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Autore: MarieCullen    11/04/2009    5 recensioni
Chicago, 10 Marzo 1918.
Un giorno come un altro forse, ma non per me Isabella Marie Swan. Quel giorno segnò la mia vita e la trasformò radicalmente. Da quel momento nulla sarebbe stato lo stesso.

Questa storia è diversa da Twilight. I personaggi sono gli stessi ma con alcune varianti.
Spero vi piacerà.
Genere: Romantico, Suspence, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Broken Life;


Chicago, 10 Marzo 1918.
Un giorno come un altro forse, ma non per me Isabella Marie Swan. Quel giorno segnò la mia vita e la trasformò radicalmente. Da quel momento nulla sarebbe stato lo stesso.



1.
The Beginning, the End

Vivevo con mio padre Charlie Swan e mia madre Renée in una bella casa, accogliente e moderatamente lussuosa. Lo stipendio da capo della polizia di mio padre ci permetteva uno stile di vita molto dignitoso nonostante il periodo di crisi che stavamo vivendo a causa di quella che già chiamavano la Grande Guerra, cominciata quasi quattro anni prima. Eravamo considerati uno stato “alleato” e così subivamo gli effetti di quella devastazione, comprese le malattie. Da circa due mesi in città - e forse in tutto il Paese - vi era uno stato di allerta e paura costante, a causa di un’epidemia di febbre spagnola. Questa in molti casi portava alla morte, e pochissime persone erano sopravvissute ad essa. Era quindi normale che il terrore di questa epidemia si fosse diffuso così in fretta. Nonostante ciò però, le scuole - benché poche e scarsamente fornite - rimanevano aperte. A quel tempo le scuole miste non esistevano, esattamente come l’idea che le ragazze potessero sedere affianco ad uomini che non le erano consanguinei o legati alla famiglia in qualche modo, e quindi la Chicago High School era divisa in due aree. La prima, elegante e austera, costituiva la parte femminile, prevalentemente gestita da uomini di chiesa, acculturati ma non abbastanza; la seconda, ben più sfarzosa, era destinata agli alunni maschi. Ovviamente gli insegnanti erano più preparati, più professionali e con vedute più larghe. Ai ragazzi - giovani borghesi ricchi dalla nascita, il più delle volte viziati - veniva insegnata ogni sorta di materia: dall’arte alla filosofia, dalla scienza alla letteratura, dall’economia alla storia. La maggior parte di loro però s’interessava poco a queste cose, troppo presi dagli affari di famiglia o forse più interessati al denaro e alla bella vita che alla cultura. Invidiavo molto gli uomini perché a loro era concessa una conoscenza più ampia in tutti i campi, che a noi donne era negata. A cosa serviva insegnare la letteratura ad una ragazza? In futuro sarebbe stata solo madre e moglie, schiava dei suo doveri coniugali e non avrebbe certo avuto tempo per la lettura.
I miei genitori erano molto d’accordo con questo pensiero.

Mia madre passava il giorno in casa a rassettare e cucinare, il che non le permetteva di fare molto altro. Il risultato era una casa linda come uno specchio, la cena sempre pronta e le sue piccole scappatelle con l’alcool. Ma d’altronde come biasimarla? L’unico momento di svago per lei era costituito dallo spettegolare alle feste d’alta società - alle quali rifiutavo volontariamente di partecipare - dove era la normalità che le donne stessero tra di loro e non faceva certo scandalo se queste bevevano. Spesso e volentieri si rifugiava nella sua stanza nascondendo sotto la gonna pesante una bottiglia di whisky o di chissà quale altro liquore per fuggire da quella realtà che, seppure non l’avrebbe mai ammesso, non piaceva neanche a lei.
Mio padre era un uomo di vedute poco larghe, protestante convinto e dalla personalità incline al comando. Non si poteva certo chiamare caso se era a capo della polizia. Il suo ideale di donna si poteva ben definire maschilista: la donna per lui era moglie e madre, niente di più e niente di meno. Se il marito diceva qualcosa, questa non doveva ribattere in alcun modo. L’uguaglianza tra i sessi per lui? Pura utopia femminista, impossibile da concepire. D’altro canto anche il suo credo imponeva certe limitazioni nei confronti del genere femminile, come se essere nate donne fosse stata una colpa.
Io non ero dello stesso pensiero. Per me nessuno aveva il diritto di privarmi di ciò che desideravo. La mia più grande passione era in assoluto la letteratura e pensare che una qualsiasi persona avrebbe potuto togliermi questo diletto a causa del mio essere era inconcepibile. Passavo ore intere nella soffitta polverosa leggendo i meravigliosi sonetti di Shakespeare e fantasticando su di un uomo così romantico. Rimanevo spesso rapita dalle parole raffinate e piene di sentimento che facevano trasparire al meglio lo stato d’animo del poeta. Tante e tante volte mio padre mi aveva scoperta a leggere anziché adempiere ai miei doveri di figlia - ovvero aiutare mia madre nelle faccende domestiche - e avevo dovuto subire rimproveri e castighi a non finire, ma mai avevo smesso di coltivare il mio amore per la letteratura. Preferivo di gran lunga leggere piuttosto che partecipare a noiose feste organizzate da gente la cui morale era più che dubbia.

Un giorno di marzo però, precisamente il dieci, la mia famiglia aveva accettato di partecipare ad una festa ritenuta molto importante. Il sindaco aveva invitato nella propria villa la gente più in vista della città e mio padre, in quanto capo della polizia, era tenuto a parteciparvi. L’invito era rivolto a tutta la famiglia e ciò significava che avrei dovuto essere presente anch’io. Mi opposi con ogni mezzo ma mi fu totalmente impossibile convincere i miei genitori.
«Isabella cara, cerca di capire», disse mia madre pettinandomi i capelli castani. «Io e tuo padre non possiamo permetterci cattive figure in società. Cosa penseranno se non ti presenti con noi?».
«Potreste sempre dire che sono malata. Una bugia a fin di bene si può dire ogni tanto, madre», cercai di replicare.
«Non essere sciocca Isabella. Penseranno che ti sei ammalata di spagnola e ci eviteranno come appestati. Ti sembra il caso?».
«Ma madre io odio queste feste, non fanno per me», mi lagnai.
«E perché mai? Cosa hai di meno rispetto alle altre ragazze della tua età?».
Osservai il mio riflesso nel grande specchio della mia camera. I capelli castani erano stati abilmente intrecciati in una complicata acconciatura e lasciavano ricadere solo alcune ciocche ai lati del viso. La mia pelle era molto chiara, si poteva anche definire trasparente, ed era assai delicata. La parte che preferivo di me erano gli occhi, di un intenso color nocciola, troppo vispi secondo mia madre. Il viso possedeva un rossore proprio sulle gote che aumentava assieme all’imbarazzo più il mio sguardo scendeva sul vestito che indossavo. Un abito lungo e rosso, con piccole rifiniture in oro e merletti bianchi, fasciava il mio corpo mettendo in risalto il seno non eccessivamente prosperoso. Molto elegante senza alcun dubbio, ma mi sentivo una bambola di porcellana.
«Io … Io non so madre, ma non è l’abbigliamento adatto a me, non è l’ambiente adatto a me».
«Sciocchezze, figliola. Questo è l’ambiente in cui sei nata e sarà così per tutta la tua vita. Non vorrai certo fare la preziosa anche quando sarai sposata! E’ obbligo di una moglie seguire il marito in società», affermo risoluta, mettendomi una collana di perle color avorio al collo.
«Ci vorrà del tempo prima che io mi sposi. Non ho neanche un pretendente».
«Questo lo dici tu mia cara. Conosco tanti giovani di buonissima famiglia che non esiterebbero un attimo a chiederti in sposa».
«Sono troppo giovane madre, non credete?», dissi preoccupata. Sperai con tutto il cuore che non avesse intenzione di cercarmi marito. Avevo quasi diciassette anni dopotutto e li avrei compiuti il tredici di settembre. Era troppo presto per pensare al matrimonio.
«Isabella io avevo la tua età quando conobbi tuo padre e ci sposammo un anno dopo. Hai la giusta età. Ma non voglio forzarti, sarai tu a scegliere il momento».
«Grazie della comprensione», risposi, trattenendo a stento un sospiro di sollievo.
Finimmo in fretta tutti i preparativi e scendemmo al piano sottostante dove ci attendeva mio padre. Ci dirigemmo in macchina, nonostante il fracasso che faceva, verso la villa del sindaco. Come consuetudine nessuno osò proferire parola; c’era davvero poco da dire. Appena giunti sul luogo fui raggiunta da due mie compagne di classe: Jessica Stanley, figlia del sindaco, e Angela Weber sua fedele amica.
«Isabella non posso crederci ci sei anche tu!», esultò Jessica battendo le mani. «Ma che piacevole sorpresa».
«Vedrai sarà una bellissima festa. Non hai idea di chi ha invitato il sindaco», disse Angela. Ebbi l’istinto di scappare via all’istante; non avrei retto a quelle pettegole.
«Chi è stato invitato?», domandai fingendomi interessata alla questione.
«Mio padre ha mandato un invito al signor Masen e famiglia, non è fantastico?», esordì allora Jessica.
«Dovrebbe?».
«Ma come non sei per niente entusiasta? Potremo conoscere suo figlio Edward», continuò mentre varcavamo l’ingresso.
«Oh certo, sì».
Edward Masen era uno dei ragazzi dell’alta borghesia. Molto bello, con i suoi capelli color del rame e gli occhi verdi, ma non era certo il mio tipo. Lui era solo un altro di quei viziati figli di papà.
«Isabella, non ti capisco proprio. Possibile che i ragazzi non t’interessino affatto? Edward Masen è un bellissimo ragazzo e anche molto intelligente. Non vedo quale problema ci sia».
«Per come la vedo io, Jessica, lui è solo un altro di quei ragazzi interessati solo alla guerra e al denaro. Non è il mio genere, c’è poco da discutere. Ma se a te interessa tanto è tutto tuo», ribattei seccata.
«Poco male», disse alzando le spalle.
Mi sedetti su una piccola poltrona di velluto color mogano, in tinta con il resto dell’arredamento. Tutto intorno a me era lussuoso e pieno di sfarzo, come a voler ostentare a tutti i costi la ricchezza del sindaco Stanley. Vidi Angela sedersi di fianco a me e sospirare.
«Non preoccuparti di Jessica, Isabella. E’ troppo presa dai ragazzi e pensa che tutte siano come lei. Non badarle», mi disse premurosa
«Lo sto già facendo», risposi e ridemmo insieme. La sentii sospirare ancora. «C’è qualcosa che non va, Angela?».
«Speravo d’incontrare il giovane Cheney e invece non c’è».
«Benjamin Cheney? Strano che non sia stato invitato».
«E’ stato invitato assieme alla sua famiglia, ma hanno dovuto rifiutare. Pare che sua madre si sia ammalata di spagnola».
«Oh, mi dispiace davvero».
In quel momento Jessica tornò da noi insieme ad un ospite. Ci misi poco a riconoscerlo, benché l’avessi visto poche volte di sfuggita all’entrata di scuola: era Edward Masen.
«Isabella, volevo presentarti Edward. E’ un caro amico di famiglia».
«Felice di fare la vostra conoscenza, signorina Swan», disse, chinandosi a baciare il dorso della mia mano.
«E’ un piacere per me», risposi più per cortesia che per vero piacere.
«Vi lasciamo soli», ci informò Angela, e insieme a Jessica, si diresse all’altro capo dell’affollato salone.
«Ditemi, signorina Swan, anche voi trovate estremamente noiose queste feste?», domandò sedendosi sulla poltrona occupata prima da Angela.
Lo fissai stupita. Anche a lui non piacevano le feste? «No, le odio. Anche voi?».
«Sì. Ma sono costretto a seguire i miei genitori in queste cose», rispose accennando un sorriso. Non potei fare a meno di trovarlo splendido e rimasi incantata a guardare quegli occhi verdi.
«Preferirei rimanere a casa a leggere», continuò. «ma ovviamente non mi è concesso».
Rimasi stupita ancora una volta. «Leggere è anche una mia passione, ma devo farlo di nascosto. Cosa leggete?», chiesi evidentemente curiosa. Tirò fuori dalla tasca della sua giacca un piccolo libro malconcio e un po’ ingiallito, mostrandomelo.
«I sonetti di Shakespeare», mormorai, ancor più sorpresa. «Qual è il vostro preferito?», domandai presa dall’impeto di sapere.
«Il centosedici. Lo trovo spettacolare».
«Non muta amore dentro un lasso breve, ma alle soglie del sempre ha la sua meta», dissi, sussurrando i miei versi preferiti. Lui era così simile a me, pensai. «Incredibile», riuscii a dire infine.
Prima che potesse rispondermi però una donna sulla quarantina, probabilmente sua madre, lo chiamò.
«Devo proprio andare. Il dovere mi chiama», disse scherzando. «A presto miss Swan», mi salutò educato, baciandomi ancora la mano.
«Chiamatemi pure Isabella».
«Come desiderate, Isabella».
Poi lo vidi sparire tra la gente. Rimasi a lungo a pensare a lui, ma solo tempo dopo mi sarei resa conto che quell’incontro per me segnò l’inizio di tutto. L’inizio della fine.




Note dell'autrice;

Salve a tutti. Volevo specificare alcune piccole cose: la Chicago High School è una mia invenzione e probabilmente non esiste; il sonetto di Shakspeare 116 esiste davvero ed io ne ho tratto un pezzo, che poi sevirà anche più in là.
Detto questo spero che vi piaccia la mia storia!
Baci, Mary.
  
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