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Autore: _Frame_    22/05/2016    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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82. Il posto giusto e La persona sbagliata

 

 

11 novembre 1940, Largo delle coste di Malta

 

Inghilterra voltò la prima pagina degli appunti raccolti nel taccuino, piegò il foglio contro il blocchetto ed espose la seconda pagina alla luce del giorno. Il vento salmastro che soffiava sul ponte di volo della Illustrious fece ondeggiare gli angoli dei fogli, deformando le scritte che inchiostravano la carta. Appunti collegati a frecce indicavano le diverse componenti dell’aerosilurante Swordfish ritratto nella pagina. Una delle frecce indicava l’apertura alare e diceva: ‘Apertura alare: m 15,25. Dimensioni ad ali spiegate: m 10,90x5,25x3,75’. Inghilterra fece scivolare il pollice verso il basso, sfregando la carta. Toccò l’insegna da cui partiva un’altra freccia. ‘Motore Bristol Pegasus 30 da 759 HP’.

Inghilterra inclinò leggermente il foglio, sollevando un angolo dal blocco di appunti, e una ventata d’aria al profumo di mare e carburante gli fischiò nelle orecchie, agitando i capelli, le maniche della giacca e gli appunti.

Toccò il siluro raccolto nel carrello dello Swordfish, lungo metà della fusoliera. L’insegna che lo indicava con la freccia era cerchiata tre volte dal tratto della stilografica nera. ‘Armamento di caduta: 1 siluro da 455 mm o bombe per 680 kg’.

Inghilterra chiuse gli occhi continuando a passeggiare lungo il ponte di volo della portaerei. Tolse una mano dal blocco di appunti, distese il braccio lungo il fianco e divaricò le dita come se stesse reggendo una grossa mela. Inspirò a fondo il freddo e pungente vento marino che gli carezzava i capelli e pizzicava sulle guance, trattenne l’aria nei polmoni. La mano si strinse, raccolse un globo di energia che scaldò il pugno fino a farlo formicolare.

“Sorreggo,” sussurrò Inghilterra. Inclinò il braccio, ruotò il polso, e chiuse il pugno fino a sentire la pressione delle unghie contro il palmo. Le nocche diventarono bianche.

Visualizzò lo Swordfish che ronzava nel cielo notturno di Taranto. L’energia dell’aerosilurante incanalata nel suo pugno, i movimenti della sua mano che lo guidavano come un burattino appeso ai fili, le inclinazioni del braccio che gli facevano ruotare le ali, la pressione delle dita che lo faceva accelerare e ronzare più forte.

Sussurrò ancora. “Dirigo.” La voce soffiata via dal vento.

Inghilterra restrinse la proiezione mentale, concentrò la vista solo sul siluro abbracciato alla pancia dello Swordfish immaginandoselo avvolto dall’aura di energia proveniente dal suo pugno.

Sollevò il mento e inspirò ancora, riempiendosi il petto di aria fredda.

Il pugno si mosse. Fece lo stesso movimento di quando si sbriciolano delle noccioline fra le dita.

Inghilterra abbassò la fronte. Le labbra si mossero lentamente, rilasciarono un soffio di fiato. “E sgancio.” Spalancò le dita, distendendole fino a sentire la pelle bruciare e la mano tremare.

Dalla proiezione dello Swordfish che ronzava nella sua mente, il siluro si sganciò dalla fusoliera e precipitò a terra, inclinò la punta verso il basso, l’aria disegnò una spirale attorno alle eliche sulla coda, e fischiò cadendo al suolo. Una spessa vampata di fuoco e calore disciolse l’immagine mentale.

Inghilterra sollevò un sopraciglio, tenendo le palpebre abbassate, e agitò le dita per sciogliere il formicolio che prudeva come un pugno di scintille di fuoco. I movimenti di sgancio dei siluri sono opposti a quelli dei bombardamenti. Aggrottò la fronte, irrigidì le dita. Dovrò stare attento a non fare confusione.

Inghilterra riaprì gli occhi, sollevò lo sguardo dagli appunti.

Il sole era basso, il disco rotondo era a pelo dell’acqua e il suo riflesso si stendeva come un tappeto oscillante lungo il mare increspato da onde. Uno dei raggi schizzò verso la torre di controllo della Illustrious, scintillò sulla punta di uno dei tralicci metallici, e abbagliò il viso di Inghilterra.

Inghilterra sollevò un braccio e si riparò gli occhi, socchiudendo le palpebre.

Le ombre dei ventuno Swordfish – due file parallele sui lati del ponte di volo – crescevano verso di lui, allungate dal riflesso del sole all’orizzonte che stava per essere inghiottito dal mare.

Inghilterra abbassò il braccio dalla fronte e infilò la mano in tasca. Intrecciò le dita a una fredda catenella di metallo ed estrasse un orologio da taschino. Spinse il pollice sul bottone a rotella, il coperchio si aprì con uno scatto e svelò il vetro dell’orologio. Una scintilla di sole batté sul rigonfiamento e scivolò giù, rivelando la lancetta dei secondi che batteva regolare. Le sedici e trentacinque. Lo richiuse con uno schiocco e lo rinfilò in tasca.

Riabbassò gli occhi sugli appunti, afferrò una pagina che stava volando via per un’ondata di vento, e girò il foglio raffigurante le sezioni dello Swordfish che aveva appena ripassato. Nella pagina successiva, una piccola mappa raffigurava una porzione del Sud Italia, sezionata poco sopra Napoli. Un triplo cerchio racchiudeva l’isoletta di Malta, a margine del foglio, sotto la Sicilia. Una freccia partiva dal bordo dell’ovale, schizzava verso l’alto, sfiorava la destra della Sicilia, tagliava la Puglia immergendosi nel Mar Ionio, e indicava un secondo cerchio calcato tre volte che si chiudeva sulla scritta ‘Taranto’.

Inghilterra restrinse gli occhi. Un’ombra più fredda e scura si stese lungo il ponte della portaerei, il vento soffiò più forte, fece sventolare i capelli contro la fronte, le maniche attorno ai polsi e il colletto della giacca dietro la nuca.

La scritta di Taranto sembrava pulsare di vita all’interno del foglio di carta.

“Signore.”

La voce improvvisa lo fece sobbalzare. Inghilterra si strozzò con il suo stesso fiato, accartocciò le dita sugli orli della pagina e per poco non si morse la lingua.

Si voltò. Una lieve sbavatura di allarme gli sfumava il volto in tensione.

L’ammiraglio batté i tacchi a terra e s’irrigidì in un saluto. La mano tesa contro la fronte, i gradi illuminati dalla bassa e forte luce del sole riflessa dal mare scintillavano sulle spalline della sua uniforme.

“Siamo ancorati, signore. Lo stormo aereo è già in fase di preparazione.”

Inghilterra rasserenò il volto. Un raggio di sole strisciò lungo la sua spalla e gli scaldò la guancia. Annuì. “Ottimo.” Tornò a voltarsi e si immerse nell’ombra allungata dalla torre di controllo che si impennava contro il cielo rossiccio. Richiuse il blocco di appunti, aprì un lembo della giacca e infilò il taccuino nella tasca interna. “Lo stormo dei Glenn Martin ha già fatto rapporto?”

I passi dell’ammiraglio lo seguirono stando alle sue spalle. L’ufficiale annuì. “Sissignore, ma non c’è nulla da segnalare. Il porto di Taranto è scoperto, le navi sono tutte ormeggiate e il tempo è favorevole. Non si avvistano né ostacoli marini né nuvole all’orizzonte.” L’ammiraglio resse la frontiera del copricapo e sollevò lo sguardo al cielo, stringendo anche lui le palpebre e increspando le rughe attorno agli occhi per farsi ombra. “Sarà una notte limpida e di luna piena.”

“Molto bene.”

L’ombra scivolò via dalla base della torre di controllo, rischiarì la porticina blindata che portava alla camera di comando. Inghilterra intrecciò le mani dietro la schiena e prese un’ultima boccata di quell’aria fresca e refrigerante che sollevava uno strato di brividi lungo la pelle e pizzicava all’interno della gola e del petto. Si preparò dal affrontare l’ambiente chiuso, buio e denso della camera di comando.

“Tenetevi pronti,” disse all’ammiraglio. “E assicuratevi che gli Swordfish abbiano i serbatoi pieni, ma che partano a motore spento come avevamo prestabilito. Dovranno accenderli solo durante il viaggio di ritorno.” Si fermò davanti alla porticina d’acciaio. Era poco più alta della sua testa. Ombre nere si incanalavano all’interno del metallo scintillante. Inghilterra voltò la guancia e scoccò una dura occhiata all’ammiraglio, a sopracciglia aggrottate. “È tutto chiaro?”

L’ammiraglio impietrì sull’attenti e sollevò il mento. “Chiarissimo, signore.” L’ombra del copricapo gli nascose la luce degli occhi brillanti di determinazione.

Inghilterra annuì e si voltò. Fronteggiò la porta blindata, raccolse le maniche della giacca attorno ai polsi, ed estrasse un paio di guanti neri dalle tasche. “Buona fortuna, ammiraglio.” Infilò il primo guanto, lo tirò verso il basso facendo luccicare la pelle nera. “Lo riferisca anche ai piloti.”

L’ammiraglio mostrò il petto all’infuori. Inspessì il tono di voce. “Buona fortuna a lei, signore.”

Inghilterra indossò anche il secondo guanto. Mosse le dita accanto al viso, sentendo il cuoio morbido scricchiolare assieme alle giunture delle ossa. Serrò il pugno, caricò l’energia dentro il petto, trattenne il fiato.

Era pronto.

 

.

 

Le luci sul tavolo di comando lampeggiavano nell’oscurità, i colori si alternavano, facevano brillare diversi punti segnati sulla mappa. Viola, giallo, verde, rosso e azzurro. Sottili blip provenivano dalle torrette circostanti in cui erano incastonati i radar che coloravano le pareti buie della camera di una forte sfumatura verde. Le linee dei radar ruotavano raschiando l’area ovale, libera da interferenze, e lampeggiavano solo a giro completato.

Blip, blip, blip.

Inghilterra rilasciò il respiro che aveva trattenuto una volta sigillata la porta blindata della camera di comando. Inalò l’aria pregna di odore di chiuso e di metallo che appesantiva i polmoni, serrò i pugni contro i fianchi sentendo gemere la pelle dei guanti, e avanzò verso il tavolo lampeggiante.

 Sul tavolo di comando era stesa la stessa mappa che aveva ripassato sugli appunti. La porzione tagliata del Sud Italia, da Napoli in giù fino all’isola di Malta. Le insegne di Malta e Taranto erano più spesse rispetto alle altre. Un piccolissimo bulbo di vetro emergeva sotto l’insegna di Taranto. Era da quella piccola lampadina che i colori si alternavano. Viola, giallo, verde, rosso e azzurro. Faceva pulsare il nome della città.

Una scintilla color argento brillò sul ripiano d’acciaio sistemato di fianco al tavolo di comando. Inghilterra allungò una mano verso il ripiano e raccolse uno dei ventuno aerosiluranti Swordfish disposte in due file parallele. Lo rigirò. Aprì la mano, lo mise in piedi, carrello e siluro rivolti contro il palmo, muso verso la punta del suo dito indice. L’elica del piccolo aerosilurante compì un giro e si fermò, giacendo immobile.

Il modellino era grande quanto un palmo. Inghilterra lo soppesò. Molto più leggero di uno Spitfire o di un Hurricane.

Strinse la mano e lo racchiuse fra le dita, lasciando che l’apertura alare uscisse dalla presa. Squadrò i rimanenti venti Swordfish sul piccolo ripiano d’acciaio, più una fila di cinque aerei bengalieri e altre due file di cinque bombardieri ciascuna che erano allineate vicino ai siluranti.

Inghilterra arricciò un amaro sorriso che si infossò nella guancia colorata del verde dei radar.

Niente secchiate, questa volta, si disse, ripensando al suo braccio che si immergeva sotto il tavolo e che raccoglieva le manciate di aerei da scagliare contro gli attacchi di Germania sul cielo della Manica.

Inghilterra tornò alla mappa. Piegò dietro la schiena il braccio che reggeva lo Swordfish, tenendo bene strette le dita attorno all’aerosilurante, e allungò la mano libera sopra il tavolo, ricoprendo l’insegna ‘Malta’ con la propria ombra. Unì pollice, indice e medio sopra la scritta, a formare un piccolo becco con le dita, e schiuse i polpastrelli, ingrandendo la mappa e allargando la visuale attorno all’isola.

Nove segnali luccicavano di bianco a largo della costa. Uno più grande al centro, quattro più piccoli a destra e quattro a sinistra.

Inghilterra tese un indice e toccò il rigonfiamento rotondo della lampadina al centro, quella più grossa. La luce aumentò come una fiamma a cui hanno gettato addosso uno spruzzo di alcol.

Blip!

Un’insegna bianca si stese accanto alla spia luminosa, lungo la superficie del tavolo di comando.

‘HMS Illustrious R87’.

Inghilterra fece scivolare l’indice sulla destra della portaerei e toccò le quattro lucette più piccole che brillarono come quella che rappresentava la Illustrious.

Comparirono i quattro nomi dei cacciatorpediniere: ‘Hiperion’, ‘Hasty’, ‘Ilex’, ‘Havock’.

Andò a sinistra. Toccò la luce di un incrociatore alla volta.

‘Glasgow’, ‘Gloucester’, ‘Berwick’, ‘York’.

Sollevò l’indice, portò il braccio dietro la schiena e intrecciò le dita, raccogliendo il modellino di Swordfish nel guscio formato da entrambe le mani.

“Incrociatori e cacciatorpediniere di scorta regolarmente disposti. Portaerei Illustrious coperta da eventuali attacchi aerei.”

Una scia di polverina viola sfrecciò sopra la mappa e lasciò piovere una cascata di scintille che si volatilizzarono poco prima di toccare il tavolo. La fatina ronzò sopra la spalla di Inghilterra ma non si sedette e non posò nemmeno i piedini. Appuntò qualcosa sul suo taccuino con la scheggia di grafite, il vento alzato dal volo costante delle sue ali da libellula sventolò i capelli di Inghilterra.

La piccola premette il punto alla fine della frase appena scritta. “Segnato,” disse, e atterrò con i piedini nudi sulla sua spalla, chiudendo le ali.

Inghilterra sfilò la mano destra da dietro la schiena e tenne le dita strette attorno al corpo dello Swordfish. Lo portò davanti al viso, rigirò il modellino esponendolo alla luce dei radar. L’abbraccio verde scintillò sulla punta dell’elica, la scia di luce percorse la fusoliera e morì all’altezza della coda, senza toccare il siluro racchiuso dal carrello.

Inghilterra restrinse le palpebre, l’ombra delle sopracciglia creò zone più scure sotto la fronte. Una mascherina nera attorno agli occhi che brillavano di verde come i radar delle torrette. “Solo ventuno colpi disponibili.” Girò lo Swordfish di lato. Espose il siluro in miniatura alla luce artificiale e lo mosse a destra e a sinistra, facendo traballare il riflesso verde sulla sua superficie. “Solo ventuno colpi e un bersaglio immobile.”

I battiti del suo cuore si sincronizzarono con il ritmico e regolare blip delle torrette. I respiri lenti, il corpo rilassato, i muscoli distesi, e gli occhi socchiusi.

Inghilterra avvicinò il modellino impugnato nel palmo e sfiorò la punta dell’elica con le labbra. Batté l’unghia sopra la cabina di pilotaggio – tick, tick –, aggrottò la fronte, la mappa e le insegne si riflessero nel lucido dei suoi occhi.

Sicuramente sarà una battaglia diversa rispetto a quelle che ho combattuto contro Germania, dove giocavo in casa e avevo dalla mia parte una scorta pressoché infinita sia di caccia che di bombardieri.

I ricordi delle lotte contro Germania sfrecciarono davanti ai suoi occhi come un flash.

Le mani arroventate che si chiudevano e si aprivano, strizzando l’aria contro i palmi e guidando i bombardamenti che facevano brillare il cielo e che impregnavano l’aria di una fitta puzza di zolfo.

Inghilterra strinse i denti, premette un canino contro il labbro inferiore.

Qui non posso permettermi di farmi guidare dall’impulso e sparare all’impazzata come quando ho combattuto quest’estate. Dovrò dosare...

Aprì di nuovo la mano. Lo Swordfish si ribaltò sul fianco, come la carcassa di un animale morto, e lasciò vedere il siluro agganciato alla fusoliera.

Inghilterra fissò solo la forma del siluro, e i battiti cardiaci accelerarono facendogli diventare il viso caldo.

Ogni singolo colpo.

Fece rimbalzare il modellino, lo riacciuffò al volo e strinse il pugno. Tese il braccio di nuovo verso il ripiano d’acciaio e lo rimise in fila con gli altri, dando un piccolo colpetto alla coda per allinearlo.

Inghilterra intrecciò le dita, tese le braccia in avanti e fece schioccare le falangi. Sciolse l’intreccio, palpeggiò l’aria come se stesse facendo scivolare le dita sui tasti di un pianoforte invisibile, e premette i polpastrelli sull’aria sopra Malta, illuminata dalle nove luci bianche. Li chiuse. Il campo si restrinse e la visuale della mappa si innalzò di nuovo su tutto il Sud Italia. Spinse le dita più avanti, sopra Taranto. Schiacciò i tre polpastrelli di pollice, indice e medio, e li allargò. Il campo si dilatò con un risucchio.

Il porto di Taranto riempì il tavolo di controllo.

Il Mar Grande sulla destra si apriva in un cerchio macchiato dall’Isola di San Pietro. Sopra la Diga di San Vito curvava la Diga della Tarantola, compiendo una parabola che racchiudeva nella sua pancia cinque luci viola. Sopra la linea dell’oleodotto, lungo lo spazio di terreno ricurvo che separava il Mar Grande dal Mar Piccolo, si schieravano cinque luci rosse. Proseguendo lungo la curva del Mar Grande, si presentavano tre luci azzurre e quattro gialle.

Ogni luce era affiancata da un’imbarcazione in miniatura incastrata nello spazio di mare, illuminata dai colori lampeggianti. Tutte le navi erano ormeggiate alla fonda.

Inghilterra fece un passo verso sinistra, fronteggiò il Mar Piccolo.

Le luci trapuntavano la costa, disposte come una collana aperta composta da perle gialle e azzurre, solo una verde. Le navi erano tutte ancorate al porto.

Uno spostamento d’aria alle spalle di Inghilterra gli agitò i capelli sulla nuca, soffiò un vento fresco dietro i padiglioni delle orecchie.

“Che tante luci colorate,” pigolò la voce del coniglietto.

Il coniglietto volante richiuse le ali piumate sul dorso e si aggrappò alla spalla sinistra di Inghilterra, quella non occupata dalla fatina.

La fatina allargò l’apertura alare e i riflessi verdi dei radar evidenziarono le venature che ramificavano attraverso la fibra trasparente.

 “Sono fatte apposta per indicare i diversi tipi di imbarcazione,” spiegò.

Si diede una spinta sulle ginocchia, schioccò un battito d’ali e volò sulla mappa. Tese una gamba, il vestito di velo ondeggiò attorno alla caviglia, e allungò le piccole dita verso una delle luci viola in fondo al Mar Grande.

“Nave da battaglia.”

Schiacciò i piccoli piedi sul bulbo di luce affianco alla nave incastonata nel mare. La lampadina di vetro brillò e la fatina si colorò di viola, come la polvere che sprigionava durante il volo. Un’insegna viola si srotolò sul tavolo da combattimento, affianco all’imbarcazione.

‘Lampo’.

La fatina fece un piccolo salto, attraversò il Mar Grande e atterrò su uno dei bulbi gialli. Lo fece brillare come se avesse innescato un pulsante di accensione.

“Cacciatorpediniere.”

Una seconda scritta riempì un quadrato di mare affianco al cacciatorpediniere.

‘Carducci’.

La fatina salì sulle punte dei piedini, fece una piroetta e allargò le ali, puntando il Mar Piccolo. Saltò dando un solo battito d’ali, e atterrò sull’unica luce verde.

“Un solo appoggio per idrovolanti.”

Blip!

Accanto all’imbarcazione in miniatura brillò la scritta ‘Miraglia’.

La fatina tornò a voltarsi verso il Mar Grande. Puntò una luce azzurra.

“Incrociatore.”

Vi saltò sopra. La luce azzurra brillò fra le pieghe del suo vestito, lungo le ciocche di capelli che ricadevano fra le ali e sulla miniatura.

‘Fiume’.

“E i pezzi forti.”

Spinse aiutandosi con una sbracciata. Schiacciò una lucetta rossa che si infiammò come una brace, avvampando lungo tutta la mappa.

“Il fiore all’occhiello della marina italiana,” esclamò la fatina.

Blip!

L’insegna rossa era più larga delle altre, riempì due quadretti, e il visetto della fatina si colorò come la maschera di un diavoletto. Gli occhi ristretti, le lunghe ciglia socchiuse, e i dentini che premevano sul labbro.

“Le corazzate.”

‘Vittorio Veneto’ si leggeva affianco alla miniatura della corazzata.

Il coniglietto fece scivolare le zampette lungo la spalla di Inghilterra e sporse in avanti il musetto, tastando l’aria con il nasino. “Non sono segnate le batterie contraeree.”

Inghilterra incrociò le braccia al petto, fece due passi di lato, percorrendo il bordo della tavolata da combattimento. “Non abbiamo avuto modo di stabilirne la posizione, ma è sicuro che ci saranno e che saranno anche attive.” Stese una mano lungo la mappa, posò le punte di due dita sul Mar Grande e le fece scivolare sopra la superficie liscia e blu della cartina segmentata. “Non appena Italia le attiverà, noi sapremo registrarne la posizione e schivarle durante il volo. E comunque...” Scoccò un’occhiata al ripiano d’acciaio dove riposavano aerosiluranti, bengalieri e bombardieri. Sorrise. “Gli Swordfish saranno in grado di evitarle.”

Un tremito di paura attraversò il morbido corpicino del coniglietto premuto contro la sua spalla. “Andrà tutto bene, vero?” Anche le zampe strette contro la scapola tremarono.

Inghilterra sollevò il mento, emise un piccolo sbuffo che gli allargò il sorriso. “Certo che sì!” Un profondo senso di sicurezza ed eccitazione frullò nel petto, come un intenso vortice di fuoco. “Abbiamo studiato l’attacco nei minimi dettagli, calcolato ogni genere di eventualità, previsto qualsiasi possibile reazione nemica.” Si girò di lato, sollevò i palmi al soffitto e scosse le spalle, indifferente e sicuro di sé. “Cosa mai potrebbe accadere di imprevisto?”

 

♦♦♦

 

Spagna correva. I movimenti delle braccia piegate contro i fianchi che oscillavano a ogni falcata accompagnavano le contrazioni del corpo che ansimava di fatica e sfrecciava lungo la strada spianata. Goccioline di sudore già imperlavano i pugni serrati, la fronte e le guance, rigavano la pelle. Nemmeno l’aria densa e fredda riusciva ad asciugarle. La bocca ansimava, la gola andava a fuoco, i muscoli diventarono pesanti come sacchi di sabbia incollati agli arti, e il fegato si contrasse in un primo spasmo di dolore.

Spagna strinse i denti, conficcò le unghie nei palmi stretti, e accelerò. I piedi volarono da terra, le suole sfiorarono la strada e caricarono la successiva falcata.   

Ti prego.

Rigettò un ansimo di fatica che si condensò in una nuvola di fiato bianco. La condensa evaporò contro la sua spalla, perdendosi in una scia sparsa lungo il cielo notturno.

Ti prego, ti prego, ti prego. Fa’ che non sia già così tardi.

Fermò i movimenti oscillanti del braccio destro, piegò il gomito di lato e portò il polso davanti al viso. Scostò l’orlo della maglia, scoprì l’ovale del quadrante che scintillò sotto la luce della luna. La lancetta dei secondi avanzò – il rumore della corsa, delle scarpe che battevano contro l’asfalto, coprì il tic-tac dei secondi –, passò oltre il numero dodici, e l’ora scattò sulle venti e trentotto.

Spagna strinse i denti, accumulò le energie verso le gambe, sentendo il flusso di calore arrivare alle piante dei piedi, e spinse una falcata più ampia, accelerando.

Aggrottò la fronte, il vento che gli soffiava in faccia spingeva i ciuffi di capelli lontani dal viso, dietro le orecchie, svelando i suoi occhi brucianti che guardavano la fine della strada.

Sto arrivando, Ita. Resisti ancora un po’.

Le luci del porto di Taranto già brillavano in lontananza, nascondevano il luccichio delle stelle trapuntate sulla distesa di cielo nero. La sagoma della luna era un faro bianco che splendeva sulla zona del porto.

Spagna trattenne il respiro. Smise di ansimare a fior di labbra e sentì il fischio del vento gridargli nelle orecchie.

Il cuore batteva di ansia, di paura. Una mandria di zoccoli scalpitava fra le costole, l’eco delle galoppate pulsava dentro le pareti del cranio. Il sangue pompava arroventandogli il corpo che infrangeva le spire di vento, infiammava le guance rosse per il freddo, formicolava all’altezza dei piedi, facendoli accelerare.

Spagna sentì la voce della sua stessa mente incrinarsi in un sospiro di speranza.

Sto arrivando a portarti via.

Stava ancora correndo, quando a Taranto scattò il primo allarme della contraerea.

 

♦♦♦

 

11 novembre 1940, Konitsa

 

Le nuvole scivolarono davanti al disco piatto e bianco della luna piena, tondo e dai contorni regolari come una forma di formaggio freschissimo. Un raggio d’argento tagliò l’aria notturna, limpida e fredda come fosse fatta di ghiaccio, e scivolò attraverso i tetti imbiancati da spessi strati di neve cristallina. Luccicarono come una distesa di briciole di diamante. Il fascio di luna colpì il manico del cucchiaio ripiegabile rimasto immerso nella gavetta di alluminio. Tracce di polenta fredda e secca si erano incollate al fondo della ciotola, fra le rientranze delle ammaccature, e sulla superficie ricurva del cucchiaio intinto in una goccia gialla e solidificata più grande delle altre.

Romano spinse il piede lungo il coperchio della cassa di munizioni su cui lui e Italia si erano stesi a dormire. La gamba scivolò in avanti, sfregò contro quella di Italia rannicchiata contro il suo ventre, e la punta consumata dello stivale toccò la gavetta, sollevando un soffice tintinnio. Le braccia avvolte attorno al corpicino di Italia, fasciate attorno al suo busto, strinsero, e le dita stropicciarono il tessuto della sua mantella impermeabile contro i palmi. Romano voltò il viso. La nuca sfregò contro la parete di cemento della casa, la fronte si stropicciò in una contrazione di fastidio, le palpebre strizzate crearono una fitta rete di pieghe che si contrassero alla radice del naso. La guancia toccò il muro, freddo e duro. Romano gemette una piccola smorfia, spinse in avanti la gamba destra che aveva già disteso, dando un colpetto alla gavetta, e richiamò contro di sé la sinistra. Il ginocchio andò a premere contro il fianco di Italia.

Italia prese un lungo sospiro insonnolito, stando addormentato, a palpebre abbassate e bocca socchiusa. Voltò il viso e premette l’altra guancia contro il petto di Romano, stringendo le braccia attorno ai suoi fianchi. Rilassò il respiro, il corpo si distese contro quello di Romano e tornò molle e pesante, assopito nel sonno. Le gambe rannicchiate contro la pancia, premute contro il busto del fratello, e le dita arpionate alla sua giacca.

Un altro gemito di dolore contrasse il corpo di Romano. La gamba destra si stese giù dalla cassa di munizioni, sfiorò il pavimento di neve con la punta dello stivale, e si scosse in un violento spasmo. Tutto il corpo tremò.

Romano strizzò le palpebre. Le ciglia vibrarono, i cristalli di ghiaccio luccicarono come piccolissime lacrime, e Romano socchiuse gli occhi. Un’ombra scura appannava il colore dell’iride. Li sbatacchiò tre volte, le ciglia batterono come le ali spezzate di una farfalla, il viso tornò a contrarsi in una smorfia che gli stropicciò il naso e la fronte. Romano girò il capo e premette la fronte contro la spalla di Italia. Gemette. Un grumo di dolore si era annodato nel petto, all’altezza del cuore, e pulsava a ogni battito.

Romano sollevò la schiena dal muro della casa, flesse le spalle in avanti, accartocciandosi contro il corpo di Italia accoccolato contro la sua pancia, e richiamò le ginocchia a sé, stringendogli i fianchi.

Il cuore pulsò. Una martellata di dolore si schiantò contro le costole. Romano sentì il battito contrarsi e il suono gutturale risalire il petto e riempirgli le orecchie.

Lo spasmo gli stritolò il busto come una gabbia fatta da rami di elettricità, lo spinse a gettare il capo all’indietro e a cacciare un gemito soffocato. Occhi spalancati, bocca contratta, corpo paralizzato.

Cominciò a sudare freddo. I rivoli di ghiaccio scesero dall’attaccatura dei capelli, scivolarono lungo le guance diventate più bianche della neve, e gli corsero lungo la schiena, infradiciandogli il corpo.

Romano sciolse la presa dalla giacca di Italia, sollevò le braccia tremanti e si strinse il petto. Lenti respiri rauchi gli gonfiavano e sgonfiavano le costole, le ossa scricchiolavano sotto la pressione dei polmoni, e la gola bruciava per l’aria fredda risucchiata fino in fondo allo stomaco. Una sua mano scese, seguì le pulsazioni di dolore e si strinse contro la pancia. L’altra risalì il petto e serrò le unghie contro la gola, lasciando quattro segni rossi all’altezza della carotide, dove la pressione del sangue si accumulava dando l’impressione che il collo stesse per esplodere.

Il respiro accelerato gonfiò spessi riccioli di condensa bianca che galleggiarono nell’aria nera, sciogliendosi contro le guance e la fronte di Romano e in mezzo ai capelli di Italia.

Romano si girò, volse il viso verso terra reggendo una mano contro la spalla di Italia e una contro l’orlo della cassa di munizioni. Un conato di vomito lo fece sbiancare ancora di più. Romano schiacciò un palmo contro la bocca e scosse Italia con il braccio libero.   

“Veneziano,” sibilò in mezzo alle dita. “Veneziano,” gli scosse ancora la spalla, “svegliati.”

Il viso addormentato di Italia, gonfio di sonno, restò appiccicato contro il suo petto, le braccia avvinghiate attorno ai suoi fianchi. Italia biascicò un mugolio, voltò la guancia e tornò a dormire. Il corpo rilassato contro quello di Romano, che invece era contratto dagli spasmi di dolore.

Romano sentì un’altra scarica di elettricità trapassargli il petto, ingabbiargli il cuore e stritolarlo in una stretta di rami roventi. Fu come un violento schiocco di frusta contro le costole. Romano ansimò. Schiacciò il palmo contro il petto e gettò le spalle in basso. Il corpo ricominciò a tremare. I sudori ghiacciati gli imbevevano la pelle sbiancata, incollavano i capelli alla fronte e alle guance, sottili gocce trasparenti colarono dalle labbra e dal mento e caddero in mezzo alla neve.

Romano si aggrappò al braccio di Italia e gli diede due strattoni più secchi e forti.

“V...” Il dolore scivolò in pancia, gli annodò lo stomaco facendo salire un altro conato di vomito che si bloccò in gola. “Veneziano, svegliati, idiota. Sto...” Strinse i denti. Stridette un guaito acuto e ondeggiante, come un singhiozzo prima del pianto. “Sto male.” Gli occhi luccicarono di dolore, la bocca tremò, fece vibrare il respiro.

Un capogiro gli appannò la vista. Il mondo si ribaltò, il suolo innevato girò su se stesso, lo sguardo puntò il cielo nero macchiato dal tondo della luna piena. Il tonfo contro la nuca arrivò dopo. Romano sbatté la testa contro la neve, scivolò giù dalla cassa ed ebbe uno spasmo che gli fece contrarre il corpo. Cristalli di ghiaccio gli bagnarono le guance, gli entrarono nelle orecchie e dentro il colletto della giacca, pizzicandogli la pelle. Romano non se ne accorse.

Un sibilo tremante scivolò fuori dalle labbra socchiuse, “Urgh”, e il petto si gonfiò di colpo, gli fece battere il suolo con una secca spinta di reni. Il dolore gli tappò le orecchie. Sciami di scintille ronzarono contro la distesa nera della notte, la lama di luce lunare lo inondò come il fascio bianco di un riflettore.

Romano si ribaltò sul fianco. Gemette contro un grumo di neve che si squagliò contro la sua guancia, e stritolò i cristalli fra le dita chiuse e tremanti. I brividi di dolore lo scuotevano come una foglia al vento.

Strinse i denti, boccheggiò, soffiando nuvole di condensa anche dalle narici, e raccolse un pugno di neve. Gettò il braccio all’indietro e lanciò il grumo contro la spalla di Italia.

“Cazzo, svegliati, sto morendo!”

Italia si era accucciato stendendosi lungo le due casse di munizioni. Le ginocchia rannicchiate contro la pancia, i gomiti chiusi contro il petto e i pugnetti stretti davanti alla bocca. La palla di neve lanciata da Romano si schiantò contro la sua spalla, sbriciolandosi in uno schizzo di ghiaccio. Italia emise una smorfia arricciando il naso, le ciglia chiuse vibrarono, e si voltò contro il muro, stringendosi come un riccio nella tana.

Romano emise un altro gemito di sofferenza e si accasciò a terra. Guancia contro la neve, mani raccolte attorno al petto, dove le scariche di dolore pulsavano a ritmo dei battiti cardiaci.

“Co...” Ingollò una sorsata di aria ghiacciata. “... sa...”

Il sudore colò giù dal viso, le gocce scivolarono lungo le guance, sciolsero la neve e gli incollarono l’uniforme alla pelle. Una martellata alla tempia gli scosse la vista, l’udito stridette come una steccata sulle corde di un violino, la neve si tinse di nero, macchie di fumo soffiarono contro le palpebre, informicolarono il volto creando un punto di pressione fra il naso e la fronte.

Romano boccheggiò contro la neve. “Mi...” Aprì e chiuse le palpebre. Il dolore svanì lentamente, sciolse il freddo dei brividi e la pressione alla testa. Il nero si espanse a macchia d’olio, avvolse il riflesso della luna piena. Romano sibilò fra i denti. “Sta...”

Sentì il corpo leggero. Perse la consistenza della neve raccolta fra i pugni, del manto di ghiaccio che aveva accolto la sua caduta, dei brividi che lo scuotevano.

Chiuse gli occhi. Esalò un breve sospiro che gli fece rilassare il corpo a terra, distendere le dita e sciogliere la contrazione delle pieghe del viso.

L’ultima cosa che vide, fu la forma della luna piena che splendeva su di lui.

 

♦♦♦

 

Le luci incastonate nella planimetria di Taranto impazzirono.

Le piccole lampadine a forma di bulbo, grandi quanto chicchi di mais, brillarono di bianco, evidenziarono le aree del porto protette dalle batterie contraeree che si erano attivate.

Inghilterra voltò il capo di scatto, abbagliato dalle luci bianche provenienti dalla planimetria. Una scossa di tensione gli attraversò le braccia, fece stringere le dita delle mani intrecciate dietro la schiena, che si chiusero attorno a uno dei modellini degli Swordfish stridendo la pelle del guanto contro la vernice. Anche il coniglietto aggrappato alla sua spalla gemette. Il pancino si contrasse, l’animaletto trattenne un sibilo di fiato che gli fece spalancare gli occhietti neri.

Inghilterra corse verso il tavolo al centro della stanza, posò il modellino di Swordfish in fila con gli altri, e aprì le mani sulla planimetria, a ridosso del mare. La fatina lo precedette. Volò sopra la mappa portandosi dietro una scia di scintille viola che evaporarono nell’aria. La piccola si sfilò la scheggia di grafite dall’orecchio, resse il blocco degli appunti davanti al petto, e puntò il tavolo con l’indice teso.

“Registrato un primo allarme scattato alle ore venti e trenta, ora locale.”

Inghilterra strinse le mani contro l’orlo del tavolo. Si sporse salendo sulle punte dei piedi, e i suoi occhi volarono dal Mar Grande al Mar Piccolo.

Le luci bianche scintillarono fra le sue pupille. Un primo schieramento di batterie contraeree brillava sopra la Diga di San Vito, andava a raccogliersi attorno all’isolotto di San Pietro e si raggruppava attorno alle cacciatorpediniere segnate dalle lucette gialle. Una spia bianca brillò anche nei pressi della Diga della Tarantola, una sopra l’oleodotto, e due nello stretto che univa Mar Piccolo e Mar Grande.

La fatina appuntò qualcosa nel blocchetto di fogli. Gli occhietti stretti e concentrati, i capelli biondi fluiti davanti al viso brillavano di bianco, come le luci. “Forse sono riusciti ad avvistare uno dei nostri ricognitori e si sono spaventati.”

Un fremito scosse il corpo del coniglietto, gli fece impennare le orecchie e spalancare le ali piumate. “Ci hanno già scoperti?” Inghilterra sentì il cuoricino del coniglietto accelerare contro la sua scapola.

Inghilterra strinse le mani contro l’orlo di legno. La pelle dei guanti gemette, sollevando un piccolo squittio.

Socchiuse le palpebre. La luce bianca sostituì quella verde che aveva creato spesse zone d’ombra sotto la fronte, attorno alle orbite degli occhi. Il cuore batteva lento e regolare, il sangue gelido fra le vene, il respiro calmo, la mente lucida, lo sguardo fermo contro la mappa. “E lascia che se la facciano sotto.” Tornò a percorrere con lo sguardo le scie di luci bianche lampeggianti. Gli occhi si fermarono sulle lampadine colorate affianco ai modellini delle imbarcazioni incastonati nel mare. Prese un piccolo respiro. “Se ormai siamo stati stanati, tanto vale uscire completamente allo scoperto.” Staccò le mani dal tavolo, raddrizzò le spalle, lisciò le maniche della giacca, e sgranchì le dita ammorbidendo la stretta dei guanti. Piegò un angolo della bocca verso l’alto, infossò un sorriso nell’ombra della guancia. “È arrivato il mio turno.”

Fece un passo all’indietro. Tese le braccia in avanti, stendendo la loro ombra lungo il territorio di Taranto, fino all’estremità opposta della planimetria, e sovrappose il palmo della destra al dorso della sinistra, incrociando le mani.

Inspirò, espirò. La luce bianca delle lampadine sulla mappa e quella verde che brillava dalle torrette radar gli illuminarono le palpebre chiuse. Il coniglietto diede un rapido battito d’ali e volò via dalla sua spalla, restando sospeso in aria.

Inghilterra socchiuse le labbra ancora piegate in quel mezzo sorriso di eccitazione che gli faceva solletico allo stomaco e informicolava il sangue che correva attraverso le braccia.

“Arrivo, Taranto.”

Le mani strisciarono, le braccia si spalancarono, tagliando l’aria in due.

Un fascio di luce avvampò dall’interno del tavolo, brillò come una fiammata, ingoiando la camera di comando.

 

.

 

11 novembre 1940, Porto di Taranto

 

Il vento vorticò attorno al suo corpo appena materializzato, gli agitò i capelli, pizzicò sul viso, e fece sventolare le maniche attorno alle braccia ancora spalancate.

Inghilterra inclinò verso il basso le punte dei piedi, le suole scesero e premettero nel vuoto. Sotto di lui, l’intero porto di Taranto racchiuso nei due bacini del Mar Grande e del Mar Piccolo. I riflettori disposti lungo le coste sparavano i coni di luce verso il cielo, brillavano contro le superfici metalliche delle imbarcazioni e sui teli dei palloni frenanti che galleggiavano sopra l’acqua. L’allarme della contraerea ululava attraverso l’aria della notte, le sirene spargevano le loro grida ondeggianti che facevano vibrare le orecchie.

Inghilterra alzò i palmi avvolti dalla pelle dei guanti e li schiacciò contro i padiglioni, tappandosi l’udito.

“Quanto chiasso,” disse con una smorfia.

Una folata di vento al sapore di sale lo investì. La corrente d’aria rimase viva e sguazzante, gli scompigliò i capelli e fece oscillare la giacca dietro la schiena. Era fredda, gli pungeva le guance e la punta del naso.

Inghilterra spinse di più le mani contro le orecchie, riparandosi dalle sirene che non avevano smesso di gridare, e fece un passo indietro. Esitò. Il piede tornò a posarsi nel vuoto prima sulla punta, e il ginocchio ebbe un fremito, un sottilissimo brivido di paura. La suola schiacciò a terra anche il tallone, si adagiò come su una lastra di vetro. I muscoli si rilassarono, Inghilterra riprese a respirare, sollevato.

Guardò in basso.

I coni di luce impennati dai riflettori si incrociavano fra loro, creavano fasci più forti e luminosi che stendevano le ombre delle file di palloni frenanti lungo la superficie di mare nero. Si trovava sopra il Mar Grande. Riconobbe a destra la Diga della Tarantola che proteggeva le navi da battaglia. Inghilterra restrinse gli occhi – puntò subito la più grande di tutte, la Cavour. Le corazzate si disponevano lungo la curva che conteneva il Mar Grande, una strisciolina di terra che lo separava dal Mar Piccolo, e affianco a loro, dietro la seconda fila di palloni frenanti, un sistema di tre reti proteggeva la Fiume, la Zara e la Gorizia.

Inghilterra lasciò stendere le labbra in un fine sorriso che brillò, abbagliato dalle luci dei riflettori. I capelli scossi dal vento oscillarono contro le mani guantate schiacciate sulle orecchie.

“E pensare che non ho neanche cominciato.”

Fece un secondo passo all’indietro e sollevò lo sguardo. Una singola nube, sottile come un velo di seta scivolò sopra la luna piena e ne scoprì la luce. Ombre grigie si infossavano nei crateri che ne scavavano la superficie, i rilievi dall’astro erano così spessi e definiti che gli parve di poter allungare la mano e di raccoglierlo dal cielo, staccandolo come un adesivo.

Una folata di vento più forte lo spinse a riabbassare lo sguardo, i capelli gli finirono in faccia. Inghilterra lasciò scivolare le mani dalle orecchie – il chiasso degli allarmi arrivò come una trapanata in mezzo al cervello – e sciolse la tensione delle dita, facendo finta di schizzare via l’acqua dalla pelle. 

“Dunque...”

Incrociò le mani, stese le braccia, e le falangi scricchiolarono. Affilò il sorriso.

“Vediamo se il mio avversario avrà il coraggio di mettere piede su campo.”

Sciolse l’intreccio di dita, tornò a spalancare le braccia spianando l’aria con i palmi, e la miniatura del tavolo da combattimento si stese davanti ai suoi occhi. Le piccole lampadine a forma di bulbo lampeggiarono come sulla tavolata, segnalavano le contraeree. Le loro luci si accendevano e spegnevano seguendo il grido ondeggiante delle sirene d’allarme. Le file di aerei – Swordfish, bengalieri e bombardieri – galleggiavano sulla sinistra della mappa, disposti in colonne parallele come nella sala di comando.

Inghilterra tenne un braccio teso davanti alla mappa, la manica agitata dal vento, e unì i polpastrelli di pollice e medio al centro del mare. Schiacciò le dita, la pelle dei guanti stridette, e le separò in un gesto secco.

La mappa si ingrandì. Lo trasferì in basso, verso la superficie.

 

.

 

Spagna si immerse dentro le luci del porto. Corse verso la banchina che sfilava a confine del mare, vedendo già le sagome delle imbarcazioni galleggiare sulla superficie dell’acqua nera in lontananza. La forma della luna oscillava fra le onde come un disco di carta, tingeva di bianco i riflessi immobili delle navi ancorate.

Gli allarmi già urlavano, le sirene squarciavano l’aria del porto, vibrando contro i padiglioni delle orecchie. Brividi di tensione gli accapponarono la pelle come tante scosse elettriche.

Spagna gettò lo sguardo al cielo senza smettere di correre. I capelli volarono lontani dal viso, liberarono la luce degli occhi spalancati sui quali si specchiavano le colonne di luce dei riflettori.

Schiuse la bocca senza riuscire a urlare.

Oh, no!

Il porto si aprì. La banchina abbagliata dalla luce terminava con la distesa di mare nero sui cui strisciava il riflesso della luna piena. La luna era un sole in quel porto illuminato a giorno. La sua luce e quella dei riflettori stendevano le ombre dei palloni frenanti impennati verso il cielo.

Spagna strinse i denti, accelerò, i polmoni scoppiavano, le gambe pulsavano di dolore.

Inghilterra è già qui! Sono arrivato tardi.

Spagna attraversò la banchina, corse verso il mare. Boccheggiò un fiato denso e bianco durante le ultime falcate, e si gettò contro la balaustra che affacciava sull’acqua. Si aggrappò con le mani al bordo di ferro, salì con i piedi fra le sbarre orizzontali, e piegò le spalle, guadagnando rauche e vibranti boccate di fiato gelato. La gola bruciava, pancia e petto pesavano, si sgonfiavano e gonfiavano fino a fargli sentire la pelle tirare per lo sforzo, e il fegato pulsava sotto le costole, lasciandolo senza fiato. Spagna spinse una mano sulla fronte lucida di sudore, si tolse le ciocche di capelli bagnati dalla pelle, e sollevò lo sguardo. La vista tremava, l’immagine del mare rischiarito dai riflettori oscillava a destra e a sinistra, le navi si sdoppiarono e tornarono a unirsi, le grida d’allarme delle sirene gli sovrastarono i pensieri. Aveva la testa affogata in uno scuro vortice di confusione, brividi di paura, freddo e fatica gli scuotevano il corpo che traballava contro la balaustra.

Dove sarà Ita?

Scosse il capo. Si resse le ciocche di capelli arruffati dal vento e dal sudore, e guardò a sinistra. I riflettori si agitavano in lontananza, a ridosso della diga, e le forme delle navi si ergevano sotto i cavi dei palloni. Il vento gli finì in faccia, odorava di mare e di carburante, lo spinse a voltare la guancia. Spagna guardò a destra. Navi e riflettori. Il porto si infossava nelle ombre dei moli che scorrevano come lingue di cemento attraverso l’acqua.

Oh, Dio, ti prego...

La paura lo assalì alla gola, come un paio di mani artigliate che lo stritolavano da dietro.

Spagna deglutì. Gli occhi spalancati, lucidi di panico, corsero di nuovo lungo la banchina del porto. Il cuore galoppava di fatica e di terrore, il suono gutturale del sangue pompato attraverso le vene pulsava nella testa ancora più forte di quello acuto e stridente delle sirene.

Non dirmi che lo ha già...

Tu?

Non riconobbe subito la voce. La sentì squillare dall’alto, sopra la sua testa, e gettò il capo all’indietro, impennando la fronte verso il cielo della notte.

Il getto di vento spazzò via uno sbuffo di fumo che scivolò davanti alla sagoma di Inghilterra. Inghilterra era in piedi, le suole premute sull’aria, le gambe dritte, le spalle larghe, le braccia stese lungo i fianchi e i pugni serrati, tanto da far vedere il lucido della pelle dei guanti. Un alito di vento salmastro gli mosse le ciocche bionde davanti alla fronte, le punte di capelli danzarono davanti agli occhi fiammeggianti, furenti di rabbia, e nascosero le pieghe del viso contratto dall’ira che gli teneva i denti stretti e stridenti. Un angolo della bocca si torse verso il basso, scoprì la luce appuntita del canino che spinse contro il labbro. Lo schiocco della mandibola arrivò secco e duro.

Inghilterra pestò un passo verso il basso, come stesse camminando su una gradinata invisibile, e si avvicinò a Spagna, stando sospeso in aria. Gettò un braccio in avanti, scagliandogli l’indice addosso, e un’aura color fuoco fiammeggiò attorno alla sagoma del suo corpo.

“Che dannatissimo diavolo ci fai qua, tu?”

Fumava di rabbia. La sua voce aveva gridato più delle sirene.

Spagna sentì le mani prudere e lo stomaco bruciare. Strinse i denti e soppresse un ringhio fra i molari che gli fece vibrare la gola. Una fiamma nacque anche dentro il suo petto, sciolse la fatica che gli aveva ghiacciato i muscoli e il respiro. Gli occhi sbarrati dalla paura si assottigliarono, ombre scure circondarono le orbite e accentuarono il colore delle iridi che si era rifatto vivo e acceso. Spagna serrò le dita attorno alla balaustra, impennò le punte dei piedi, e lanciò un grido al vento, verso Inghilterra.

“Dov’è Ita?”

Inghilterra lo ignorò. Si girò di profilo, serrò le mani contro le tempie, stringendo le dita contro i capelli, e gorgogliò un gemito di nervosismo. “Non ci posso credere, tu...” Ingollò un’imprecazione in fondo allo stomaco che ribolliva come un calderone. Strinse di più le dita contro la testa, riuscì a graffiarsi nonostante i guanti. “Tu, come hai fatto a...” Le pupille si slargarono come ventose, affogarono in un flash che lo riportò a qualche settimana prima.

Il sotterraneo che odorava di chiuso, la penombra soffusa, i fascicoli, le cartelle sigillate, il titolo stampato: ‘Operazione Judgement’, le schede degli Swordfish, la lista dei piloti, lo sguardo di Francia che seguiva i movimenti del suo indice che scorreva su...

Il suono delle sirene e il profumo del vento marino che si mescolava a quello del cantiere navale lo trascinarono di nuovo a Taranto.

Inghilterra socchiuse la bocca, spalancò gli occhi, trattenne il respiro. I capelli ondeggiarono sul viso sbiancato.

“Francia.”

Il fuoco ristagnante nel petto tornò a fluire lungo le braccia, le fiamme si raccolsero in mezzo ai pugni gettati contro i fianchi, bruciarono i palmi.

Inghilterra strinse così tanto i pugni che pensò che i guanti si sarebbero sciolti.

Io giuro che lo strozzo.

Morsicò il labbro inferiore, i denti vibrarono. Lo sguardo assente e puntato nel vuoto, avvolto da un oscuro velo di rabbia, si illuminò sotto una scossa di odio. Le fiamme negli occhi colorarono le guance toccate dai capelli sventolanti.

Gli tirerò il collo come un tacchino, fosse l’ultima cosa che faccio. Se ora andrà tutto a puttane per colpa sua, io –

“Che cos’hai fatto a Ita?”

L’urlo di Spagna lo scosse. Inghilterra scrollò la testa, cacciando via la sua stessa voce che strideva di rabbia fra le pareti del cranio, e abbassò lo sguardo.

Spagna si sporse dalla balaustra, reggendosi con le mani sulla prima sbarra. Gli occhi duri e accusatori puntati contro quelli di Inghilterra. “Dimmelo, Inghilterra!”

La rabbia si sciolse, fluì fuori dal suo corpo come il fumo di una condensa che si spande nell’aria fredda.

Inghilterra sollevò le sopracciglia, distese i tratti del viso che tornarono a brillare solo della luce dei riflettori, e lanciò a Spagna un’occhiata di scherno. Sollevò i palmi al cielo e si strinse nelle spalle.

“Guarda che devo ancora cominciare.”

Spagna ricambiò lo sguardo d’odio. I capelli agitati dal vento gettarono ombra davanti ai suoi occhi.

Inghilterra annodò le braccia al petto, sollevò il mento, e aggrottò la fronte. Dovette di nuovo urlare per passare sopra le sirene degli allarmi. “E comunque non sono affari tuoi, dannato ficcanaso!” Fece ancora un passo verso il basso, camminando sulla gradinata invisibile. Le mani strinsero sugli avambracci incrociati. Il viso rosso di rabbia. “Possibile che non impari mai a riconoscere quando è il caso che tu te ne stia –”

“Non me ne vado da qua se prima non trovo Italia,” esclamò Spagna. Si riempì di nuovo il petto d’aria, indurì lo sguardo, e sollevò un pugno al cielo, scuotendolo. “E poi ti butterò giù da lì, così non riuscirai a...”

Un lampo di luce improvvisa esplose sulla banchina del porto, fece girare lo sguardo a entrambi. Puntarono la destra di Spagna e la sinistra di Inghilterra.

Il vento generò una spirale di polvere luminosa che si materializzò alla base di uno dei moli che si spingevano dentro le acque del mare come lunghe lingue di cemento. Il fumo di luce si inspessì, divenne un turbine gonfio e spumoso avvolto attorno a una sagoma scura, rannicchiata sulla banchina. Le luci dei riflettori lo abbagliarono, colorarono il fumo di bianco lasciando vedere il riflesso dell’ombra nera al suo interno.

Inghilterra scattò sulla difensiva. Risalì il cielo di un passo, avvolto anche lui dal vento che aveva ripreso a ululare come le sirene. Tese un braccio in avanti, rivolse il palmo verso il basso, e spianò lo spazio d’aria come se avesse spalmato una manata di tempera. La planimetria di Taranto si stese davanti a lui, brillando. Il campo di battaglia riprese a lampeggiare sotto le spie bianche della contraerea.

Spagna allentò la presa dei pugni attorno alla balaustra. La tensione scivolò via dalle braccia, risalì il petto e si accumulò nel cuore, facendolo battere di ansia e di speranza. Spagna slargò le palpebre. “Ita?” mormorò. Posò un piede giù dal primo gradino della balaustra e fece un passo in avanti, senza scollare la mano sinistra dalla sbarra, e si pietrificò. Il cuore in gola, il viso bianco, un accenno di sorriso raggelato sulle labbra socchiuse.

Il turbine di fumo si abbassò, le spire si srotolarono come tentacoli, toccarono il suolo di cemento e si sciolsero, assottigliando la barriera di luce attorno alla sagoma.

Inghilterra aveva ancora il braccio teso sopra la planimetria del porto. Strinse il pugno, lo riaprì, lo chiuse di nuovo, scricchiolando le giunture delle dita. Aggrottò le sopracciglia. “Allora è davvero stato trasportato qui.” Il vento che gli soffiava in faccia scopriva le guance bianche, colorate dai riflessi degli allarmi in miniatura che continuavano a lampeggiare.

Il fumo scese dal corpo della sagoma. Svelò la testa china fra le spalle, i capelli che cadevano davanti alla fronte, le ginocchia premute contro il cemento, i gomiti flessi, gli avambracci adagiati sulla banchina, e i pugni stretti, sfiorati dalle punte della frangia che gli nascondeva gli occhi. Gli ultimi soffi di fumo erano uno strato di velo bianco che appannava i lineamenti del corpo accucciato a terra.  

Inghilterra sollevò un sopracciglio. Socchiuse la bocca, una scintilla di sospetto balenò fra le pupille. “Ma...” Non riuscì a sbattere le palpebre o a emettere fiato. Gli occhi bruciarono, assaliti dal vento salmastro, e riflessero la forma del corpo appena materializzato in mezzo al fumo.

Spagna fece un altro passo avanti, fermò il piede tenendolo sollevato sulla punta, e divenne di pietra. Le labbra socchiuse si appiattirono, il viso sbiancò, le pupille si restrinsero negli occhi larghi e lucidi, profondi segni scuri bordarono le palpebre, gettando ombra nel suo sguardo. La bocca tremò. Non passava un sibilo, il cuore si era fermato, precipitato nello stomaco.

Il fumo si dissolse come il telo di un palcoscenico che si ritira. Scoprì i lineamenti della figura ancora piegata a terra, china sui gomiti e sulle ginocchia, a testa bassa.

Spagna spinse le mani tremanti contro la bocca. “No,” sussurrò, bianco in viso più della luna incollata al cielo. La voce scivolò fra gli spazi delle dita gelide e vacillanti, terminò in un respiro soffocato dal peso che premeva sul cuore. “No,” ripeté. Il tono più rauco e addolorato. Le dita scesero dalla bocca, restarono sospese e tremanti davanti al viso. “Non è possibile.” Gli occhi di Spagna si gonfiarono. La fioca luce di speranza si spense, lasciò le orbite affogate in uno scuro baratro di disperazione.

Inghilterra si mise una mano fra i capelli. “Non ci credo.” Incavò uno storto sorriso di scherno che gli fece vibrare la voce, ma gli occhi brillarono di confusione. “Quello è...”

Romano scosse la testa. Sollevò un braccio, si diede la spinta sulla mano che restò chiusa a pugno e premuta a terra, e si mise sulle ginocchia, squagliando l’ultimo alito di fumo che gli aleggiava attorno. Strinse il viso, sfregò le dita contro la nuca. “Ghn.” Emise un guaito sofferto. “Cazzo, che male alla testa.”

Le voci di Inghilterra e Spagna si sovrapposero, più squillanti delle sirene.

Romano?

 

.

 

Romano sfregò le dita fra i capelli, massaggiò la base della nuca, sciolse il dolore che si era accumulato fra le pareti del cranio, e stropicciò le palpebre. Strizzò gli occhi, le luci dei riflettori erano arrivate come una martellata in mezzo agli occhi, e scrollò la testa, scacciando via il fastidio degli allarmi che perforavano le orecchie.

“Mhmf,” biascicò.

Sentiva freddo sotto le ginocchia e sotto le nocche ancora premute a terra. La testa girava, un cerchio di confusione stringeva attorno alle tempie, gli allarmi crescevano e si ritiravano come la risacca di un’onda, riempiendogli l’udito e dandogli un senso di nausea.

Romano fece scivolare le dita dai capelli, aprì le mani e le schiacciò contro le orecchie. Strizzò gli occhi, le estremità delle sopracciglia si aggrottarono alla radice del naso.

“Cos’è tutto questo casino?”

L’odore forte e pungente del mare gli pizzicò il naso. L’aria fredda e umida gli riempì i polmoni, il petto si fece pesante, il respiro più difficile da ingollare.

Romano fece scivolare una gamba lungo il cemento, sollevò il ginocchio, schiacciò il piede a terra, e diede una spinta verso l’alto. Barcollò, i muscoli tremarono di fatica. Romano staccò una mano dall’orecchio e tese il braccio di lato per mantenersi in equilibrio. Incrociò i piedi, saltellò di un passetto a destra, di uno a sinistra, e piantò le suole a terra, fermandosi. Il mondo girava attorno a lui in una spirale grigia e bianca.

Romano stropicciò un occhio alla volta. La mano ancora intrecciata ai capelli grattò dietro l’orecchio, risalì la tempia, massaggiò la fronte e si chiuse a pugno, sfregando una palpebra con le nocche. Le ultime tracce di fumo scintillarono come un pugno di lucciole e svanirono nell’aria.

“Ma cos...”

Buttò lo sguardo ai suoi piedi e solo in quel momento si accorse di non avere più la mantella impermeabile sporca di neve addosso, ma solo l’uniforme. Sobbalzò, il cuore saltò assieme a lui per lo stupore, e afferrò un lembo della giacca, tirandolo in avanti.

“Dove...”

Rigirò il lembo di stoffa. Guardò alle sue spalle, compì mezzo giro e si tastò le scapole, in cerca del fucile. Gettò lo sguardo sui fianchi, fece un passo all’indietro, divaricando le gambe, e cercò anche la pistola allacciata alla cinta. Niente.

Il fischio del vento gli ululò in faccia, facendogli sollevare lo sguardo. Romano puntò gli occhi al cielo, contro i fasci dei riflettori che si incrociavano davanti al nero, contro la luce della luna, limpida e bianca, che si specchiava fra le onde del mare. La striscia del molo si stendeva davanti ai suoi piedi, affondava la lingua fra le onde del mare – non se ne sentiva lo scroscio, le sirene erano troppo forti. Sull’orizzonte del mare, le sagome delle imbarcazioni rischiarite dai riflettori galleggiavano tranquille.

Romano sgranò gli occhi. Un’onda di panico risalì il petto e lo strangolò come un paio di viscide mani strette attorno al suo collo. Socchiuse la bocca, impietrito, e le punte dei capelli sfiorarono gli angoli delle labbra.

“Dove cazzo sono finito?”

Fece scivolare un piede, compì una mezza piroetta e si voltò a destra. Le luci del porto riempivano l’aria come una costellazione di stelle piovute a terra. I coni di luce si incrociavano davanti ai palloni frenati che emergevano dalle acque del mare, delineavano la forma della conca che curvava dentro la terraferma, formando i bordi del porto.

L’odore di acqua salmastra, di carburante, di legno incrostato di alghe, si unì a un profumo più dolce e familiare che gli strinse il cuore. Profumo di casa.

Romano restò a bocca aperta. Il labbro inferiore tremò come la luce che gli riempiva lo sguardo. “Questa è...”

Un lampo di luce lo scaraventò indietro nei ricordi di appena un mese prima.

L’eco lontano della voce dell’ammiraglio arrivò come uno schiaffo di realizzazione dritto sulla guancia.

“Posso ricordare a lor signori che abbiamo una flotta militare attraccata al porto di Taranto?”

Il lampo di luce si ritirò con un risucchio.

Romano tornò con la mente e con i piedi in mezzo al porto, scosso dalle bave di vento che scivolavano lungo la banchina, e illuminato dai fasci bianchi sparati dai riflettori ondeggianti.

Spalancò gli occhi. Guadagnò un profondo sospiro che lo fece rimanere a bocca aperta.

“Taranto?” esclamò.

Il cuore prese a galoppare. Le pulsazioni battevano contro le costole vibrando fino alla gola, lo strozzavano come se Romano avesse ingoiato una pallina di gomma rimasta incastrata alla base della lingua.

No, no, non è possibile.

Tornò a stringersi una mano fra i capelli, si voltò verso l’orizzonte del mare. Lacrime di sudore ghiacciato scesero dalla fronte, gli bagnarono le dita tremanti aggrappate alle ciocche.

Per quale motivo ci stanno davvero attaccando?

Gli tremarono le ginocchia. I muscoli si fecero di nuovo pesanti come sacchi di cemento allacciati alle gambe, il sangue ghiacciò facendolo sbiancare come una maschera di gesso. Gli occhi larghi e lucidi scintillavano di terrore.

Ma anche se fosse...

Aprì le mani davanti al viso. Tremavano, bianche, fredde, e madide di sudore. Piccoli spasmi scuotevano le dita contratte. 

Come potrei impedirlo, io?

Mosse la bocca, schiuse di più le labbra vibranti e gemette un piccolo risucchio d’aria. Aveva la bocca secca, la lingua intorpidita, e un denso sapore amaro che gli riempiva le guance.

Una riga di sudore scivolò lungo la tempia.

Perché sono stato trascinato a Taranto?

“E tu che cosa ci fai qui?”

Quella voce gli trapassò il cranio come un dardo scoccato dall’alto.

Romano strisciò di un passo indietro, impennò lo sguardo e puntò il cielo nero che si stendeva sopra di lui.

Inghilterra si accovacciò tenendo le punte dei piedi premute sull’aria, e piegò le braccia sulle ginocchia. Inarcò un sopracciglio. Lo sguardo rivolto a Romano, una lieve spira di vento che gli agitava i capelli e i vestiti. Inclinò il capo di lato. Stampò un’espressione scettica e dubbiosa sulla faccia illuminata dalle sfumature dei riflettori.

Romano serrò i pugni contro i fianchi. Non più paura, ma rabbia liquida fluì nelle vene, sciolse il ghiaccio che aveva cristallizzato il sangue, e prese a pompare accompagnando i palpiti del cuore gonfio di ira. Romano sentiva i pugni andare in fiamme, i fumi di collera evaporare dal suo corpo e ondeggiare attorno a lui.

Strinse i denti fino a sentire lo smalto stridere. “Tu,” gorgogliò. La voce era nata direttamente dal denso ribollire che stagnava in fondo allo stomaco.

Romano pestò un passo in avanti, immaginandosi di sbriciolare il cemento sotto il suo piede, gonfiò i polmoni e alzò la voce.  

Tu mi hai trascinato qui?” tuonò. Le vene pulsarono battendo sulle tempie e gonfiandosi sul collo, assecondando il suo respiro pesante.

Inghilterra sollevò lo sguardo ancora intontito e batté un pugno contro il palmo aperto verso l’alto. “Ma certo,” gli occhi si accesero, “come ho fatto a non pensarci?” Volse lo sguardo al mare che si increspava, schiumando spuma bianca quando toccava i fianchi delle navi. Si alzò, raddrizzando le ginocchia, e una scia di vento gli mosse i capelli davanti agli occhi. “Taranto è nel Sud Italia,” si disse, “e a prescindere da quanto il ruolo di Romano sia diventato marginale rispetto a quello di suo fratello...” Voltò la guancia, guardò verso la costa, dove le luci si addensavano come tante briciole bianche sparse sulla terra a bordare il confine del mare. Inghilterra emise un piccolo sbuffo. “Sto pur sempre combattendo sulla sua porzione di territorio.”

Romano digrignò i denti. Aprì e strizzò i pugni, tagliuzzandosi i palmi che bruciavano di rabbia. “Schifoso bastardo,” disse, quasi sputando, “come cazzo hai osato catapultarmi qui?”

Inghilterra tornò a ruotare gli occhi verso il basso. Uno sguardo ancora assorto e annoiato che diceva: ‘Oh, sei ancora lì?’.

Romano emise un ringhio fra gli incisivi e corse verso il confine della banchina che dava sul mare. Impennò i pugni al cielo. “Ti tiro giù da lì a calci e poi ti faccio il culo nero!”

“Romano!”

Un tuffo al cuore.

Romano si irrigidì in quella posizione: un piede davanti all’altro, il braccio sollevato contro il cielo, il pugno di minaccia rivolto a Inghilterra, le nocche bianche e le vene gonfie che pulsavano sul dorso.

Piombò il silenzio.

Smise di respirare, lo stomaco si strinse, la lingua rimase ghiacciata, gli occhi vitrei e acquosi si estraniarono, non guardavano più Inghilterra o la luna o le luci dei riflettori.

Romano prese un piccolissimo risucchio di fiato, lo sentì bloccarsi in gola.

Non può essere.

Voltò una guancia. Occhi sbarrati, fiato fermo, cuore gonfio, petto pesante come se avesse avuto un macigno schiacciato contro le costole. Guardò da dietro il braccio ancora alzato al cielo verso Inghilterra, pregando e supplicando il Cielo di non aver sentito male.

Non sentì più il chiasso degli allarmi, il sangue salì alla testa e gli tappò le orecchie. Le sirene ondeggianti tacquero, si spensero anche lo scroscio del mare, il sibilo del vento, il suono del suo stesso respiro e del suo cuore che cessava di battere.

Spagna gettò un braccio verso l’alto, lo sventolò come una bandiera, e si aggrappò con la mano libera alla sbarra più alta della balaustra. Si diede la spinta con un piede, salì sul gradino della ringhiera, e finì abbagliato dalla luce di uno dei riflettori che oscillava attraverso l’aria. I movimenti del braccio accelerarono, Spagna staccò la mano libera dalla balaustra e la chiuse attorno all’angolo della bocca. “Romano, sono qui!” gridò. La bocca, nascosta dall’ombra della mano chiusa a cono, si stese in un largo sorriso che splendeva come un raggio di sole. Gli occhi spruzzarono scintille di gioia, le guance arrossirono per l’emozione.

Romano abbassò lentamente il braccio, lo richiamò sul fianco. Fece scivolare un piede lungo la banchina, si voltò verso Spagna. Venne sospinto da un alito di vento che lo travolse sul fianco, scuotendogli i capelli davanti alla fronte e sulla guancia. Il cuore si chiuse in una stretta di speranza e dolore.

Risentì il calore della mano di Spagna sulla sua, quel giorno della fuga nelle Ardenne. I suoi occhi che lo guardavano nella penombra dell’abitacolo dell’autocarro, fermi e sinceri, “Ti fidi di me?”, e la sua stretta che gli trasmetteva la sensazione di forza e coraggio. L’ultimo abbraccio davanti ai tedeschi, la schiena premuta contro il suo petto, le braccia di Spagna attorno al busto e alle spalle, la sua guancia a sfioro del viso, tanto da poter sentire il respiro tiepido e il sussurro che vibrava affianco all’orecchio, che gli diceva di stare tranquillo, che sarebbe andato tutto bene. L’abbraccio si scioglieva. Il vento che scuoteva le fronde degli alberi spazzava via il calore ancora stampato sul suo corpo, lo costringeva a chinarsi, a camminare lontano da lui. Il dolore che poi lo aveva straziato, che lo aveva costretto a piegare le spalle davanti a Germania, a udire i passi dei soldati che portavano via Spagna, e a rimanere impotente, con i pugni tremanti contro i fianchi e il sangue che ribolliva in testa.

Spagna saltò giù dalla balaustra, innalzò entrambe le braccia al cielo e prese a correre verso Romano. I capelli al vento, le mani che sventolavano, i piedi rimbalzanti che affondavano falcate sempre più lunghe, e la bocca che continuava a muoversi, il labiale che componeva solo una parola.

“Romano!”

Romano sentì gli occhi gonfiarsi, bruciare e diventare pesanti. Un caldo formicolio gli assalì le guance e la punta del naso, scottando sulla pelle diventata rossa. La vista si appannò

Le stesse parole che aveva urlato contro Italia tornarono a rimbombargli nella testa. Romano sentì l’eco del suo stesso pianto vibrargli nelle orecchie e nella gola. “Mi sono umiliato davanti a tutti, ho accettato di andare a rintanarmi alle spalle del crucco come un dannato codardo, lasciando Spagna nelle sporche mani di quelli là non sapendo cosa gli sarebbe successo, cosa gli avrebbero fatto, e se lo avrei più rivisto.”

Lo aveva davanti agli occhi. Gli stava correndo incontro, sventolava le braccia, gridava il suo nome al vento, gli sorrideva come se non si fossero mai separati per tutti quei mesi.

Romano prese un sospiro che gli fece male al cuore. Il labbro inferiore vibrò. “Spa...” Le lacrime traballarono fra le palpebre come grosse gocce di rugiada in bilico sulla punta di una foglia. La voce uscì in un guaito stridente che sapeva di pianto e che gli chiuse il petto in una morsa di calore. “... gna.”

Le gambe si mossero da sole. Romano volò lungo la banchina, il vento freddo e pungente, che sapeva di sale, gli soffiò sulle guance e contro gli occhi annacquati dalle lacrime. Li asciugò, bruciando sulle palpebre spalancate e fra le labbra ancora schiuse e vibranti. Il cuore palpitante pulsava nelle orecchie.

Inghilterra, dall’alto, sentì una scossa di rabbia corrergli lungo la schiena. Strinse i pugni sui fianchi, aggrottò la fronte, gli occhi assottigliati e scuri d’ombra seguirono la corsa di Spagna e Romano che si stavano gettando uno verso l’altro.

Digrignò i denti. “Eh, no, Spagna.” Agitò le dita di una mano, fece scoppiettare una nuvoletta di scintille rosse dentro il palmo. L’aria gli scosse i vestiti e i capelli, spanse i luccichii rossi fra le sue dita. “Hai capito male.”

Spagna allungò le braccia. Spalancò le mani, tese le dita e accelerò la corsa. Gli occhi ardevano, brillanti sotto i riflessi delle luci del porto, animati solo dal desiderio di gettarsi a stringere Romano fra le braccia.

Inghilterra rivolse il palmo verso il cielo, reggendo la sfera di scintille rosse fra le dita inarcate. Il colore si intensificò. La nube divenne gonfia e splendente come fatta da briciole di rubino.

“Questa non è...”

Anche Romano gettò un braccio in avanti. Le dita si aggrapparono all’aria, i piedi saltarono lungo la banchina quasi senza appoggiare le suole a terra, scivolando attraverso lo spazio d’aria che li divideva. Il viso teso, contratto dallo sforzo, dalla paura, dall’incredulità. Gli occhi luccicanti come quelli di Spagna.

Inghilterra restrinse le dita. Saette rosse nacquero dal palmo, si arrampicarono attraverso l’aria, serpeggiarono formando una gabbia elettrica, e schioccarono come schioppi di frusta. Il viso di Inghilterra rabbuiò. “La tua...”

Le dita di Spagna e Romano si tesero. Un soffio d’aria a dividerle.

Inghilterra aprì la mano e diede un colpo secco con il fianco. Affettò l’aria lasciandosi dietro una scia rossa e luminosa.

“Battaglia!”

Romano e Spagna schiacciarono i palmi contro la barriera rossa che si era impennata dal suolo. Spagna flesse i gomiti, batté sopra il campo di forza anche con l’altra mano e finì con il naso schiacciato contro la parete di energia. Saette rosse si sparsero dai punti che aveva toccato, schioccarono attraverso l’aria spargendo una cascata di scintille che scaraventò all’indietro il corpo di Spagna. Romano sbatté la guancia, premette entrambi i palmi contro il muro di energia, e finì anche lui sbalzato indietro dai rami di fulmine che si erano sparsi stridendo lungo la superficie scarlatta.

Spagna rotolò a terra, colpì la spalla, e rantolò un gemito massaggiandosi il braccio. Si mise sulle ginocchia, strofinò il dorso della mano contro il naso, dove aveva sbattuto, e sollevò gli occhi contro la parete rossa e trasparente che lo separava da Romano. Spalancò gli occhi. “Cosa?” Strisciò sulle ginocchia, aggrappandosi al cemento con la mano libera, e sollevò il palmo davanti al muro. “Cos’è questo?” Vi poggiò sopra i polpastrelli. La barriera aveva una consistenza morbida e gelatinosa, che si fletteva lievemente a contatto con la sua pelle, come una pellicola di gomma. Piccole saette rosse nacquero da sotto le dita che Spagna aveva premuto, sfrigolarono lungo la superficie della barriera e gli pizzicarono la pelle, senza fargli male.

Romano tirò su il capo, stando piegato sui gomiti, a spalle ancora chine dopo la caduta, e l’abbaglio rosso gli colorò il viso ancora rigido in quella maschera di sconcerto. Si diede anche lui la spinta, fece un balzo in avanti e ricadde sulle ginocchia sbattendole alla base del muro di energia. Premette di nuovo le mani contro la parete, davanti al palmo di Spagna, sollevando altri raggi elettrici spessi e contorti come radici.

Inghilterra rilassò la mano da cui era partito il campo energetico. La spolverò battendola su quella pulita, e una velata nuvoletta di polvere rossa si sparse attorno a lui, sciogliendo la magia. Storse il naso, ancora stizzito da quella scena.

“Inghilterra, tutto bene?” La voce della fatina gli suonò direttamente nella testa.

Inghilterra tornò a premere due dita contro la tempia. “Sì, sì,” gettò a terra un ultimo sguardo seccato, “solo un fastidioso imprevisto.”

“Wow, cominciamo bene.”

“Tutto a posto,” la rassicurò. “L’ho già sistemato a dovere. Non ho né tempo né voglia di mettermi a giocare con loro due.”

Diede un’ultima scrollata alla mano per sciogliere l’energia che galleggiava attorno alle dita, e si voltò di fianco, lanciando un’occhiata a Spagna e a Romano da sopra la spalla. Si erano alzati in piedi, senza togliere i palmi dalla barriera, e tastavano il muro in più punti, come sperando di trovare uno spazio libero. Gli occhi di Inghilterra si spostarono su Romano. Stava dicendo qualcosa, ma il fracasso delle sirene copriva la sua voce. Gli occhi nel panico, le spalle chine verso Spagna, un pugno premuto contro la parete rossa.

Inghilterra restrinse le sopracciglia. Forse ti conveniva davvero rimanere dov’eri, Romano. Soffiò il vento, e Inghilterra sentì il suo viso farsi più freddo e rigido. Perché ora nessuno potrà salvarti. Lanciò un’occhiata a Spagna, alle sue mani incollate al campo di forza, ai suoi occhi spaventati che cercavano lo sguardo di Romano, alle sue labbra che pronunciavano parole sovrastate dal frastuono degli allarmi ancora attivi. Un germe di compassione fiorì nel petto. Nemmeno lui.

Inghilterra si voltò con una piroetta, diede le spalle a entrambi. Richiamò un braccio davanti al viso, unì le dita e schioccò i polpastrelli. Si smaterializzò in un vortice di fumo.

   
 
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