo lo scudo: lei era, ora, protetta da uno scudo.
Mentre il panico la sommergeva fu
raggiunta dall’onda d’esplosione delle celle di Matt ed Erin.
Fu un’esplosione forte, abbastanza da
sbatterla indietro e scudo o non scudo, di ucciderla. Abbastanza da folgorare
la massa urlante di feroci zombi, abbastanza da uccidere definitivamente Matt
ed Erin, ma non abbastanza da azzerare il suo
cervello, protetto dal piccolo scudo d’energia.
Così, varie ore dopo, lei si rialzò
priva di memoria, tra una montagna di cadaveri. La mente vuota che si affannava
per afferrare gli ultimi barlumi di ricordi, per dare un senso agli ultimi
inutili sussulti delle sinapsi.
Morta eppure ritornata, infettata dal
terribile virus che si era preso il mondo e tutta l’umanità, se non per quel
pugno di superstiti che ancora lottava.
E
ora correva. Correva per nutrirsi di carne fresca.
***
Ora: Zulu 0619
Luogo:
Melbourne
“Ricordi
Nisha? Da dove vengo io, un soldato che perde la
testa diventa un bersaglio. Noi non lasciamo indietro i nostri. Mai.” Un
singolo preciso colpo, sparato da 914,5 metri, pose fine alla folle corsa di
quello che un tempo era stato un suo soldato.
“Bersaglio
centrato, pronti al rientro.” Mormorò il cecchino accanto a lui.
Radeski annuì, si alzò
e chiuse il treppiede del fucile.
I
vivi stavano perdendo la guerra per il mondo.
“And our time is
running out
Our time is
running out
You can't push
it underground
You can't stop
it screaming out
How did it come
to this?”