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Autore: scrittrice in canna    20/05/2016    2 recensioni
[Si può leggere la storia anche senza aver visto Sense8]
Otto ragazzi da tutto il mondo, con storie diverse ma complementari, si aiuteranno a vicenda in un viaggio alla scoperta di loro stessi quando si troveranno legati in maniera inesorabile da qualcosa che va oltre il DNA e il fato: l'empatia.
La loro vita verrà messa in pericolo da un nemico comune e solo lavorando insieme potranno avere una possibilità di sconfiggerlo, senza però dimenticare i problemi di tutti i giorni e i demoni che si portano dentro.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt, Brittany/Santana, Finn/Rachel
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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1.

Le spiagge di Lesbo non erano mai state più silenziose e tranquille come durante il giorno in cui Santana Lopez sperimentò la sua prima connessione.
Non era strano per lei fermarsi con lo sguardo ad ammirare qualche bella ragazza, era solo un altro pro del vivere in un’isola mediterranea. Sentiva che c’era qualcosa di strano, però, riguardo quella biondina sdraiata a pochi centimetri da lei: non aveva la tovaglia, né borse o altro, c’era solo lei, perfetta sotto i raggi del sole con la sua pelle candida, gli occhiali scuri che le coprivano il viso.
Non appena Santana sbatté le palpebre, l’altra sparì senza lasciare traccia, neanche un’impronta sulla sabbia. Era convinta di essere sull’orlo della follia, forse i suoi alunni la stavano davvero facendo impazzire o tutti gli esercizi alla sbarra e le capriole le avevano fatto arrivare il sangue al cervello. Fece spallucce, si mise comoda sulla schiena e cercò di pensare alle persone che erano davvero lì.
Tornò a casa dopo aver passato il pomeriggio in riva al mare senza l’interferenza di bionde fittizie e ammalianti che la distraevano dal suo meritato riposo, posò le chiavi in un piatto vicino alla porta, lanciò la borsa sul divano e si fiondò in bagno per togliersi di dosso il sale marino, si guardò allo specchio analizzando le guance rosse mentre la vasca si riempiva di acqua tiepida – doveva mettere una bella crema idratante per evitare una scottatura – e quando tornò con lo sguardo sul vetro non vide più il suo riflesso, lei non era così bassa e il suo naso non era così grande e  - di che colore erano le pareti dietro quella ragazza? Sembrava che ci avessero ucciso un fenicottero contro.
Santana alzò un sopracciglio, abbassò le mani che aveva portato ai capelli e rimase a fissare l’immagine che aveva appena poggiato la spazzola davanti a sé e curvato le sopracciglia, sporgendosi in avanti.

Rachel sapeva di star lavorando troppo duramente, ma avere le allucinazioni era tutta un’altra storia, specialmente se vedeva cose che non aveva mai nemmeno immaginato, come una ragazza dai lineamenti ispanici con la faccia rossa. Decise che, per una volta, il suo rituale si sarebbe dovuto interrompere: niente vasca d’acqua fredda per i suoi poveri pori. Invece si mise una tuta e si diresse in palestra, borsone alla mano ed auricolari alle orecchie. Avrebbe fatto un’ora di ginnastica, poi si sarebbe fatta una doccia e dritta in teatro per le prove generali di “Funny Girl” dove, modestamente parlando, interpretava la parte della protagonista. Stava per improvvisare un’esibizione di “I'm The Greatest Star” in ascensore quando il suo telefono cominciò a trillare e la interruppe proprio nel mezzo della prima strofa.
Era il suo manager, probabilmente voleva solo farle gli auguri per il suo debutto a Broadway.
“Rach! Come sta la mia star?”
“Alla grande, come sempre” rispose lei gioiosa.
“Senti, so che la prima di Funny è tra poco…” Rachel poteva sentire il ‘ma’ arrivare da lontano, puzzava di proposta indecente.
“Ma c’è una grande possibilità che ti aspetta proprio dietro l’angolo!”
“Dimmela allora!” Non poteva negare di essere curiosa, Puck era sempre quello che le aveva trovato il provino per Fanny.
“C’è questo tizio, Jessie St. James, che sta esordendo come sceneggiatore, mi ha mandato un copione e credo valga la pena provare.” 
Rachel era scettica, mise il telefono tra la spalla e la guancia per prendere un biglietto della metro e si diresse verso i binari.
“Non lo so, Puck. Sarò molto impegnata nei prossimi mesi, non posso permettermi-”
“Jessie deve ancora definire il progetto, è disposto ad aspettare l’inverno, quando avrai finito le serate.” Puck la stava praticamente implorando, doveva davvero valere molto quel copione.
“D’accordo, ci andrò. Quand’è il provino?” concesse lei.
“Oggi, alle quattro.” Era completamente pazzo o cosa? Rachel strabuzzò gli occhi.
“Come dovrei preparare un’audizione in un paio d’ore, Puckerman?” lo ammonì.
“Puoi fare ‘Don’t Rain On My Parade’! Ti viene sempre bene” le disse con un’aria da sfottò, più o meno come diceva l’ottante per cento delle cose che gli uscivano dalla bocca.
Rachel roteò gli occhi verso il cielo e salì sul vagone che l’avrebbe portata in palestra. Tanto valeva assecondarlo, avrebbe comunque continuato imperterrito a tormentarla. Che male avrebbe fatto perdere qualche minuto del suo tempo? La sua Fanny era già perfetta.

Jessie posò il copione sul tavolo e sprofondò nel sedile dietro al tavolo da giurato. Non sapeva quante volte l’aveva letto e riletto e controllato assicurandosi che tutto fosse al posto giusto.
Aveva già cominciato i casting e non sapeva nemmeno se quella che aveva in mano sarebbe stata la versione finale, sentiva che c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa che mancava per rendere il suo lavoro degno delle luci della ribalta e dei Tony Awards. Sentiva l’urgenza di riscrivere tutto anche se ogni persona che l’aveva letto gli aveva consigliato di smettere le revisioni ossessive, non faceva che sentirsi dire: “Tranquillo, Jess. È perfetto!” oppure: “No, vedrai che andrà tutto bene!” quando chiedeva: “Pensi che dovrei cambiare qualcosa?” e quel finto ottimismo lo stava buttando giù, per non dire che era sempre più nervoso per colpa di quello stupido spettacolo e lo stupidissimo debutto e – perché non riusciva a trovare qualcuno per il ruolo di Matthew?
Stava per alzarsi dal suo posto sugli spalti del teatro quando sentì una voce venire dal palco, aveva voglia di urlare che le audizioni si erano concluse, che non avrebbe più fatto alcuno spettacolo, ma il ragazzo al piano aveva la voce perfetta per il protagonista. Certo, avrebbe preferito sentirlo in qualcosa che non fosse Katy Perry, ma la voce così piena di tristezza, così drammatica, come se fosse piena di fantasmi che non vogliono fare altro che divorargli l’animo… era lui, era il suo Matthew. Alla scelta del brano avrebbero pensato dopo.
Non riusciva a vederlo bene da lì, ma poteva anche essere un orco a tre occhi per quanto gl’importasse. Rimase in trance ad ascoltarlo mentre suonava le ultime note di una versione acustica di “Teenage Dream”, poi il ragazzo sparì, proprio quando Jessie stava andando a congratularsi con lui. Rimase immobile al centro del palco. Possibile che si fosse immaginato tutto? L’unica cosa che lo fece rinsalire fu la suoneria del telefono: rispose senza neanche controllare il mittente: “Pronto?” Era ancora deluso (e leggermente sconvolto) dall’esibizione del Matthew fantasma.
“Jessie? Sono Puckerman, Noah.”
Il volto di Jessie s’illuminò, forse la giornata poteva ancora prendere una buona piega. Aveva sentito tanto parlare di questa Rachel Berry, sapeva che era un astro nascente, se tutto quello che Puck gli aveva detto si fosse rivelato vero… be’, avrebbe trovato la persona perfetta per il ruolo di Penny.
“Ehi, Puck!”
L’altro rise sotto i baffi sentendosi chiamare in quel modo da qualcuno che non fosse un  suo ex compagno del liceo.
“Ho convinto Rachel, vedrai che non te ne pentirai, amico.”
“Lo spero” rivelò Jessie mettendosi la mano libera in tasca.
“Non ti abbattere, andrà tutto bene. Hai un successo per le mani.” Ed ecco di nuovo il finto positivismo.
“Già” sospirò Jessie sedendosi sul legno caldo segnato da anni di arte e spettacolo e pura Broadway. Sarebbe stato mai all’altezza?

Blaine si alzò dalla seggiola dietro al piano che una volta era stato di suo padre, passò di nuovo la mano sui tasti lasciando che quel vecchio pezzo di legno gli desse la forza di andare al funerale dei suoi genitori, non perché pensava che si sarebbe messo a piangere, al contrario aveva paura che non sarebbe successo, che tutto il dolore che gli avevano causato nel corso degli anni si sarebbe fatto spazio dentro di lui come un serpente viscido e meschino, magari mentre guardava la loro foto del giorno del matrimonio dove sorridevano spensierati e incoscienti, quando non sapevano che avrebbero avuto un figlio sbagliato.
Il solo essere a Parigi, il posto dove i suoi genitori l’avevano cresciuto, dal quale era scappato a soli diciotto anni, gli aveva riportato alla mente ricordi che aveva seppellito tempo addietro tra un’esibizione in un bar e una serata in discoteca cercando di dimenticare la sua famiglia con fiumi di alcool, ma gli aveva portato solo una nottata in ospedale, dopo la quale aveva deciso di darci un taglio e rimettersi in sesto.
“Blaine? Siamo pronti” lo informò il parroco lanciandogli un’occhiata mentre si dirigeva in giardino, dove si sarebbe tenuta la funzione.
A quanto pareva i suoi avevano deciso nel loro testamento che entrambi volevano ‘restare per sempre nella loro casa.’ Aveva sempre saputo che fossero persone eccentriche, ma quello era troppo anche per loro.
Qualche minuto dopo si ritrovò di fronte alla bara di sua madre, quella del padre alla destra, la pioggia ne bagnava le superfici lasciandole lucide, era quasi estate e tutto intorno al gruppo di persone vestite di nero era scuro e freddo, proprio come quella serata.
Blaine si rese conto che rimandare così tanto il funerale non era stata una buona idea, cominciava ad avere i brividi e il cappotto pesante non gli portava alcun conforto. Alzò gli occhi da terra per prendere un ombrello, l’acqua stava scendendo sempre più insistentemente e pensava che sarebbe stato bene coprirsi, ma venne sorpreso da uno schizzo di colore in mezzo a tutto quel nero: era un ragazzo alto e slanciato che si guardava intorno confuso, quando incontrò lo sguardo di Blaine lui sentì come se lo stomaco gli si stesse attorcigliando, lo sentì chiedere: “Dove diavolo sono?” Prima che un gruppo di persone gli impedisse di vederlo mettendosi tra di loro.
Blaine spintonò tutti cercando di raggiungerlo con una certa urgenza, solo che del ragazzo misterioso non c’era più traccia, era come sparito nel nulla.

“Kurt? Kurt!” Finn lo chiamò con più urgenza schioccandogli le dita di fronte al viso per farlo uscire dallo stato d’immobilità in cui era caduto.
L’altro sbatté le palpebre un paio di volte: “Eh?” riuscì a dire, ancora confuso, portando la testa da un lato.
“Stavi blaterando qualcosa sulla pioggia” gli spiegò il fratellastro buttandosi a peso morto sul divano.
“Certo, certo. La pioggia” si ripeté Kurt avviandosi verso la cucina.
“Mamma e papà saranno qui tra un’ora” lo informò Finn urlando e mettendosi comodo, prese il telecomando e accese il canale sportivo.
“Cosa? Un’ora?” Kurt tornò in salotto tutto trafelato, urlando: “Non mi basta un’ora per preparare una cena per cinque persone!”
Finn lo guardò con la sua classica espressione da pesce lesso, poi balbettò per un po’ aprendo e chiudendo la bocca prima di riuscire a dire: “Vuoi una mano?”
Kurt sembrò rifletterci, gli occhi gli si allargarono in maniera disumana al solo pensare che tipo di danni avrebbe potuto fare suo fratello ai fornelli, non gli avrebbe mai assegnato neanche un uovo da rompere, figuriamoci intere portate. Era l’unica volta che Finn tornava a casa prima di partire per il fronte quell’anno, lo avevano già avvertito che non avrebbero potuto dargli altre licenze fino a Natale ed era così lontano…
“No, no. Tu sta qui e guarda i Rovers.”
“Il Duntalk” lo corresse Finn, dopo tutti quegli anni non aveva ancora imparato il nome della squadra per cui lui e Burt tifavano, ma conosceva i primi in classifica ed era già un passo avanti.
“Quello che è!” mugugnò Kurt esasperato. Un’ora per cucinare per tutti, solo un’ora. Avrebbe fatto meglio a darsi da fare, magari così sarebbe anche riuscito a togliersi quel ragazzo dalla tesa. Non aveva mai fatto un sogno più lucido, non sapeva neanche da quale angolo remoto fosse riuscito a congiurarlo, era probabilmente qualche attore che aveva visto in un film anni addietro, forse era tutta colpa della calma piatta nella sua camera da letto. Non riusciva a trovare una soluzione più logica.
Finn intanto stava cercando di concentrarsi sulla partita di calcio, era così preso che non fece peso alla ragazza bionda accanto a lui che gli chiedeva: “Cosa stai guardando?”
“Calcio.”
“Hai un accento strano” gli disse, le sopracciglia corrugate.
“Sono irlandese, ho un accento irlandese. Tu piuttosto-“ Si girò e realizzò di star parlando con una sconosciuta, una sconosciuta che era sul divano accanto a lui. “Whoa!” esclamò portandosi le ginocchia al petto.
“Cosa? Non hai mai sentito parlare un Australiano prima d’ora?”
Finn rimase immobile, pensò fosse come i T-Rex dei film: se non mi muovo, non mi vede.
La ragazza rimase lì a fissarlo, gli occhioni lucidi e innocenti  le gambe incociate sul divano.
“Kurt!” urlò il marine senza distogliere lo sguardo, solo quando suo fratello tornò per l’ennesima volta nella stanza si voltò per domandare: “Chi è lei?”
Kurt aprì e chiuse gli occhi un paio di volte, scosse la testa, un vassoio pieno di patate tagliate e pronte per essere infornate tra le mani, guardò ancora un po’ meglio, una volta giunto alla conclusione che la sua vista non poteva andare così male, annunciò; “Non c’è nessuno lì.”
Finn strabuzzò gli occhi quando si rese conto che, in effetti, la ragazza era sparita.
“Dio, sto impazzendo!”

Brittany era rimasta un po’ delusa da Finn. Non sapeva come, ma era cosciente del fatto che quello fosse il nome del ragazzo irlandese, che suo fratello si chiamava Kurt e che si volevano bene ed erano felici.
Si alzò dal letto con quella consapevolezza e sorrise perché vedere tutte quelle persone la faceva stare bene, soprattutto se anche loro si sentivano allegri.
Pensando a Finn e Kurt le tornò in mente la ragazza di quella mattina – almeno per lei, per Santana, era stata mattina – lei sembrava spensierata, ma in realtà si portava dentro una profonda tristezza, una malinconia che fece storcere la bocca a Brittany, perché lei lo sentiva, quel senso di angoscia che circondava Santana ovunque andasse, lo sentiva più di quanto sentisse le emozioni dei due fratelli irlandesi, era come se avesse un legame particolare con lei che trascendeva gli altri.
Una cosa per volta, per prima doveva capire come riuscire a contattarla di nuovo, durante il giorni aveva provato l’esperienza di visitare qualcuno due volte, non sapeva quante persone avrebbero potuto collegarsi con lei, ma per il momento le interessava solo Santana, voleva capire cosa la facesse stare male per stringerla e fare sì che gioisse insieme a tutti gli atri, doveva essere bellissimo il suo sorriso, quello vero.
“Dove diavolo sono?” A quanto pare aveva sbagliato bersaglio, davanti a lei non c’era Santana, ma una donna di colore piuttosto nervosa – si chiamava Mercedes.
“Sono io a fare le domande qui. Chi diavolo sei tu, signorina?”
“Ehm…” Brittany strofinò le mani l’una contro l’altra coi polsi, si guardava intorno, osservava tutto dentro quell’appartamento, sembrava avere buon gusto questa Mercedes.
“Credo- credo di aver sbagliato” disse alle fine.
“Oh, sì che hai sbagliato!” urlò Mercedes prendendo il cellulare di casa: “Sto chiamando la polizia.”
Compose il numero e l’operatore le rispose gentile, chiedendole quale fosse la sua emergenza. Non si era ancora abituata a parlare Giapponese, nonostante fosse in città ormai da tre mesi. Si girò verso la ragazza per assicurarsi che non facesse cose strane, ma lei non c’era più.
“Signorina? Va tutto bene?” le chiese una voce dall’altro lato della linea.
“Sì, problema risolto. Grazie” rispose incredula staccando la chiamata.
Scosse la testa, ancora scioccata, e andò a mettersi a letto, forse aveva solo bisogno di dormire un po’.

 
Scrittrice in Canna's corner
Ecco che approdo nell'ennesimo nuovo fandom, c'è ancora qualcuno qui in giro?
Ci ho messo anche troppo a vedere Glee ma ci sono riuscita e ora sono piena di idee per questa storia! Spero che entusiasmi voi almeno la metà di quanto entusiasma me.
 Voglio dedicare questo capitolo a bookswhisperer senza la quale non saprei neanche dell'esistenza di un personaggio come Kurt (ma come ho fatto a vivere senza il mio pinguino?).
Vi assicuro che questo capitolo è l'unico con questa lunghezza abnorme, doveva presentare tutti in puro stile Sense8, mi dispiace avervi fatto perdere così tanto tempo :')
Vostra,
Scrittrice In Canna.
   
 
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