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Autore: Old Fashioned    24/05/2016    22 recensioni
Il giovane atleta spartano Democrito sogna di praticare il pancrazio e di guadagnarsi l'amore e il rispetto di Andromaco, campione in quella disciplina. Otterrà ciò che si prefigge, ma tutto ha un prezzo.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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IL PREZZO DELL'ONORE




Il giovane sembrava addormentato. Aveva un'espressione tranquilla, che comunicava serenità e compostezza.
Sullo zigomo destro aveva un piccolo taglio, scarlatto sul pallore del viso, unica testimonianza di quello che era accaduto.
Giaceva sulla pira incoronato d'ulivo e vestito di un semplice manto rosso.
C'erano alcuni uomini intorno, perlopiù atleti provenienti da Sparta, che osservavano la scena in dignitoso silenzio. Tra essi uno spiccava per altezza e prestanza. Non manifestava un contegno diverso da quello degli altri, tuttavia i compagni lo trattavano con quella particolare forma di deferenza che si riserva a chi ha appena subito un grave lutto.
Fu a lui che il sacerdote consegnò solennemente la fiaccola accesa.

“Democrito, vieni a vedere!” esclamò Polinice, “Ci sono gli incontri di pancrazio!”
“Arrivo!”
I due ragazzi si sottrassero abilmente alla sorveglianza del loro comandante di Compagnia e scivolarono non visti nella palestra principale.
Lì si confusero con la piccola folla che vi era riunita e silenziosi come gatti si acquattarono in un angolo.
Sebbene dovere di ogni Spartiate fosse quello di intervenire non appena s'imbatteva in un giovane che mostrasse un comportamento disdicevole, nessuno sembrò fare caso a loro.
L'interesse generale era infatti rivolto al centro della sala, dove Andromaco si stava preparando ad affrontare un avversario.
Nella dura disciplina del pancrazio, Andromaco era l'indiscusso campione. Più alto e più possente della maggior parte degli Spartiati, univa una forza poderosa ad agilità e competenze tecniche fuori dal comune. Seguire i suoi combattimenti era un piacere cui pochi avrebbero rinunciato.
Egli avanzò già cosparso d'olio per la lotta, i muscoli lucidi che guizzavano come quelli di una fiera. Nonostante le usanze di Sparta portava i capelli molto corti, giacché se fossero stati lunghi avrebbero rappresentato una facile presa per l'avversario.
Democrito lo fissò affascinato. Non era la prima volta che lo vedeva, naturalmente, anzi aveva spesso eluso la sorveglianza dei superiori per assistere ai suoi incontri, ma tutte le volte l'emozione era la stessa.
Tutti gli Spartiati praticavano il pancrazio, una volta raggiunta l'età giusta, ma solo un ristretto numero di essi risultava possedere le caratteristiche di forza, resistenza e agilità che consentivano di praticare quella dura disciplina al livello che consentiva l'accesso ai Giochi Olimpici.
Democrito, che era fra i più abili della sua Compagnia sia nel pale che nell'orthopale, desiderava più di ogni altra cosa essere ammesso nell'esclusivo gruppo.
“Andromaco ha già un amante?” chiese al compagno.
Questi lo fissò stupito. “Perché me lo chiedi?”
“Forse potrei...” A Sparta era usanza che fosse il fanciullo a chiedere al giovane adulto di poter diventare suo amante.
“Non ci pensare nemmeno!” lo interruppe l'altro categorico. “Con giovani virtuosi e degni come Ipparco o Carilao ancora liberi, avresti tu la pretesa di diventare l'amante di Andromaco?”
L'altro fece per replicare, ma il primo continuò: “Toglitelo dalla testa! Una simile presunzione getterebbe la vergogna su tutta la Compagnia, saremmo derisi a causa della tua sfacciataggine, le ragazze comporrebbero canti di scherno su di noi!”
Forse Democrito avrebbe voluto rispondere, ma in quel momento si udì una voce irata alle loro spalle: “Eccovi qui, maledetti fannulloni!”
I due si girarono all'unisono. A grandi passi si stava avvicinando Alcandro, il comandante della loro Compagnia, e a giudicare dalla sua espressione sembrava anche decisamente contrariato. “Cosa credevate di fare voi due?” li apostrofò severo.
“Volevo vedere il combattimento di Andromaco,” rispose Democrito, con la sincerità che si conveniva ad uno Spartiate.
“Tu non vedrai un bel niente, ti insegno io ad abbandonare il campo senza il permesso! Panoplia completa e dieci giri di campo, forza!” Poi, rivolto all'altro ragazzo: “E anche tu! E stasera ne riparliamo!”

Per quanto dura, la punizione non servì a tenere Democrito lontano dal campo dove si allenavano i pancratisti. Vi andava anzi ogni volta che riusciva a eludere la sorveglianza, badando a tenersi ben nascosto quando assisteva agli incontri.
Sarebbe morto di vergogna, infatti, se Andromaco l'avesse sorpreso. Cos'avrebbe potuto dirgli per giustificare quell'ignominioso comportamento? Sto nascosto come un Ilota perché voglio spiarti? Bell'esempio di Spartiate.
Forse Polinice aveva ragione quando diceva che il campione di pancrazio non l'avrebbe nemmeno guardato, e anzi l'avrebbe deriso se mai avesse avuto l'ardire di presentarsi a lui chiedendo di diventare suo amante.
Il ragazzo sospirò. Sul campo Andromaco stava accettando la resa dell'ennesimo avversario. Ansimava appena, e un rivolo di sangue gli disegnava la muscolatura poderosa del braccio, scorrendo lucido e scarlatto sulla polvere che gli si era appiccicata addosso durante la lotta. Lo sguardo era acceso e fiero.
Come avrebbe desiderato essere colui che aveva l'onore di passare lo strigile su quel corpo perfetto! Era certo che neppure il divino Apollo avesse membra così forti e armoniose.
E sapeva per certo che la bellezza fisica rispecchiava in lui quella morale. Non vi era Spartiate più virtuoso e coraggioso di lui, nessuno possedeva la sua arguzia negli scherzi e la sua fermezza nel pericolo.
D'un tratto alzò gli occhi e si accorse che Andromaco si stava muovendo proprio nella sua direzione. Non l'aveva notato, ovviamente, o forse lui appariva ai suoi occhi come uno degli innumerevoli ragazzi che ad ogni incontro lo guardavano affascinati, tuttavia si allontanò silenziosamente prima che il lottatore posasse lo sguardo su di lui.
Per quanto uno Spartiate fosse educato al coraggio fin dalla più tenera età, il ragazzo non aveva avuto cuore di attendere il suo arrivo. Se avesse fatto brutta impressione avrebbe gettato il disonore su se stesso e su tutta la sua Compagnia, avrebbe svergognato il suo comandante e si sarebbe in breve attirato le giuste ire di tutti.

L'unico modo per venire a capo del problema, rifletté Democrito, che comunque non aveva ancora abbandonato l'idea di diventare amante di Andromaco, era quello di migliorare se stesso.
Portare la virtù al massimo grado, divenire il migliore e quindi il più desiderabile.
Il lottatore, infatti, contrariamente alle previsioni di Polinice non aveva scelto né Ipparco né Carilao e quindi era ancora in attesa di qualcuno che fosse degno di diventare suo amante.
“Che cosa deve avere un ragazzo che aspiri a lui?” chiedeva Democrito disperato, rivolgendosi all'amico, “Quali doti deve possedere, se neppure i migliori e più degni fra i giovani sono stati accettati?”
L'altro scuoteva la testa incapace di fornirgli una risposta adeguata.
In attesa di scoprirlo, il giovane Spartiate coltivava le virtù che sommamente venivano stimate presso il suo popolo: mostrava coraggio nei combattimenti, resistenza alla fatica, austerità e obbedienza ai precetti dei più anziani.
Poiché inoltre supponeva che Andromaco apprezzasse particolarmente i buoni lottatori, non vi era giorno in cui non disputasse incontri, cercando appositamente avversari più forti o più esperti, che gli permettessero di progredire e diventare sempre più abile.

Nella sua affannosa ricerca di sempre nuove sfide, un giorno Democrito si trovò a combattere contro un ragazzo proveniente da un'altra Compagnia. Il giovane, di nome Ifito, era soprannominato Il Toro a causa della sua poderosa corporatura e aveva battuto ogni avversario che l'avesse sfidato. Tutti erano sicuri che sarebbe stato scelto per entrare a far parte del pancratisti.
Democrito lo affrontò con decisione, certo che la notizia di quella contesa l'avrebbe reso più degno di ricevere ciò che sopra ogni altra cosa bramava, ovvero la considerazione di Andromaco.
Dopo essersi studiati per qualche secondo, i due si scagliarono l'uno contro l'altro. Essendo più agile, Democrito tentò subito di afferrare l'avversario con un meson echein per sollevarlo e rovesciarlo al suolo, ma l'altro non era un principiante e se ne accorse in tempo. La presa non riuscì.
Per un po' tentarono vanamente di afferrarsi polsi, braccia o gambe, spingendosi nel contempo con tutta la loro forza, poi crollarono a terra, dal momento che Ifito era riuscito finalmente a far perdere l'equilibrio a Democrito, ma quello, più agile, l'aveva avvinghiato e trascinato con sé nella caduta.
La lotta ricominciò straordinariamente violenta. Nessuno dei due voleva cedere, e nell'approvazione di quanti stavano assistendo, i colpi si susseguivano sempre più poderosi e feroci.
Ad un tratto Democrito pur nella concitazione della lotta ebbe un tuffo al cuore: tra gli spettatori c'era Andromaco!
La cosa gli fece raddoppiare gli sforzi. Sarebbe morto, pur di non mostrargli uno spettacolo vergognoso e indegno di lui.
Ifito aveva a sua volta notato il celebre pancratista e per nulla al mondo si sarebbe lasciato battere, lui che era tuttora un campione invitto, proprio dinnanzi agli occhi di Andromaco.

“Come ti senti?”
La voce sembrava debole e lontana.
Democrito si mosse con fatica, cercando pesantemente di sollevarsi su un gomito. Si accorse che era sdraiato a terra e che sopra la sua testa si agitavano le fronde scure di un lauro.
“Non muoverti,” gli ingiunse con fermezza la voce. Il ragazzo aprì gli occhi e si accorse che essa apparteneva nientemeno che ad Andromaco.
Pieno di vergogna, si abbandonò prostrato sull'erba. “Mi dispiace,” mormorò con voce debole.
“Di cosa?”
“Di non aver vinto. Di aver dato di me questo spettacolo...” non riuscì a terminare la frase.
“Nessuno di voi due ha vinto,” gli giunse la risposta, “siete svenuti entrambi. Ifito è sdraiato a qualche cubito da te, se ti volti puoi vederlo.” Gli girò dolcemente la testa nella giusta direzione.
“Mi dispiace,” ripeté Democrito.
“Avresti combattuto fino alla morte,” constatò Andromaco.
“Sì.”
“Il tuo avversario era molto più forte di te.”
“Volevo migliorare nella lotta.”
Volevo fare bella impressione davanti ai tuoi occhi.
Tentò ancora una volta di alzarsi e di nuovo Andromaco glielo impedì. “Riposati,” gli ordinò.
“Ma il mio comandante...”
“È stato lui a dire che devi restare immobile. Hai preso un brutto colpo.”
Se persino Alcandro, noto per la sua severità, non aveva voluto che si rialzasse, evidentemente doveva essere conciato davvero male.
Rimasero in silenzio per un po', Democrito sdraiato e Andromaco seduto al suo fianco con aria pensosa.
Infine il giovane uomo chiese: “Chi è il tuo amante?”
L'altro sentì il cuore saltare un battito. Deglutì a vuoto e cercando di non far tremare la voce balbettò: “Io... non ho un amante.”
“Peccato. Se tu l'avessi avuto, egli sarebbe stato molto fiero di come ti sei comportato oggi. Avrebbe parlato di te con orgoglio agli anziani e tutti si sarebbero congratulati con lui.”
A Democrito parve di percepire una vaga nota di rimpianto nella sua voce, ma naturalmente non osò proferire parola.
“Ora ti lascio riposare,” disse Andromaco. “Quando ti sarai ristabilito, voglio che tu venga alla palestra del pancrazio per sostenere una prova.”
Prima che Democrito potesse riaversi dallo stupore e rispondere qualcosa, l'altro se n'era già andato.

Il ragazzo rimase a giacere sotto le fronde. Quasi benediceva l'ordine di Alcandro che lo obbligava a non muoversi, perché ciò gli avrebbe dato modo di riflettere su quanto era appena accaduto.
Andromaco gli aveva chiesto di entrare a far parte del gruppo di pancratisti.
Non era una cosa certa ovviamente, tutto dipendeva dall'esito della prova, ma era comunque un onore che mai avrebbe sperato di ricevere.
Andromaco gli aveva chiesto chi era il suo amante. Possibile che fosse interessato a lui?
Si obbligò a rifiutare con fermezza quel pensiero. La presunzione e l'orgoglio portano solo alla rovina.
Chi è troppo pieno di sé, ammonivano gli anziani, si gonfia come una rana, che strepita e fa chiasso ma alla fine contiene solo aria.
La modestia, invece, e la giusta umiltà nei confronti dei più saggi sarebbero state utili compagne, che l'avrebbero reso sobrio, riservato e pronto ad accettare gli insegnamenti di chi aveva più esperienza.

Dei passi leggeri lo distrassero dai suoi pensieri.
Polinice si sedette accanto a lui. “Come stai?” s'informò fissandolo attento.
“Un po' meglio ora.”
“Dovevi vedere le facce di quelli della Compagnia di Ifito! Certi musi lunghi...” Gli sollevò cautamente la testa e gli avvicinò alle labbra una tazza d'acqua. “Tieni, bevi.” gli disse.
Democrito era assetato e non si fece pregare.
“Come sta Ifito?” chiese quando il recipiente fu vuoto.
“Già in piedi, non preoccuparti.”
“Appena riesco a stare in piedi anch'io senza che mi giri la testa andrò a stringerli la mano, ha combattuto bene.”
“Mi pare giusto.”
Tra i due calò il silenzio. Polinice si sedette più comodo appoggiando da una parte la semplice tazza di terracotta.
“Cosa ti ha detto Andromaco?” chiese poi con aria indifferente.
“Mi ha concesso un grande onore: mi ha chiesto di andare nella palestra del pancrazio per sostenere una prova. Se la supererò potrò allenarmi con lui.”
“È davvero una cosa bellissima! Valeva la pena di farsi massacrare per sentire parole del genere.”
“Per Eracle, è vero.”
Ci fu un altro silenzio, rotto solo dello stormire delle fronde sulle loro teste e dai comandi di un istruttore in lontananza.
Infine Polinice disse: “Mi sono sbagliato. Io credo che tu piaccia ad Andromaco. Forse potresti davvero chiedergli se ti accetta come amante.”
“Oh, no! Stai scherzando?” rispose Democrito allarmato, “Lo vorrei tanto, ma muoio di vergogna al solo pensiero!”
“Perché?”
“Con tutti i giovani degni e onesti che ci sono...”
“E che lui non guarda nemmeno,” lo interruppe l'amico.
L'altro stava per replicare quando a grandi passi si avvicinò Alcandro armato di tutto punto. Lo scrutò brevemente per controllare che si fosse ristabilito e disse: “Forza, in piedi. Credi che il nemico aspetti che tu ti sia riposato per attaccarti?”
“No, non lo credo.”
“Allora alzati. Non vorrai disonorare la tua Compagnia con un atteggiamento troppo molle.”

Democrito entrò nella palestra dove si praticava il pancrazio facendo del suo meglio per non mostrare imbarazzo, perché non voleva che gli atleti presenti lo giudicassero debole a causa di una condotta troppo timida.
Vide subito Andromaco impegnato in un combattimento. Lottava contro un avversario robusto quanto lui e i due non si risparmiavano i colpi.
“Che c'è, ti fa paura?” lo canzonò uno dei presenti, notando che fissava l'incontro con gli occhi sgranati.
Un altro si avvicinò e soggiunse: “Il pancrazio non è per gente delicata.”
“Comunque rassicurati,” disse un terzo ridendo, “perlomeno cavare gli occhi all'avversario è proibito.”
“Sempre che l'arbitro se ne accorga in tempo!” Questo era di nuovo il primo.
Democrito accennò a sua volta ad un sorriso. Tra i numerosissimi doveri di uno Spartiate c'era anche quello di accettare lo scherzo e possibilmente replicare alle battute con arguzia.
Sapeva inoltre che quei motti di spirito servivano anche per metterlo alla prova. Se si fosse dimostrato insicuro, se si fosse risentito o spaventato, la sua carriera come pancratista sarebbe finita prima di cominciare.
“Quand'anche l'arbitro non se ne accorgesse, sarebbe una negligenza che può commettere non più di due volte per ogni atleta,” rispose.
“Per Zeus, ben detto!” risero gli altri.
“Ben detto!” ripeté Andromaco avvicinandosi. Aveva appena terminato l'incontro e aveva ancora addosso la polvere dell'arena. Rivolto a Democrito chiese: “Sei venuto a sostenere la prova?”
“Sì,” rispose il ragazzo, facendo del suo meglio per mostrare un contegno fermo e risoluto.
L'altro annuì grave. “Melesia!” chiamò.
Si fece avanti un giovane lottatore dall'espressione ardita, di poco più piccolo di Andromaco.
“Fatemi vedere un combattimento,” ordinò quest'ultimo asciutto.
Non si era accertato che Democrito conoscesse almeno i rudimenti del pancrazio. Se anche li ignorava avrebbe sempre potuto apprenderli, mentre nessuno avrebbe mai potuto infondergli il coraggio e la determinazione necessari a quella dura disciplina se non li possedeva.

Fu una sconfitta ignominiosa. Democrito cercava di misurasi col suo avversario meglio che poteva, ma i colpi – calci, pugni, gomitate, ginocchiate e botte di qualsiasi altra parte del corpo potesse essere usata per infliggere dolore – gli piovevano addosso da tutte le parti, inferti senza riguardi e con la deliberata volontà di fare più male possibile.
Eppure Melesia non appariva in preda al furore o mosso dall'odio. La sua espressione era tranquilla anzi, quasi distaccata. Si muoveva senza alcuna precipitazione, ponderando e valutando ogni tecnica.
Democrito cadde in ginocchio per l'ennesima volta. Si sostenne esausto poggiando una mano al suolo. Ansimava, grondava di sudore e il sangue che gli colava da un sopracciglio ferito l'aveva quasi accecato. Tutto il corpo gli doleva in modo terribile.
Melesia aspettò quel tanto che gli avrebbe consentito di chiedere quartiere se ne avesse avuta l'intenzione, poi colpì di nuovo, senza nemmeno attendere che si fosse rialzato in piedi.
Democrito crollò a terra rotolando nella sabbia.
L'altro si voltò allora verso Andromaco, che però rimase impassibile. Le braccia conserte, il volto impenetrabile, egli teneva gli occhi fissi sul ragazzo ormai esausto e intontito dalle percosse.
Melesia colpì di nuovo con un calcio e Democrito tentò in un sussulto di rabbia di afferrargli una caviglia.
La cosa non gli riuscì, ma il gesto impressionò positivamente Andromaco, che approvò con un sobrio cenno del capo.
Quando si fu persuaso che Democrito non era più in grado di reagire ma si sarebbe fatto uccidere pur di non arrendersi, Andromaco richiamò Melesia.
Si avvicinò poi al ragazzo che stava cercando faticosamente di alzarsi e gli porse una mano. Lo aiutò a mettersi seduto con la schiena contro una parete, poi gli diede da bere.
“Perdonami,” ansimò Democrito non appena fu nuovamente in grado di parlare, “immagino che ti avrò deluso.”
Colmo di vergogna evitava di guardare Andromaco.
“Al contrario. Sono molto soddisfatto di te.”
“Ma ho perso, non ho superato la prova.”
“Sapevo già che avresti perso, Melesia è troppo forte per te, ma volevo vedere come avresti perso. Il vero carattere di un uomo si vede nella sconfitta, non nella vittoria.”

Cominciò così l'allenamento di Democrito. Quotidianamente si esercitava nei pugni e nei calci contro sacchi costituiti da pelli di animale di volta in volta riempite di semi di fico, cereali o sabbia; apprendeva le diverse tecniche di combattimento e contemporaneamente irrobustiva il corpo, se mai ce ne fosse stato bisogno, con corse, ginnastica e una speciale dieta a base di carne.
Era Andromaco in persona che curava la sua preparazione. Non lo dava a vedere, naturalmente, per evitare che il ragazzo divenisse superbo, ma era decisamente soddisfatto di lui. Egli infatti apprendeva con rapidità e non si risparmiava nei combattimenti. Tutto quello che gli mancava in quanto a prestanza fisica – nonostante i lunghi mesi di allenamento era rimasto relativamente snello e leggero per essere un pancratista – era compensato da agilità, rapidità d'azione e colpo d'occhio.
Anche gli altri atleti erano soddisfatti di lui. Democrito cominciava già a vincere qualche incontro contro i meno forti e Melesia in persona ormai doveva faticare per metterlo a terra.
Se prima lo chiamavano scherzosamente Agnello per la mitezza dei suoi colpi, col passare del tempo il suo soprannome si era mutato in Serpente per la velocità letale dei suoi attacchi.

“Credo che imparerà bene,” osservò Andromaco. Stava seguendo un incontro tra Democrito e Crisippo, un massiccio atleta celebre per il pugno poderoso, che però in quel frangente faticava a colpire il troppo rapido avversario.
“Cosa non si farebbe per strappare un cenno d'approvazione a colui che si ama,” replicò Melesia al suo fianco, senza staccare gli occhi dai due.
“Che intendi dire?”
“Lo sai.”
Andromaco non rispose. Si diresse invece a grandi passi verso i contendenti, che frattanto erano passati alla lotta a terra, e rivolto a Democrito esclamò: “Stringi quella presa! Pensi forse di essere appartato col tuo amante? Hai per caso intenzione di abbracciare Crisippo? Lo devi strangolare, perché se non lo fai sarà lui a strangolare te!”
Gli sferrò una scudisciata sul dorso. Melesia notò l'insolito vigore del colpo.
“La correzione è fondamentale,” brontolò Andromaco tornando accanto all'amico. “Se certi difetti non vengono eliminati per tempo, dopo diventa difficile toglierli.”
“Io non ho detto niente.”
“Perché, cosa avresti dovuto dire?”
“Niente, niente. Però da che ti conosco non ti sei mai giustificato una sola volta per aver dato una sferzata a un allievo.”
“Non mi stavo giustificando...” cominciò Andromaco irritato, ma lo sguardo ironico di Melesia lo convinse a lasciar perdere.
Trascorse qualche istante di silenzio, rotto solo dal lieve tramestio dei lottatori nell'arena, poi, come parlando a se stesso, Andromaco disse: “Deve essere lui a chiedermelo, è la regola.”

Polinice sorrise allegro. “Finalmente ti si rivede, Democrito! Ormai passi tutto il tuo tempo nella palestra del pancrazio. Alcandro è triste, senza di te non sa più chi ingiuriare!”
“Può sempre ingiuriare te, non gli mancherebbero certo i motivi!”
“Ma senti questo! Non è che il pancrazio ti ha dato alla testa e credi di essere diventato finalmente un guerriero?”
I due amici si abbracciarono ridendo.
In effetti Polinice aveva ragione. Da quando era entrato a far parte del gruppo dei pancratisti, Democrito trascorreva in palestra tutto il tempo che le esercitazioni militari gli lasciavano libero, per cui ormai era raro vederlo in giro senza fare niente come un tempo accadeva.
“E come va con Andromaco?”
Alla domanda seguì un lungo silenzio.
“Ma come, vuoi dire che non gliel'hai ancora chiesto?”
“No, io... non me la sento.”
“Non te la senti?” Polinice era incredulo. “Ma se proprio tu smaniavi all’idea di diventare suo amante! Cosa aspetti, che arrivi qualcuno che abbia più coraggio di te e si faccia avanti portandotelo via?”
Con espressione cupa, Democrito rispose: “Morirei di vergogna, penserebbero che gli chiedo di diventare suo amante perché spero che mi favorisca nella palestra di pancrazio.”
“Per i Dioscuri, questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito. Non credo proprio che Andromaco ti favorirebbe se tu diventassi suo amante, perché saprebbe benissimo che così facendo ti renderebbe molle e fiacco. Sarebbe dieci volte più severo, anzi, ma per il tuo bene. Per aiutarti a diventare migliore.”
“Non lo so,” disse l'altro meditabondo, ma non si riferiva alle parole dell'amico. La sua era piuttosto una considerazione legata a pensieri che da tempo lo tormentavano.
Non riusciva ad immaginare un uomo migliore di Andromaco. Egli sapeva essere al tempo stesso gentile e inflessibile, austero e generoso, e con l’esempio virtuoso, più che con il mero esercizio dell’autorità, otteneva dai suoi uomini disciplina e dedizione al massimo grado. In tutta Sparta inoltre non c’era nessuno che nel combattere fosse coraggioso o abile quanto lui.
Era stimato e rispettato senza riserve persino dagli anziani, che pure normalmente avevano qualcosa da ridire su ognuno degli Spartiati.
Paradossalmente, invece di acquisire familiarità con lui, più lo frequentava più provava soggezione nei suoi confronti. Se quando lo spiava di nascosto aveva anche preso in considerazione l’eventualità di diventare suo amante, ora la stessa cosa gli pareva un orribile atto di presunzione.
“Per me gli piaci,” ripeté per l'ennesima volta Polinice, “sarebbe contento se tu glielo chiedessi.”
Immerso nei suoi pensieri, Democrito non disse nulla.

Andromaco sedeva con i suoi compagni intorno alla mensa. Si erano già concessi il frugale pasto che spettava a tutti gli Spartiati e ora conversavano godendosi una coppa di vino.
“Ebbene, come procedono gli allenamenti?” s’informò Deucalione, che sedeva alla sua destra “Pensi che manderemo molti lottatori ai Giochi Olimpici? Nearco è assai soddisfatto dei suoi corridori, e si dice che questa volta non ci sarà gara a cui la città non manderà almeno un atleta.”
“Se questo sarà il volere di Zeus,” rispose l’altro sobriamente dopo una pausa meditativa. “Comunque, per rispondere alla tua domanda,” riprese poi, notando che l’argomento aveva risvegliato l’interesse di tutti i commensali, “anch’io sono soddisfatto degli atleti che si allenano nel pancrazio.”
“Come si comporta il figlio di Agatarco?” intervenne un altro.
“Intendi Democrito?”
“Non altri. Come sta andando?”
Andromaco represse l’impulso di chiedere bruscamente al suo interlocutore perché fosse così interessato al ragazzo. “Bene,” rispose laconico.
“Solo bene? Si dice che lo chiamino Serpente per la rapidità letale con cui attacca!”
Ridendo, Deucalione spiegò: “Non farci caso, sembra che il giovane Serpente sia veloce in tutto tranne che nel dichiarare il suo amore!”
“Un vero peccato, è un ragazzo così bello e coraggioso…”
“Ma non si fa avanti.”
“Insomma, basta!” sbottò Andromaco, scatenando nei compagni un accesso di ilarità.

La palestra era ormai quasi deserta. Stava calando la sera e la maggior parte degli atleti aveva già abbandonato il luogo per recarsi alle mense comuni.
In concentrata solitudine, Andromaco si stava allenando. Non contento dei sacchi presenti, a suo parere troppo molli e cedevoli, ne aveva fatto fare uno speciale pieno di sabbia grossa di fiume, così duro e pesante che se lo colpivano gli atleti con le mani non ancora indurite si trovavano le nocche sanguinanti.
Non mancava molto ai Giochi Olimpici. L'araldo che li annunciava in tutte le città dell'Ellade non era ancora giunto a Sparta, ma presto gli anziani avrebbero proclamato il nome di coloro ai quali sarebbe toccato l’onore di prendervi parte.
Sferrò un pugno poderoso. La fitta di dolore gli arrivò fino alla spalla, ma il sacco si spostò bruscamente, con un gemito delle corde che lo sostenevano.
Col secondo pugno lo intercettò nell’oscillazione di ritorno e di nuovo lo spostò.
Se si fosse trattato di un uomo, a quel punto sarebbe stato come minimo piegato in due ad annaspare in cerca di aria.
Colpì di nuovo, ancora e ancora, in un silenzio concentrato e cupo.
Non poteva rischiare di essere escluso dalla lista dei prescelti. Come avrebbe potuto guardare in faccia Democrito se mai gli fosse capitata una vergogna del genere?

“Ah, ma sei qui. Ti ho cercato dappertutto!”
Andromaco si voltò bruscamente, alle sue spalle era comparso Democrito. Era talmente concentrato nei suoi pensieri che non l’aveva sentito arrivare.
“Scusami, non volevo disturbarti,” mormorò il ragazzo cogliendo uno sguardo torvo, reso ancora più cupo dalla penombra che ormai aveva invaso la sala.
“Fa niente,” rispose Andromaco, “tanto ormai avevo quasi finito.” Si massaggiò le nocche arrossate.
I suoi muscoli poderosi erano lucidi di sudore.
“Ho saputo che hai battuto Melesia,” buttò lì dopo una pausa.
“Ho avuto fortuna.”
“La fortuna non c’entra niente,” fu l’asciutta replica, “sei stato abile.”
Democrito non rispose. Era vero che aveva battuto Melesia. Ormai era diventato così forte, agile e veloce che la maggior parte dei pancratisti faceva fatica a misurarsi con lui.
Andromaco lo fissò negli occhi. “Combatti con me,” disse.
“Qui, adesso?” chiese il ragazzo turbato.
“Qui. Adesso.” Senza aggiungere altro si diresse verso l’arena.
Democrito lo raggiunse in silenzio. Nei lunghi mesi di allenamento non aveva mai combattuto contro Andromaco.
Si era misurato con Melesia, Crisippo, Cleandro, Emone e tutti gli altri, per parecchio tempo le aveva prese e poi, com’era nella natura delle cose, aveva cominciato anche a darle, ma sempre Andromaco era stato una presenza attenta e severa alle sue spalle, che lo valutava e lo correggeva.
Trovarselo ora di fronte come avversario gli suscitava due ordini sentimenti contrastanti, entrambi spaventosamente intensi: onore e gioia da una parte, timore di sfigurare e di attirare su di sé la vergogna dall’altra.

In un silenzio solenne raggiunsero l’arena e si misero in guardia.
Un secondo di immobilità sospesa e si lanciarono con forza terribile l’uno contro l’altro.
La lotta si accese subito furiosa e procedette con alterne vicende: i pugni di Andromaco erano ovviamente più potenti, ma grazie all’agilità di Democrito non sempre andavano a segno. Il ragazzo, per contro, era molto abile negli sgambetti e nelle leve articolari e più volte l’altro si trovò a dover fare affidamento solo sulla sua eccezionale forza fisica per districarsi da qualche presa particolarmente infida.
Entrambi combattevano con foga, al massimo delle loro capacità. Mai al mondo infatti avrebbero voluto disonorare l’avversario facilitandogli di proposito la vittoria.
Alla fine com’era prevedibile prevalsero la forza e la maggiore esperienza di Andromaco.
Preso dall’ebbrezza del combattimento, Democrito gli si fece troppo sotto e per tentare una leva articolare abbassò la guardia.
L’altro lo colpì dall’alto con un pugno a martello sulla nuca.
Il colpo fu brutale e sferrato senza riguardi. L’uomo ebbe giusto l’accortezza di accompagnare il ragazzo nella sua caduta al suolo e di non colpirlo una volta a terra, cosa che invece in un’eventuale gara olimpica si sarebbe senz’altro verificata.
Successivamente si chinò accanto a lui. Constatato che non aveva danni gravi, si sedette tranquillamente in attesa che si riprendesse.
“Mi hai fatto sudare,” gli confidò quando si accorse che si stava muovendo per mettersi seduto. “Sapevo che eri migliorato, ma non pensavo fossi diventato un avversario così impegnativo.”
Ormai nella palestra era quasi buio e Andromaco aveva l’impressione di parlare alle ombre che lo circondavano, più che a Democrito.
Gli giunse la voce del ragazzo, un sussurro lieve che gli fece correre un brivido di desiderio lungo la schiena: “Ho fatto del mio meglio, non volevo che tu fossi scontento di me.”
Di nuovo silenzio. Frattanto la luna era sorta e la sua luce lattescente si riversava in pallide macchie sulla sabbia calpestata dell’arena.
Fianco a fianco, i due sedevano immobili come statue.
Nonostante l’apparente calma, Democrito era profondamente turbato. Il cuore gli batteva all’impazzata e le sue membra tese fremevano come quelle di un animale selvatico che percepisce l’approssimarsi del cacciatore.
Deglutì a fatica, scrutando nel buio fino a riconoscere accanto a sé la figura massiccia di Andromaco, appena disegnata dall’argentea luminescenza contro cui si stagliava.
Ripensò alle parole di Polinice. Solo loro due, al buio, dopo un combattimento nel quale non si erano risparmiati per onorarsi l'un l'altro. Quello era il momento ideale, non gli sarebbe capitata mai più un'occasione così propizia.
Si voltò verso Andromaco. Il suo cuore ora batteva talmente forte da dargli l'impressione di voler balzare fuori dal petto.
L'altro si voltò quasi all'unisono, Democrito percepì che nel buio lo stava fissando. Gli sembrava quasi di sentire il suo sguardo come un tocco bruciante sulla pelle.
“È come nella lotta,” gli giunse la sua voce, “io posso insegnarti quello che ancora non sai, ma non posso infonderti il coraggio se non lo possiedi.”
“Io lo possiedo,” mormorò il ragazzo, con una voce sommessa nella quale si indovinava però una volontà incrollabile.
“Dimostramelo.”
Democrito deglutì di nuovo. Era il momento della verità. Ora era necessario dar prova di compostezza, dignità e dominio sull'istinto. Quelle erano le caratteristiche che un vero Spartiate doveva manifestare in tutte le occasioni, soprattutto se spaventose o terribili come quella che a breve si sarebbe trovato ad affrontare.
Si morse appena un labbro con fare nervoso, quindi cercando di mantenere ferma la voce disse: “Io ti chiedo di accettarmi come amante, se me ne ritieni degno.”
A quelle parole seguì un silenzio che a Democrito parve lunghissimo.
Mi manderà via, riderà di me, pensò fugacemente quasi pentendosi di aver parlato.
E poi sentì la presa forte di Andromaco sulle spalle, e si sentì rovesciare all’indietro, sulla sabbia dell’arena.

Il sodalizio che si stabilì quella notte ricevette grande consenso e divenne in breve pietra di paragone per tutti gli altri.
Andromaco s’era fatto padre, precettore e giudice a un tempo, vigilava costantemente sulla condotta del ragazzo, stimolando con la dottrina e con l’esempio le sue qualità morali. Né sarebbe potuto esistere un censore più inflessibile di ogni comportamento che non fosse improntato alla virtù e alla nobiltà d’animo più integre e pure.
Come aveva previsto Polinice, inoltre, Andromaco, già inflessibile, era diventato ancora più rigoroso e severo negli allenamenti.
Lungi dall’essere compianto, Democrito era guardato con invidia dai coetanei. Essi infatti lo vedevano migliorare di giorno in giorno, come una pianta giovane e vigorosa che sotto le cure di un esperto giardiniere fruttifica mostrando tutto il suo rigoglio.
Agli altri uomini gli anziani citavano la condotta di Andromaco come esempio.
I due erano felici. Il ragazzo spinto dal desiderio di apparire sempre migliore agli occhi dell’amato, questi animato dal nobile intento di fare di lui il più degno degli Spartiati, s’innalzavano sempre di più, e al pari degli dei immortali avevano l’impressione di vedere tutto dall’alto, circonfusi d’una luce d’inimmaginabile nitore.

Giunse infine l’araldo che annunciava i Giochi Olimpici.
Tutti gli atleti che si erano duramente allenati in attesa del momento fatidico furono colti da grande emozione. A breve infatti gli anziani avrebbero deciso chi, fra tutti loro, avrebbe avuto l’onore di gareggiare in onore di Zeus.
Nella palestra del pancrazio il clima era parimenti pervaso di gioiosa aspettativa e i lottatori provavano la particolare ebbrezza che coglie i giovani Spartiati nell’imminenza di una battaglia.
Gli incontri divennero più frequenti e se possibile ancora più duri. Nessuno voleva rischiare di sfigurare paragonato agli altri e ognuno sperava in cuor suo di essere il prescelto.
Abbandonando l’arena dopo un combattimento particolarmente accanito, Andromaco rivolse un sorriso a Democrito. Il ragazzo era diventato davvero bravo. Pur superandolo in altezza e prestanza, aveva fatto fatica a batterlo.
“Sta attento alle prese,” gli raccomandò, “vedi bene che se un avversario molto più forte di te riesce ad afferrarti tu fai fatica a liberarti.” Era così che aveva vinto l’incontro.
“Sì, certo.”
Si sedettero lì vicino per riprendere fiato, proprio nel posto dove mesi prima si erano dichiarati il reciproco amore.
Andromaco gli pose una mano sulla spalla. Aveva un carattere sobrio, addirittura severo, e quello era un gesto d’affetto che raramente Democrito s’era visto rivolgere da lui al di fuori di contesti strettamente privati.
“Potremmo andare alla fonte delle Driadi questa notte,” gli disse a bassa voce.
Si trattava di una sorgente che scaturiva mormoreggiando da rocce antiche e muscose. La radura in cui si trovava era ombreggiata da querce secolari e ingentilita da piante d’ogni genere.
Era il luogo dove normalmente si incontravano quando volevano appartarsi lontano da occhi indiscreti.
“Lo vorrei tanto, Andromaco.”
“Anch’io. Al calare delle tenebre abbandonerai la tua camerata e mi raggiungerai là.”
“D'accordo,” sussurrò il ragazzo.
“Bene. Ora va a cercare Cleandro, è il più forte nelle prese. E mandami Melesia.”

La notte Democrito fece quanto gli era stato ordinato.
Sebbene tutti sapessero che lui e Andromaco erano amanti, era usanza che gli incontri di un certo genere avessero sempre connotazioni di segretezza, quindi persino Polinice fece finta di dormire quando vide l’amico sgattaiolare fuori silenziosamente.
Il ragazzo uscì senza farsi notare, e con la cautela appresa nei lunghi anni di addestramento si allontanò senza fare alcun rumore.
Andromaco nel frattempo aveva già raggiunto la radura.
Il luogo era deserto, gli unici suoni erano le voci degli animali notturni che si chiamavano da una parte all'altra del bosco.
Lo Spartiate li ascoltò attento, un'abitudine ormai radicata il lui. Spesso l'esito di un'imboscata o di un'azione notturna dipendeva da quanta attenzione si poneva nel decifrare i segnali della natura.
Ciò che stava sentendo, per esempio, gli parlava di pace, di tranquillità. Non percepì suoni allarmati nemmeno quando si udirono i passi di Democrito in avvicinamento.
Il ragazzo si muoveva cauto e pressoché silenzioso, solo un orecchio allenato come il suo era riuscito a cogliere l'impercettibile rumore della sua camminata leggera, tuttavia si nascose in una macchia, considerando che anche quell'incontro si sarebbe potuto trasformare in un'occasione di apprendimento. Non ci si avvicina mai a nulla, nemmeno al posto più familiare del mondo, senza prendere le necessarie precauzioni.

Lo vide arrivare da lontano. La luna era quasi piena e riversava su di lui una luce fredda e austera, che lo faceva assomigliare a una perfetta statua di marmo.
Avanzava con un vago sorriso sulle labbra, il suo passo era leggero e il suo atteggiamento quasi spensierato. Una cosa davvero rara per uno Spartiate, che anche nelle occasioni più dolci e piacevoli aveva il dovere di stare all'erta come se si trovasse in guerra.
Si acquattò silenzioso. Quasi gli dispiaceva distruggere quella tranquilla fiducia, ma lo riconfortò il pensiero che così facendo forse avrebbe salvato la vita in futuro al suo amato.
Quando Democrito si fu avvicinato a sufficienza, con un subitaneo frusciare di foglie gli balzò addosso e lo atterrò.
Il ragazzo però ebbe una reazione imprevista: invece di divincolarsi e saltare su con l'agilità che lo contraddistingueva, si mosse in modo pesante e maldestro, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore.
Andromaco ne fu stupito. Da quando lo conosceva, non aveva mai sentito Democrito emettere un lamento. “Che cos'hai?” gli chiese, la voce velata di una vaga apprensione.
“Scusami. Devo essermi fatto male oggi combattendo contro Cleandro.”
“Dove?”
“Al braccio sinistro.”
Subito Andromaco glielo palpò con mani esperte. “Hai fatto controllare da Sinide che non sia rotto?”
“È la prima cosa che ho fatto. Ha detto che l'osso è a posto.”
“Siano ringraziati gli dei. Devi fare degli impacchi e stare a riposo per almeno sette giorni.”
Democrito ebbe un sussulto. Sette giorni? Non poteva assolutamente perdere sette giorni di allenamento, non nell'imminenza delle selezioni per i Giochi Olimpici. In un sussurro preoccupato lo disse ad Andromaco.
“No,” rispose l'altro categorico, “devi far risposare il braccio, altrimenti è peggio.”
“Ma...”
“Non discutere.”
Il ragazzo sospirò senza dire nulla. Andromaco era più grande di lui e aveva più esperienza, era suo dovere obbedirgli.
Sospirò appoggiandosi contro di lui.
“Sette giorni,” ripeté l'altro, con tono al tempo stesso ammonitore e rassicurante.

Democrito fu ligio alle prescrizioni per due giorni, ma al terzo il braccio gli faceva decisamente meno male. O perlomeno lui se n'era incrollabilmente convinto.
Non posso perdere altri giorni di allenamento per un po' di dolore, si era detto, ed era andato come sempre alla palestra. Se c'era una cosa che nella sua vita di giovane Spartiate aveva imparato, del resto, era proprio sopportare il dolore.
Aveva preparato varie argomentazioni per affrontare l'inflessibilità del suo amante, ma si accorse con un certo sollievo che egli non c'era.
Andò allora da Melesia e gli disse che era pronto per combattere.
Questi lo scrutò dubbioso e replicò: “Ma non ti eri fatto male due giorni fa? Cosa ne pensa Andromaco?”
Un secondo di esitazione. “Ha detto che va bene. Sono già guarito.”
“Quand'è così...” rispose l'altro con un'alzata di spalle.
Il ragazzo distolse lo sguardo a disagio. Aveva appena mentito. Melesia non sembrava essersene accorto, la cosa tuttavia non mitigava per nulla il suo senso di colpa.
Mentire era un'azione riprovevole, gli dei avevano in spregio chi mentiva.
Si allontanò velocemente alla ricerca di un avversario.
Alla fine della giornata di incontri il braccio gli doleva così tanto che faceva fatica a muoverlo.

“Sei pronto?”
Polinice aveva già la panoplia completa.
“Arrivo” rispose Democrito. Il braccio sinistro gli faceva un male atroce, quasi non riusciva a muoverlo.
Quando giunsero al campo, Alcandro divise la Compagnia in due gruppi.
“Ricordate i versi di Tirteo?” chiese ai giovani schierati sui due lati della grande spianata adibita alle esercitazioni in ordine chiuso.
Essi obbedienti recitarono:

Chi si tiene unito al proprio commilitone e avanza assieme alla propria linea,
durante gli scontri ha meno probabilità di morire e copre quelli che gli stanno dietro.”

“Molto bene!” approvò Alcandro, “Oggi vedremo la loro applicazione pratica. Il gruppo di destra, panoplia completa. Il gruppo di sinistra, giavellotto.”
Democrito soffocò un'imprecazione. Sapeva cosa sarebbe successo, non era la prima volta: mezza Compagnia avanzava armata di tutto punto, con gli scudi ben alzati, e l'altra metà lanciava i giavellotti contro gli opliti in marcia.
I giavellotti erano veri, ma se la formazione era ben serrata – e raramente accadeva che non lo fosse – il pericolo di farsi male era molto basso, dal momento che elmo, schinieri e scudo proteggevano quasi completamente coloro che avanzavano.
L'esercizio serviva a far capire ai giovani l'importanza di mantenere la formazione quando avanzavano in battaglia.
Essendo nel gruppo di destra, avrebbe dovuto avanzare in formazione, ma come avrebbe fatto a reggere il pesante scudo di bronzo, se quasi non riusciva a muovere il braccio sinistro per il dolore?
Ma non aveva tempo per indugiare in vane riflessioni, gli altri si stavano già preparando.
Reprimendo un gemito, imbracciò lo scudo. Forse avrebbe potuto chiedere al suo comandante di essere esentato, ma così facendo avrebbe dato una vergognosa dimostrazione di debolezza. Preferì stringere i denti.
Le due formazioni cominciarono ad avvicinarsi. I primi giavellotti – lanciati quando non era ancora il momento giusto, senza dubbio Alcandro si era già annotato i nomi dei tiratori frettolosi – oscillavano conficcati nell'erba.
Democrito avanzava a denti stretti tenendo il passo coi compagni. Ringraziò di avere l'elmo, perché lacrime di dolore gli stavano rigando le guance.
Giunse sibilando una nuova salva di proietti.
Tutti alzarono gli scudi. Democrito tentò di fare lo stesso, ma il braccio infine cedette e il pesante disco di bronzo cadde a terra con un funesto rimbombo.
In quello stesso istante Polinice, che marciava alla sua sinistra, crollò a terra con la spalla trapassata.
Vedendo cadere l'amico, istintivamente Democrito si chinò si di lui. Così facendo ruppe la formazione, coloro che si trovavano alle sue spalle inciamparono sul suo corpo e non pochi rischiarono di essere a loro volta trafitti dai giavellotti che nel frattempo stavano continuando ad arrivare.
“Fermi tutti!” ruggì Alcandro, incredulo e furioso di fronte all'inaudito spettacolo cui aveva appena assistito.
Mentre un paio di ragazzi portavano via Polinice svenuto e sanguinante, il comandante di Compagnia raggiunse a grandi passi Democrito.
Questi si raddrizzò e si tolse con deferenza l'elmo.
“Per tutti gli dei!” sbraitò Alcandro, “E tu cosa saresti, un soldato spartano o una balia della Tessaglia?”
Lo colpì in pieno viso con la sferza.
Subito dopo gli rovesciò addosso un torrente di ingiurie, tacciandolo di ogni nefandezza e accusandolo fra le altre cose di avere disonorato con la sua condotta se stesso, suo padre e tutta la Compagnia.
Dritto in piedi, il sangue che gli colava lungo la guancia, il ragazzo non aprì bocca. Lasciar cadere lo scudo era forse la mancanza più grave che un oplita potesse commettere. Significava privare della protezione il compagno di sinistra e quelli che si trovavano dietro, significava distruggere la formazione.
Un oplita non doveva mai lasciar cadere lo scudo.
Giunse infine, dopo la caterva di meritate invettive, la fatidica domanda: “Chi è il tuo amante?”

Essendo l'amante di un ragazzo colui che aveva il compito di occuparsi fra le altre cose della sua crescita etica e morale, era facile che per mancanze particolarmente gravi egli fosse ritenuto responsabile quanto e a volte più del suo protetto.
L'accaduto fu discusso con la massima serietà. La cosa non si limitava infatti ad un errore, seppure estremamente grave, commesso nel corso di un'esercitazione.
C'era ben di peggio: Democrito aveva disobbedito ad ordini espliciti e aveva mentito. Così facendo aveva poi creato i presupposti per quello che era accaduto.
Era una cosa di gravità inaudita e gli anziani non mancarono di farlo notare ad Andromaco, chiamato a rispondere del comportamento del ragazzo.
Se Democrito aveva agito in quel modo, dissero, la colpa era sua. Lui evidentemente non era stato in grado di trasmettere al giovane valori fondamentali come la lealtà e l'onore.
Fu condannato a ricevere cento sferzate sull'altare di Artemide Ortia. Era una punizione insolitamente severa, ma proprio laddove maggiore è la virtù, più odioso e degno del massimo rigore appare il vizio allorquando si manifesta.

Democrito soffrì orribilmente. Per Polinice, in primo luogo, che anche se non era in pericolo di vita era comunque ferito e dolorante per colpa sua, e naturalmente per Andromaco.
Avrebbe dato chissà cosa per essere al posto di entrambi.
Il dolore fisico sarebbe stato una catarsi quasi augurabile dopo quello che era successo.
Per un po' non si era allenato. Era stato lontano dalla palestra del pancrazio, certo che gli altri non volessero avere niente a che fare con lui. Immaginava che se si fosse presentato l'avrebbero scacciato, non giudicandolo degno di misurarsi con loro.
Poi il senso del dovere era prevalso ed egli era tornato, mesto e pieno di vergogna, a cercare Melesia per riprendere gli incontri.
Questi lo accolse con atteggiamento non dissimile dal solito. Lo invitò a prepararsi e a scegliersi un avversario, quindi tornò a dedicarsi alle sue occupazioni.
Mentre diligentemente si cospargeva d'olio, Democrito si accorse che Andromaco si stava dirigendo verso di lui.
Ebbe per un attimo l'impulso di girarsi e scappare, ma giudicando tale proposito indegno d'uno Spartiate rimase ad attenderlo in silenzio.
Egli si avvicinò fermandosi a pochi passi da lui. “Ti aspettavo,” disse.
“Non volevo venire,” mormorò Democrito.
“Perché?”
Il ragazzo chinò il capo. “Lo sai.”
“No. Non lo so. Perché non volevi venire?”
Il ragazzo deglutì. “Provavo vergogna.”
A quelle parole seguì un lungo silenzio. Infine, Andromaco disse: “La vergogna è utile perché ci fa capire che abbiamo commesso degli errori e ci spinge a migliorarci. Se però tu a causa della vergogna fuggi e ti nascondi, come potrai migliorarti?”
Democrito distolse lo sguardo. “Hai ragione,” disse in un soffio, gli occhi rivolti a terra.
“Hai due scelte,” gli giunse allora la voce di Andromaco, “o impari dai tuoi errori e ti impegni a non ripeterli in futuro, o ti lasci sopraffare da essi. Se decidi per la seconda opzione puoi anche andartene adesso, non c'è posto per te qui.”
Il ragazzo rialzò bruscamente la testa, colpito dalla durezza inflessibile che percepiva nella voce di Andromaco.
“È così. Per quanto io ti ami e voglia vederti diventare sempre migliore, non ho nulla da dire a una persona che passa il tempo a compiangersi. Pensi forse che in battaglia il nemico ti consenta di indulgere in simili debolezze?”
“No, non lo penso,” rispose il ragazzo dopo un silenzio greve.
“Ora ti lascio solo,” concluse Andromaco, “se vuoi combattere, finisci di cospargerti d'olio e vieni di là. Se hai deciso di fuggire, conosci la via per tornare da dove sei venuto.”
Democrito lo guardò allontanarsi. L'ampia schiena del suo amante portava ancora i segni dei colpi di frusta.
L'aveva visto sopportare le sferzate con inflessibile nobiltà, di certo anche e soprattutto per dare un esempio a lui.
Sapeva che se avesse deciso di rinunciare a combattere l'avrebbe profondamente deluso.
Sarebbe apparso ai suoi occhi come un individuo meschino, debole, concentrato su se stesso, vile.
Non avrebbe potuto vivere con la consapevolezza di aver dato quell'immagine di sé a colui che sopra ogni altro amava e ammirava.
Finì di cospargersi d'olio.

Gli dei furono evidentemente compiaciuti della sua decisione, perché quando pochi giorni dopo un messo annunciò finalmente i nomi degli atleti che avrebbero preso parte ai Giochi Olimpici, egli apprese che per la specialità del pancrazio erano stati scelti lui e Andromaco.
Accolse la notizia con sentimenti contrastanti. Di certo il suo amante meritava in pieno quell'onore, ma lui?
Aveva commesso azioni riprovevoli, che peraltro non era stato nemmeno lui ad espiare.
Per quanto i rapporti tra loro fossero tornati come prima di quel malaugurato incidente – o non fossero mai cambiati, come si ostinava a ripetere Andromaco – Democrito sentiva che qualcosa s'era incrinato.
Ogni ferita profonda del resto lascia una cicatrice.
Faceva fatica ad essere spontaneo con lui, non riusciva a liberarsi dell'idea di averlo deluso. Era tornato come ai primi tempi, quando aveva ritegno anche a rivolgergli la parola.
Fu Andromaco che lo avvicinò. Un giorno alla fine degli allenamenti lo chiamò a sé e gli fece cenno di seguirlo.
Uscirono dalla palestra attraverso la porta che dava sulle piste per la corsa. Il sole stava scomparendo dietro l'orizzonte in un cielo terso come cristallo. L'aria tiepida della tarda primavera recava il profumo del mirto e del lauro e i cipressi severi si stagliavano in lontananza come lance appuntite.
Andromaco lasciò vagare lo sguardo. Inspirò come per assorbire la bellezza e la serenità che promanavano da quella visione incantata, quindi si voltò verso Democrito con occhi che la luce dorata rendeva chiarissimi e trasparenti. “Vieni con me alla fonte delle driadi stanotte,” gli disse piano. “Sarà l'ultima volta che potremo farlo, almeno fino a che non saranno conclusi i Giochi.”
Gli sfiorò appena la guancia con le dita. Un gesto esitante, insolitamente impacciato.
L'altro levò lo sguardo su di lui. “Davvero vuoi che andiamo alla fonte?” gli chiese con voce sommessa.
Andromaco annuì con un gesto che aveva quasi un'aura di solennità.
I due si abbracciarono. Erano soli contro la parete inondata di sole, nessuno a parte gli dei immortali avrebbe potuto vederli.
Avvinti l'uno all'altro, nudi, la polvere chiara dell'arena ancora addosso, essi si scambiarono un lungo bacio, dolce preludio a quello che sarebbe seguito solo poche ore dopo.

Olimpia lasciò i due stupefatti.
Faone, un corridore che aveva disputato i Giochi già una volta, li aveva avvertiti che avrebbero visto molte cose nuove e strane, ma la città gremita di pellegrini, gli indovini, i vagabondi, i saltimbanchi, i suonatori ambulanti, i venditori che esponevano merci mai viste e la generale atmosfera festosa e colorata resero Andromaco e Democrito ombrosi come cavalli selvaggi.
“Come faremo a stare qui per un mese intero?” protestò il più giovane, fissando truce un uomo gli aveva appena rivolto un apprezzamento volgare. La tradizione voleva che una volta proclamata la Tregua Sacra gli atleti giungessero ad Olimpia e si allenassero come minimo un mese nel ginnasio della città.
Andromaco si guardò intorno con l'aria di una belva capitata in mezzo a un gruppo di cacciatori.
“Lasciali perdere,” gli suggerì Faone.
Democrito fissò nervoso l'amante, cercando di adattare il proprio contegno al suo. Aveva affrontato più volte compagini nemiche, ma era stato paradossalmente più semplice. In quelle occasioni perlomeno aveva saputo cosa fare e come comportarsi.
Lì invece? Gente che vociava, che si metteva tra i piedi, che spingeva, che lanciava apprezzamenti. Carretti, animali da soma che ragliavano. Uomini, vecchi, bambini, donne senza vergogna, con abiti dai colori sgargianti e la faccia pitturata. Tutti che facevano chiasso e si muovevano come le api in un alveare.
Esattamente il contrario della compostezza e dell'austerità che regnavano a Sparta.
Si rifugiarono nel ginnasio frastornati e torvi, con la ferma intenzione di non mettere più piede fuori di lì se non per disputare i Giochi.
Quello infatti era un posto che si avvicinava di più a ciò che già conoscevano: c'erano grandi palestre, piste per la corsa, terme e anche un dormitorio. Il tutto era inserito nell'Altis, il Recinto Sacro, un luogo appartato e tranquillo dove gli atleti non potevano essere disturbati dai clamori della città festante.

Nei giorni successivi i due impararono comunque a destreggiarsi nell'apparente disordine della città sacra. La confusione, che all'inizio era parsa loro spaventosa, si trasformò lentamente in una specie di caos ordinato, nel quale nonostante tutto era possibile riconoscere un metodo.
Appresero i nomi di molte merci che a Sparta non avevano mai visto e scoprirono con stupore che le donne dalle vesti sgargianti elargivano i loro favori a pagamento.
“Qui gli uomini pagano per avere figli?” aveva chiesto Democrito, stupito nell'apprendere l'insolita notizia.
Visitarono anche il tempio di Zeus Olimpico, dove ammirarono la magnifica statua del dio realizzata da Fidia, e il tempio di Era, nel quale venivano custodite le corone di fronde d'ulivo che avrebbero adornato la fronte dei vincitori.
Nel frattempo si allenavano.
Avevano conosciuto quelli che sarebbero stati i loro avversari, atleti molto forti perlopiù, e ne discutevano ogni sera fra loro finito l'allenamento, cercando di capire quali fossero i punti deboli e quelli forti di ognuno.
Il più temibile fra essi era senz'altro Nicagora di Mileto. Era questi un uomo dalla corporatura poderosa, addirittura più alto e più muscoloso di Andromaco, ed era noto in tutta l'Ellade per non aver mai perso un incontro.
Si diceva che le sue prese stritolassero le membra come morse e che i suoi pugni fossero violenti come colpi di maglio.
Tutti lo chiamavano Atlante, perché vederlo corrucciato, coi capelli e la barba arruffati, mentre si piegava in avanti per mettersi in guardia evocava l'immagine del Titano nell'atto di sorreggere la volta celeste.

“Hai paura?”
Democrito fissò l’amante stupito dall’insolita domanda. A Sparta era una vergogna avere paura. E una vergogna ancora più grande era ammettere di averla.
Forse me lo chiede perché mi reputa un vile, pensò con una stretta al cuore. Quell'idea non fece che confermare il suo sospetto di essere scaduto nella stima di Andromaco.
“No, non ho paura,” rispose comunque, e scrutò il viso dell’altro col timore di trovare nella sua espressione una conferma ai dubbi che lo tormentavano.
Mancavano pochi giorni alle gare di lotta. C’era già stata la grande cerimonia di apertura dei Giochi – un turbine frastornante di colori e suoni, la vertigine dello Stadio gremito, il fumo odoroso di resina dei sacrifici, la luce abbagliante del sole estivo che obbligava a stringere gli occhi – e le gare di corsa erano già state disputate.
I due sedevano uno accanto all’altro su una panca ombreggiata dalle fronde di una quercia, albero sacro a Zeus.
Era il termine di una giornata di duri allenamenti e presto sarebbero andati a riposare.
Democrito si appoggiò con un sospiro contro l’amante, sentì il suo braccio circondargli le spalle. Presto avrebbe dovuto dimostrargli il proprio valore e il proprio coraggio. Era poi così vero che non aveva paura?
Paura di sfigurare ai suoi occhi?
“Non lo so,” disse, rispondendo a voce alta ai propri pensieri.
Rimasero in silenzio, il sole calante ammantava d’oro ogni cosa, ovunque regnava una quiete sospesa.
Una civetta mandò il suo richiamo acuto.
“Sai che è stata la dea Atena ad insegnare il pancrazio agli uomini?” disse Andromaco, prendendo spunto dal verso dell’uccello sacro alla Glaucopide.
“Davvero?”
“Sì, infatti il pancrazio è tecnica e strategia, non violenza bruta. Tienilo a mente quando sarà il momento.”
“Lo farò.”
Di nuovo silenzio, a parte un lontano frinire di grilli. L’oro del tramonto si andava stemperando in una penombra densa di profumi.
Democrito alzò gli occhi a fissare l’amante. Seguì con lo sguardo il suo profilo austero, la familiare linea chiara della cicatrice che aveva sul collo, il lento, quasi solenne muoversi del petto negli atti del respiro.
“Dormi con me stanotte,” mormorò.
Lo baciò piano, sfiorandogli appena i capelli con le labbra.
Ma Andromaco ritirò il braccio che gli aveva posto intorno alle spalle. Si raddrizzò indurendo i lineamenti. “Sai bene che non è possibile,” rispose, “siamo qui per disputare una gara, non possiamo disperdere le nostre energie.”
Era prescritto che in vista di una competizione gli atleti si astenessero rigorosamente da ogni contatto sessuale.
Il ragazzo chinò il capo temendo di aver dimostrato ancora una volta la sua debolezza ad Andromaco.
“Scusami,” disse in fretta, e corse via.

Il mattino dopo si svegliò profondamente inquieto.
Quella notte aveva fatto un sogno: La sua corazza era sporca. Provava a ripulirla per farla tornare lucida e brillante, ma nulla sembrava in grado di rimuovere la macchia, che anzi ad ogni tentativo si faceva sempre più grande e orribile a vedersi, nera e densa come pece.
Ricordava ancora l’angoscia che l’aveva pervaso al pensiero di non essere in grado di riportare la sua panoplia allo splendore originario. Una sensazione spaventosa, come di rovina incombente. Nel sogno sapeva che se non fosse riuscito a ripulire la sua armatura anche quella di Andromaco, che normalmente marciava accanto a lui, si sarebbe coperta delle stesse orribili macchie.
Infine calava dal cielo un’aquila che profondamente lo feriva col rostro adunco. Il sangue sgorgava copioso, e non appena toccava la corazza, ecco che le macchie scomparivano ed essa tornava bella e lucente come prima.
E lì aveva provato sollievo, felicità, appagamento. Ma anche una strana e dolorosa sensazione di malinconia. Un’amarezza struggente alla quale non era riuscito a dare una spiegazione.
Ne fu turbato. Aveva sentito dire che spesso nel Recinto Sacro i sogni sono ispirati dal dio, quindi andò alla ricerca di un sacerdote che potesse interpretarlo.
Ne incontrò uno che si chiamava Menandro, un vecchio venerabile dalle vesti candide e dalla barba lunga fino al petto.
Questi ascoltò attentamente il sogno e dopo lunga ponderazione proferì: “Tu hai perduto l’onore e temi che anche il tuo amante l’abbia perduto a causa tua. Il padre Zeus ti manderà una prova. Nel superarla ritroverai l’onore ma perderai la vita.”
“Così sia.” disse Democrito dopo un lungo silenzio.

Il giorno delle gare di lotta lo stadio era un tripudio di grida e colori sotto un cielo di purissimo smalto. Cosparsi d’olio, i corpi nudi degli atleti brillavano al sole come metallo.
Nonostante la folla vociante, la confusione e la tensione per la gara, Democrito non ricordava d'essere mai stato così sereno.
Gli altri Greci si stupivano che gli Spartani andassero in guerra cantando, ma in quel frangente anche lui avrebbe cantato, se solo avesse potuto.
Guardò Andromaco. Alto, magnifico, la statua di un eroe. Anche lui aveva un'espressione tranquilla e sicura. Gli sorrise e lui gli restituì il sorriso.
Poi cominciarono gli incontri.
I primi furono facili. Erano solo eliminatorie e nessun atleta impegnava tutto se stesso nel combattimento, perché ognuno serbava le energie per gli incontri più importanti.
La folla nondimeno incitava fervidamente i suoi beniamini e i severi giudici sorvegliavano con la massima attenzione le coppie intente a battersi per evitare che i contendenti usassero colpi proibiti.

Infine rimasero in otto: i due Spartani, Nicagora da Mileto, Polifrone e Melanippo da Tebe, Demarato da Delfi, Liside da Chio ed Eteocle da Atene.
I lottatori si lanciarono occhiate consapevoli, ora si cominciava a fare sul serio. Finiti gli scontri per così dire amichevoli, era giunto per gli atleti il momento di cercare la vittoria ad ogni costo.
Nell'Heraion c'era la già corona di ulivo che avrebbe adornato il capo del vincitore, tutti l'avevano vista e tutti la bramavano, per se stessi e per dare onore e lustro alla città che rappresentavano ai Giochi.
Tutti sapevano che avrebbero combattuto fino allo stremo per guadagnarla.
Solennemente s'avanzò a questo punto il più anziano e autorevole dei giudici. Sugli spalti calò un silenzio consapevole e carico d'aspettativa: ora sarebbero state sorteggiate le nuove coppie di lottatori.
L'uomo scelse accuratamente le tessere di terracotta con le lettere dell'alfabeto e le mise in un'urna, quindi tutti pescarono.
Coloro che estraevano la stessa lettera avrebbero combattuto insieme.
Andromaco si trovò di fronte Eteocle l'Ateniese e Democrito Melanippo da Tebe. L'altro tebano ebbe la sventura di trovarsi di fronte Atlante.

Alle semifinali arrivarono i due Spartani, Nicagora e Liside.
Fu concesso agli atleti un po' di tempo per riposarsi prima degli ultimi scontri.
Andromaco e Democrito si sedettero un po' in disparte dopo aver bevuto un sorso d'acqua. “Hai visto come combatte Nicagora?” chiese il primo.
L'altro annuì. Eccome se l'aveva visto. Sembrava Briareo dalle cento braccia. Era pericolosamente veloce per essere così grosso, e aveva una forza smisurata. Aveva abbattuto Polifrone, che pure era un uomo alto e robusto, scagliandolo lontano come una palla di stracci vecchi.
“Se dovesse capitarti di combattere con lui,” continuò Andromaco, “ricordati di usare la tua maggiore agilità. E tieni conto che scopre sempre la gola quando tira col sinistro.”
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma una fitta di dolore lo costrinse a tacere.
“Cos'hai?” gli chiese Democrito preoccupato.
“La spalla. Per liberarmi da una presa di Eteocle devo essermi fatto male.”
Cercava di mostrarsi impassibile, ma l'amante lo vedeva stringere i denti con gli occhi lucidi di dolore.
“Come posso aiutarti?” gli chiese a bassa voce.
“Non far capire agli altri che mi sono fatto male, altrimenti il mio prossimo avversario approfitterà del vantaggio.”
“Ma non puoi combattere in queste condizioni!”
“Non ho scelta.”
Democrito non rispose. Aveva visto lo sguardo del suo amante e aveva compreso che nulla sarebbe stato in grado di tenerlo lontano dal combattimento.
Si sarebbe fatto ammazzare pur di non cedere.
In quel momento vennero chiamati al sorteggio.
Le tessere questa volta erano quattro, due alfa e due beta.
Democrito fece scorrere lo sguardo sugli altri contendenti: Andromaco impassibile a denti stretti, un'espressione di feroce risolutezza sul volto, Liside, visibilmente provato dallo scontro precedente, e infine Nicagora, che sbuffava e si agitava come il toro quando minaccia i rivali. Sembrava che gli scontri non l'avessero minimamente stancato, appariva vigoroso e forte come quando era entrato nell'arena per la prima volta.
Il ragazzo pescò la sua tessera: beta.
Guardò quella che Andromaco teneva distrattamente in mano: alfa.
In quel momento esplose l'urlo furibondo di Nicagora: “Alfa! Io ho l'alfa! Massacrerò chiunque di voi abbia la tessera uguale alla mia!”

E arrivò il segno di Zeus.
Forse la folla stava acclamando, ma fu come se sulla scena calasse una campana di perfetto silenzio.
Nel cielo terso si librò una grande aquila, che batté possente le ali e lanciò un grido acuto.
Tutti si voltarono in direzione del rapace. Andromaco si girò bruscamente per seguirlo con lo sguardo e nel movimento la tessera gli cadde di mano. Democrito fu lesto a raccoglierla e gliela porse.
L'aquila scomparve.
Un istante dopo si udì la voce del giudice che chiamava: “Alfa!”
Andromaco fece per avanzare, ma qualcuno lo fermò: “Tu dopo!”
Lo spartano guardò la tessera che stringeva ancora nel pugno e vi lesse una beta.
Possibile?...
Sotto il sole brillante del tardo pomeriggio, splendido e orgoglioso, Democrito stava avanzando con passo sicuro verso l'arena.
Avrebbe cantato se avesse potuto, oh sì, l'avrebbe fatto davvero volentieri. Il più nobile e glorioso dei canti di guerra.
Il suo avversario lo attendeva fissandolo torvo. Gli sorrise quasi con benevolenza. Sapeva già che l'avrebbe sconfitto, il padre Zeus gliel'aveva promesso.
Fa che il mio amante non debba vergognarsi di me, ma anzi in futuro parli con orgoglio di questo combattimento, pregò prendendo posizione di fronte a Nicagora.
Rivolse un fugace pensiero ad Andromaco. Avrebbe desiderato stare con lui un'ultima volta, dargli almeno un ultimo bacio, ma il padre Zeus era già stato fin troppo generoso e decise di accontentarsi.

Giunse il segnale di inizio.
La lotta si accese subito violenta. Nicagora cercò immediatamente di andare alle prese, ma Democrito usava la tecnica del lupo: si teneva lontano, fuori dalla portata dei pugni spaventosi del suo avversario e si avvicinava solo per colpire.
I suoi pugni non avevano molto effetto sulla poderosa massa di Nicagora, tuttavia quel modo di combattere lo disorientava e lo rendeva furioso.
E lo stava anche stancando, soprattutto perché lo costringeva a girare in tondo senza riuscire a bloccare il suo antagonista per portarlo alle prese, ovvero la forma di lotta che gli era più congeniale.
Poi Atlante riuscì a colpire Democrito con un pugno proprio mentre balzava indietro dopo un ennesimo attacco.
Il ragazzo sentì una fitta lancinante al torace. Cercò di non pensare alle costole, che con ogni probabilità erano perlomeno incrinate, e s'impose di respirare nonostante lo spasmo dei muscoli. Si piegò in avanti a denti stretti e lì lo raggiunse un potente calcio.
La folla emise un lungo ooh! di disappunto.
Un attimo dopo i due lottatori erano a terra, furiosamente avvinghiati.
Democrito riuscì a divincolarsi, sgusciò via, saltò in piedi con agilità, l'altro lo afferrò alla caviglia, lo fece cadere di nuovo.
Ancora una volta furono le prese, e ancora una volta il ragazzo sfuggì grazie alla sua maggiore agilità.
Ormai erano entrambi ansimanti e sanguinanti. Democrito barcollava a denti stretti, deciso a non cedere.
Ricordò quello che gli aveva detto Andromaco: scopre la gola quando tira col sinistro.
Si avvicinò a Nicagora, abbassò la guardia con un gesto apparentemente dettato dalla spossatezza.
“Sei già stanco, poppante?” lo sbeffeggiò il suo avversario in un ansare rauco.
Atlante tirò il pugno, un sinistro micidiale.
Nello stesso istante, anche Democrito colpì: un destro poderoso, sferrato con tutte le sue forze dritto alla gola dell'avversario.
E subito dopo sentì l'impatto devastante del pugno di Nicagora contro il viso. Lo zigomo e il collo scricchiolarono, l'uno frantumandosi e l'altro piegandosi brutalmente all'indietro per il contraccolpo.
Il ragazzo arretrò pesantemente, sudore e sangue gli rigavano il viso. Lottò per mantenere l'equilibrio.
Con fatica mise a fuoco il suo avversario e lo vide crollare al suolo con un movimento lentissimo e inesorabile, come quello di un albero abbattuto.
Rimase fermo a guardarlo.
Ci fu un istante di immobilità sospesa, poi il boato degli spettatori arrivò fino al cielo, dove un uccello – forse un'aquila? – roteava altissimo e solenne.
Democrito non lo sentì.
Democrito non sentiva più niente, neppure il dolore dei colpi ricevuti.
Si voltò con fatica, cercando con lo sguardo il suo amante. Lo vide, era in piedi a pochi passi di distanza. Sul suo volto altrimenti impassibile lesse una grandissima emozione.
Si rallegrò, perché ora Andromaco avrebbe vinto senza difficoltà contro Liside e avrebbe conquistato la corona d'ulivo.
Gli sorrise, mormorò un'ultima volta il suo nome.
E cadde.

La pira divampò crepitando e in breve fiamme ruggenti avvilupparono la figura distesa nascondendola alla vista.
Menandro pose una mano sulla spalla dello Spartano più alto e prestante. “Vieni,” gli disse, “spostiamoci più indietro.”
Il calore era ormai insopportabile.
Andromaco obbedì in silenzio, gli occhi fissi sul rogo.
Non avrebbe pianto, a Sparta non si piange.
A Sparta si stringono i denti e si va avanti.
Il suo nome sarà ricordato con onore,” disse semplicemente.
A quelle parole un'aquila si levò in volo mandando un grido possente e s'innalzò roteando maestosa sulle volute di fumo che salivano verso il cielo.
   
 
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