Anime & Manga > Ranma
Ricorda la storia  |      
Autore: Kuruccha    22/05/2016    5 recensioni
Anche a me piacciono gli uomini che sanno cucinare, pensa brevemente, e tu sai senza dubbio come si fa, ma non trova il coraggio di dirglielo, anche se non vuole soffermarsi a studiarne la ragione.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ryoga Hibiki, Ukyo Kuonji
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Le solite note iniziali.
Questa storia parte appena dopo l'arco della gara a ostacoli delle terme, nel sedicesimo volume del manga originale, ovvero quando Ryoga e Ukyo vincono per sbaglio un viaggio premio. In quel momento sono stata una fangirl felice.
Vorrei dedicarla a Mana, perché è stato per merito suo se mi sono avventurata nell'impresa della lettura di questo manga, e perché è un'ottima compagna di fangirling. Grazie davvero <3

 

 

La risacca




E dire che quella del cameriere le sembrava la mansione più facile.
Non ha mai avuto un cameriere prima d’allora, in verità; abituata a lavorare prima nel chiosco di papà e poi nel suo ristorante di Nerima, Ukyo ha sempre avuto un rapporto quasi confidenziale con i pochi clienti per volta che il locale era fisicamente in grado di ospitare. In quella bancarella presa a noleggio, però, non c’era nessuna ribalta da poter trasformare in tavolino provvisorio, né erano fornite sedie, perciò si era dovuta reinventare e, nel reinventarsi, l’alternativa che le era parsa migliore era stata quella di prendere possesso dell’area relax della spiaggia, con i tavolini dipinti di vernice bianca sulla sabbia dorata.
Tavolini rotondi, però. Tavolini distanti dalle piastre per gli okonomiyaki. E poco le importava di essere lì per una vacanza – e poco le importa pure di averla vinta, quella vacanza, e di averla dovuta per di più condividere con qualcuno che non è Ran-chan - perché il lavoro è lavoro, e senza lavoro lei mica può mangiare, e chi non ha bisogno di arrotondare e guadagnare qualche soldo, in fondo?
Era per quel motivo che aveva proposto a Ryoga di aiutarla; per quello, e perché era l’unico che conosceva lì in quel posto, e perché sapeva già allora che Ryoga era uno che non si scoraggiava mai. Le era parsa una buona idea; una buonissima idea, addirittura. Cucinare e avere un cameriere. Che salto di classe.
Ora che lo osserva oltre la finestra della bancarella, però, e lo vede vagare con l’ordinazione del tavolo 1 ancora sul vassoio – e ricorda che il tavolo 1 è quello più vicino, e che l’ordinazione del tavolo 1 era completa per la consegna almeno un quarto d’ora prima, e che l’okonomiyaki preparato con tanta cura ha ormai smesso di fumare da un bel po’ – d’improvviso ricorda il motivo per cui Ran-chan prende in giro Ryoga ogni volta, ed è costretta a ricredersi: affidare delle consegne a qualcuno capace di perdersi tra otto tavolini in totale non è stata decisamente una buona idea.
E dire che quella del cameriere le sembrava la mansione più facile.

 
*

«Devi aspettare che la piastra sia ben calda» gli raccomanda.
Ukyo è già in grado di dire che la piastra è chiaramente alla temperatura esatta; non è una cosa che è in grado di spiegare a qualcuno che non abbia già l’occhio esperto, però. «Per controllare se lo è davvero basta che ci versi sopra un po’ di pastella.»
Gli mostra come fare, tracciando con la spatola un piccolo cerchio sul metallo bollente del teppan. «Vedi? Inizia già a soffriggere.»
Ryoga studia il lavoro con l’attenzione di uno scolaro diligente; è molto meno perso ora, in quelle mansioni nuove e complesse, di quanto non lo sia stato nell’intera giornata come cameriere. Stringe tra le dita la spatola che gli ha dato Ukyo, mimando in aria i movimenti che ha visto fare a lei.
«Quanto il bordo è dorato, gira l’okonomiyaki» continua lei, facendo saltar via la pietanza con un colpo di polso perfettamente calibrato. L’okonomiyaki atterra dall’altro lato, quello ancora da cuocere, nell’esatta posizione in cui era prima l’altra faccia.
«Non sembra troppo complicato» commenta Ryoga, muovendo il polso nel replicare la sua mossa. È così concentrato nel tentare di riprodurla alla perfezione che Ukyo direbbe quasi che la stia memorizzando per usarla poi in battaglia. E forse è davvero così, conclude.
«Non lo sembra, no» gli risponde, versando una porzione più grande della pastella per farne questa volta un okonomiyaki come si deve. È sera, però, e tra poco per la spiaggia arriverà l’ora della chiusura dei cancelli, e anche la loro bancarella dovrà andare in stand-by per la notte. «Ma la cottura è solo l’ultima parte, e non certo la più difficile. E poi quello dell’impasto è un segreto di famiglia. Degli ingredienti mi occuperò sempre e solo io.»
Ryoga annuisce, pensieroso. «Mi sembra giusto. Partirò dal basso» conclude, e Ukyo pensa che gli è grata per non aver insistito, che è riconoscente per quel suo fare da discepolo di arti marziali e che, soprattutto, è felice che sia uno che non si perde mai d’animo.
«Chissà. Dalle stalle alle stelle, no?» commenta, e per la prima volta Ryoga sorride. 

 
*

Lo sente imprecare anche da lontano, e non è l’unica; anche il cliente davanti a cui ha appena posato il piatto, seduto lì al tavolino della spiaggia, solleva lo sguardo e cerca la fonte di quei borbottii che ancora continuano oltre il bancone della bancarella.
«Non si preoccupi» gli dice Ukyo, la voce ferma di chi ha già rassicurato milioni di clienti prima d’allora, e già nel sentirla lo sguardo dell’uomo torna sull’okonomiyaki, «È nuovo, sa. Ma è resistente. Non si è fatto nulla.»
Non lo dice solo per dire; ne è convinta davvero, anche mentre lascia ciondolare il vassoio vuoto tornando verso la bancarella noleggiata, augurandosi solo che Ryoga non abbia dato fuoco a nulla di fondamentale. Nulla che sarebbe costretta a rimborsare, per lo meno.
Lo trova con una mano immersa in un catino d’acqua. Poco lontano, sul bordo della piastra, una delle sue spatole. Ukyo sospira; non aveva nemmeno bisogno di controllare per avere la conferma che si è scottato.
«Certo che non ne combini una giusta» commenta, recuperando uno strofinaccio per riuscire ad afferrare il manico bollente della spatola. (Non glielo direbbe mai, ma anche lei si è scottata milioni di volte prima di imparare che non è lì che deve lasciarla quando ha finito di utilizzarla.)
Ryoga non risponde; rimane chino con la mano nel catino, immobile. Borbotta ancora qualcosa, ma a voce così bassa che nessuno riuscirebbe a distinguere le sue parole. Ukyo si affaccia oltre il bancone per rassicurare il cliente – va tutto bene, vorrebbe dirgli, mangi pure – ma quello ha già scordato tutto, troppo impegnato a masticare per prestare attenzione ad altro, e Ukyo deve ammettere che al di là dell’orgoglio per la bontà del suo piatto c’è anche un po’ di delusione per quella mancanza di considerazione.
Sarà per quello che si china all’altezza di Ryoga – certo che è per quello, si dice – e gli stringe il braccio all’altezza del polso, costringendolo a tirare fuori la mano dal catino, e un po’ s’impietosisce nel sentire i battiti del cuore così accelerati sotto la sua pelle bollente.
«Non così» commenta, osservando la scottatura. Due grosse vesciche si stanno già formando, una sul palmo e una sull’indice. «Mettici quell’unguento. Spalmacelo sopra e poi mettici delle bende.»
Ryoga risponde tenendo lo sguardo basso. «Grazie» borbotta, semplicemente, «Mi dispiace,» aggiunge poi.
Ukyo scrolla le spalle. «Imparerai.»
Lo vede annuire a capo chino. «Sì» dice infine, e per la prima volta non borbotta. «Imparerò.»

 
*

«Ti dico che non me la sono presa» ripete Ukyo, fissando il soffitto inclinato della tenda da campeggio.
«Ho rotto tre piatti.»
«Hai una mano fasciata. E poi li tratterrò dalla tua paga, quindi non ho davvero nessun motivo per essere arrabbiata con te.»
«Non ho consegnato l’ordinazione del tavolo sei.»
«Però hai dato una doppia porzione al tavolo tre, e quelli hanno pagato doppio, quindi l’errore è economicamente irrilevante. Anzi, è stato addirittura meglio, dato che i due del tavolo sei hanno comunque mangiato e pagato, aspettando giusto un po’ di più.»
Ryoga borbotta qualcosa di incomprensibile, e Ukyo ha ormai imparato che è davvero inutile cercare di capire quel che dice in momenti del genere, perché probabilmente si lamenta e basta, senza voler intendere nulla di più.
«Ecco, magari potevi evitare di rovesciarti quell’acqua fredda addosso, ma mi pare che nessuno dei clienti sia rimasto troppo scosso dall’accaduto. Quindi, anche in questo caso, non avrei motivo di arrabbiarmi.»
«Forse non sono portato per fare il cuoco di okonomiyaki» dice Ryoga, e Ukyo capisce finalmente qual è il motivo di tutti quei borbottii, di tutte quelle sue domande, dei lamenti trattenuti, e la ragione per cui ancora non se n’è andato. Stacca gli occhi dalla stoffa del soffitto e fissa Ryoga dritto in faccia, dritto negli occhi, anche se la sagoma del suo viso è a malapena visibile nella penombra del loro riparo di fortuna.
«Che stai dicendo?» chiede, sollevandosi sui gomiti. «Hai solo avuto un po’ di incidenti, tutto qua.»
È lui il primo a distogliere lo sguardo. «Incidenti? Sono negato e basta.»
«No, Ryoga. Sei così adattabile, e ci metti sempre così tanto impegno» ribatte lei, e nel dirlo si rende conto che quella è proprio la definizione giusta: come altro potrebbe definire qualcuno che ha accettato il rimborso di chissà quale soggiorno premio in albergo per permetterle di noleggiare la bancarella, e che poi l’ha addirittura ospitata nella sua tenda pur di non farla dormire in cucina? D’improvviso, nel pensarlo, si sente persino un’ingrata. Il viaggio, in fondo, non era un premio vinto solo da lei. Quella doveva essere una vacanza, e non un campo di lavoro.
 «Ryoga» aggiunge poi, infervorata d’improvviso da un fortissimo senso di riconoscenza, «Ti insegnerò tutto quello che so. Quando tornerai a Nerima sarai il cuoco degli okonomiyaki più buoni. Dopo i miei, s’intende. Alle ragazze piacciono gli uomini che sanno cucinare.»
Lo sguardo di Ryoga torna sul suo. «Dici davvero?»
«Sono serissima.» E non mente – come potrebbe? «E ti pagherò l’affitto del posto in tenda.»
«Non è necessario. Ti ospito volentieri. Non avevo mai avuto compagnia prima d’ora.»
La colpisce l’innocenza con cui Ryoga dice una cosa del genere, e la colpisce anche la totale mancanza d’imbarazzo che prova in quella situazione. È come se lo conoscesse da una vita intera.
«Ce la farai» conclude. «Ce la faremo.»

 
*

Quando mette piede nella bancarella, il mattino del giorno seguente, un lago d’acqua ha preso il posto del pavimento. C’è acqua dappertutto, nel vero senso della parola, e di Ryoga non c’è traccia. Dentro il lavabo di alluminio, però, nuota un porcellino nero ormai esausto.
È solo quando torna umano – dopo essersi asciugato, vestito e fasciato nuovamente le bolle sulla mano – che Ryoga tenta di spiegare la situazione come meglio può, e Ukyo lo ascolta come se non avesse dovuto rimandare di un’ora l’orario di apertura solo per poter sistemare il disastro che ha combinato.
«Ho pensato che sarei stato capace di lavare i cavoli anche da solo» dice, e di nuovo ha sul viso quell’espressione corrucciata che è diventata la più frequente da quando il viaggio è cominciato. «E infatti ci riuscivo anche con una mano sola. Un affondo ben assestato col cespo stretto in mano sul lavello pieno d’acqua e…» S’interrompe per mimare la scena. «Ho scoperto di poter essere velocissimo. Qualcosa in cui sono bravo, finalmente!»
Nel vederlo così felice proprio non se la sente di rimproverarlo per il lago per terra, per il ritardo sulla tabella di marcia, per tutto quel che ha comportato quella sua iniziativa e via dicendo. Siamo in vacanza, si ripete, e in fondo ho sempre odiato lavare i cavoli. Sa che non è esattamente la verità, ma è una bugia a cui ha tutta l’intenzione di concedersi di credere.
«Bene» commenta quindi, sorridendo. «Hai ragione, e perciò d’ora in poi quella sarà la tua mansione primaria. Lavare e affettare i cavoli.»
Lo vede abbassare la testa e arrossire, e poi grattarsi la guancia, incerto. «Starò attento a non trasformarmi mai più finché lavoro.»
Ukyo ride, e per un attimo Ryoga sembra risentirsi, e la sua incertezza dura fino al momento in cui lei apre bocca. «M’interessa di più che tu tenga l’acqua dentro il lavabo, piuttosto.»

 
*

Da quel giorno in poi le cose vanno decisamente meglio.
Ryoga, consolato dalla propria abilità nel trattare i cavoli, è meno insicuro anche in tutto il resto; in men che non si dica, quasi senza rendersene conto, comincia a studiare il modo in cui Ukyo si occupa anche di tutte le altre mansioni, compresa la miscelazione degli ingredienti. Lei, pur continuando ad insistere sulla segretezza delle proprie ricette, fa finta di niente e lo lascia guardare. Ryoga torna perfino ad occuparsi della cottura sulla griglia, anche se la prima volta si ritrova a dover mandar giù un groppo di saliva bello grosso . Evita di tornare al servizio ai tavoli; non fa per lui, si dice, ma per motivi non certo legati alla propria volontà.
È sempre Ryoga a fare le pulizie di fine giornata; non perché Ukyo non sia brava, o sia troppo stanca, ma semplicemente perché Ryoga ha notato che non è certo una delle sue parti preferite del lavoro, perciò ha deciso di accollarsela senza troppi rancori. In fondo, Ukyo non ha mai insistito perché lui torni a servire ai tavoli, né ha mai insistito su null’altro, a ben vedere.
E poi, mentre passa lo straccio sul bancone e sul bordo delle griglie, ha modo di studiare anche lei; di vedere il suo profilo sotto una luce differente da quella che la illumina per tutto il giorno, unico testimone del momento in cui Ukyo smette di essere il capo della baracca e riemergono i tratti stanchi di una ragazza che si è impegnata al proprio massimo.
Con il passare dei giorni, quello diventa il suo momento preferito.

 
*

Ryoga canticchia ogni volta che lavora al bancone.
È sempre la stessa musica, giorno dopo giorno, e quel mormorio tranquillo diventa presto parte della normalità della vita alla bancarella: lo sfrigolare della pastella sulla piastra bollente, il grattare della spatola sul metallo, il rumore sordo del coltello contro il tagliere di legno, il suono ricco delle foglie del cavolo che si staccano l’una dall’altra, liberate dalla pressione della lama, e la voce di Ryoga a ritmo dispari da quello di tutti gli altri suoni.
Ukyo osserva la sua figura immobile, le sue spalle chine in avanti, leggermente disallineate dal busto per esercitare la giusta pressione nel taglio, e forse per la prima volta vede Ryoga come un uomo, e non più solo come un compagno di viaggio, perché per la prima volta compara la sua figura con quella di Ran-chan e, oltre a papà, Ran-chan è sempre stato l’unico uomo ai suoi occhi.
Distoglie lo sguardo prima di indugiare oltre in quei pensieri, ma non riesce a distogliere l’orecchio da quella melodia.

 
*

«È un peccato che sia già l’ultimo giorno.»
Ryoga, seduto sulla sdraio dall’altra parte del palo dell’ombrellone, tiene lo sguardo fisso sulle onde che si infrangono a riva. È pacifico, molto più pacifico che durante il giorno; ma anche Ukyo lo è, e probabilmente chiunque lo sarebbe, con la pancia piena di tutto quel sushi che hanno mangiato come festeggiamento per chiudere in bellezza. Hanno trascorso una bella serata; per un attimo fugace Ukyo ha addirittura pensato di poterla considerare come un appuntamento, ma subito si è data della sciocca, perché quella era stata a tutti gli effetti più una cena di lavoro che un’uscita a due.
«Già» risponde lui blandamente, «Anche perché il mio addestramento agli okonomiyaki non è affatto completo.»
«Per quello c’è sempre tempo. Puoi venire a finire di imparare quando vuoi.»
«Quando riesco ad arrivare, vorrai dire.»
«Sì, ecco. Quando ti capita.»
«Magari ad Akane nemmeno piacciono, gli okonomiyaki.»
«Dalla frequenza con la quale viene al ristorante posso assicurarti che è l’esatto contrario. E poi te l’ho detto fin dall’inizio, è proprio una questione di principio. Alle ragazze piacciono gli uomini che sanno cucinare.»
Anche a me piacciono gli uomini che sanno cucinare, pensa brevemente, e tu sai senza dubbio come si fa, ma non trova il coraggio di dirglielo, anche se non vuole soffermarsi a studiarne la ragione. Ryoga ora la sta guardando come se avesse una domanda bloccata lì, sulla punta della lingua, e Ukyo riesce perfettamente a leggerla anche senza che lui apra bocca, perché ha come l’impressione che quello che stanno pensando in quel momento sia perfettamente allineato. Ma il discorso non va avanti, e ogni cosa si ferma nella risacca, inghiottita all’indietro da se stessa.
«Forse è ora di rientrare» conclude.
«Già» le risponde Ryoga, e si alza per richiudere la sdraio.

 
*

Di notte la temperatura scende considerevolmente anche se è estate, ed è quello il motivo per cui hanno sempre dormito al riparo della tenda ben chiusa, infagottati ognuno nel proprio sacco a pelo. Mentre fissa il soffitto di stoffa sollevarsi e abbassarsi, come se respirasse nell’aria che viene dal mare, Ukyo pensa che se non riesce a prender sonno è probabilmente per via del fastidio per la sabbia che si è accumulata col passare nei giorni sul fondo del suo letto improvvisato, infiltrandosi chissà come tra la cerniera e la fodera. Nemmeno Ryoga dorme ancora. Riesce a capirlo perfettamente dal ritmo del suo respiro, perché nel corso delle notti ha imparato a distinguere i momenti in cui è addormentato da quelli in cui fa solo finta.
Si gira su un fianco e come al solito si ritrova a fissare la sua schiena. Dorme sempre girato dall’altra parte, e non è mai riuscita a scoprire se il suo comportamento sia dato dalla forza dell’abitudine o da una presa di posizione momentanea, per mantenere un proprio certo grado d’intimità, per concederle i suoi spazi, per non sembrare inopportuno nello spiarla. Un po’ la intristisce sapere che, in tutta probabilità, non avrà mai modo di scoprirlo.
Si avvicina alla sua schiena – ora è vicina più di quanto non lo sia mai stata; più di quanto non lo sia mai stata ad un uomo, probabilmente – ma non ha il coraggio di fare altro, perciò rimane semplicemente lì, con le braccia intrappolate dalla chiusura ermetica del sacco a pelo e la fronte un po’ più vicina alle sue scapole. La sabbia tra i piedi sul fondo del letto non la lascia dormire per un altro bel po’, e nemmeno Ryoga dorme ancora.

 
*

«Io dico che ci siamo persi di nuovo.»
Sono partiti da più di mezza giornata, hanno cambiato già tre treni e un battello, e per un tratto hanno addirittura ricevuto un passaggio sul carretto di un vecchietto che, a dir suo, doveva andare verso la città. Si sono fermati per pranzare in tutta fretta, per ridistribuire meglio il peso negli zaini, per chiedere informazioni, ma ora sono fermi lì nel fitto del bosco e Ukyo non ha ben chiaro come dovrebbero procedere da lì in poi.
«Sciocchezze. Nerima è proprio dietro quella collina, te l’ho già detto.»
«Ma io non vedo nessuna collina.»
«Perché è nascosta da quell’albero di papaya.»
«Ma la papaya non cresce solo a Okinawa?»
Ryoga non sa come ribattere, perché è evidente che in Giappone la papaya non cresce davvero da nessun’altra parte oltre che nella prefettura di Okinawa, e Okinawa è esattamente nella direzione opposta rispetto a quella in cui stavano viaggiando. E, a dirla tutta, non gli è ben chiaro neppure come abbiano fatto ad arrivare nella prefettura di Okinawa in appena mezza giornata, ma non è un pensiero sul quale è felice di rimanere ad indugiare.
«Va bene, allora facciamo che da qui in poi prendi tu il comando, ok?» commenta quindi, innervosito quanto scoraggiato, abbandonando la testa all’indietro e lasciandosi cadere sotto il peso dello zaino. È stanco, e in quel bosco la temperatura è incredibilmente alta, e gli spiace di aver portato Ukyo fuori strada, perché sa bene quanto sia importante per lei tornare presto a Nerima.
«Ehi, stavo solo scherzando» gli risponde. La realtà è che ha visto, poco prima, un cartello che indicava che Naha è a pochi chilometri di lì.
«Hai un ristorante da mandare avanti e io ti sto facendo perdere tempo.»
«Oh, questo è vero» ribatte lei, perché non può negare la verità, «Però è vero anche che non ho mai provato a vendere okonomiyaki qui a Okinawa. Io dico che avremo successo. In fondo è un cibo esotico, per la gente di qui.»
Ryoga sorride a capo chino. «Sei gentile.»
«Lo dici solo perché non hai ancora idea di quanto ti farò sgobbare.»
«Oh, me lo immagino già.»
Anche Ukyo sorride, ma soddisfatta, a testa alta, e ripensa alla sabbia intrappolata nel sacco a pelo che non la farà dormire per almeno un altro paio di notti. Gli tende la mano per aiutarlo a rialzarsi, e quando la stringe indugia un po’ prima di lasciarla andare.
«Pronto a ripartire?»
«Pronto a perdermi di nuovo, vorrai dire.»
«Pronta a tutto» gli fa eco lei.



 


22.05.2016
Temo che da un certo punto in poi sia evidentissimo il mio amore dilagante per Ryoga, eh? XD
Come forse avrete notato, il titolo si rifà ad una delle frasi della storia. Penso infatti che il loro rapporto in questa storia sia un po' così, un andare e venire, un impulso e un passo indietro. Per far funzionare questi due ci vorrebbe un sacco di lavoro, altroché.
Questa storia è nata nell'ambito dell'event Sette giorni e tanti prompt organizzato da Torre di Carta. Per comporla ho seguito l'ispirazione data da tanti prompt messi in fila. Nell'ordine, sono: Tavolo; Corso di cucina; Scottarsi mentre si cucina; Fra le coperte, A fa una proposta a B; Lavabo; Straccio per pulire; Canticchiare; Ombrellone; Sabbia; A prende in giro B, ma solo per scherzo - pensa tutt'altro.
Un po' mi spiace che questi due non siano arrivati a concludere niente, ma d'altro canto sono felice del risultato, perché così è più coerente con la trama del manga, ed è un missing moment più centrato sulla storia. Vivo di sentimenti contrastanti, insomma :D
Grazie mille per aver letto fino a qui, e buona domenica <3
Kuruccha
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Ranma / Vai alla pagina dell'autore: Kuruccha