Giochi di Ruolo > Dolce Flirt
Segui la storia  |       
Autore: Angel Cake    25/05/2016    7 recensioni
storia interattiva | iscrizioni aperte fino al O8/O5.
❝ «Lo giuro!», esclamò l’undicenne scalpitante ed emozionatissima al solo pensiero di dover iniziare il suo percorso. Disse quelle due parole con lo stesso tono di chi stesse promettendo ai propri genitori di lavarsi i denti tutti i giorni, o di uscire senza dimenticarsi mai le scarpe. Come se quella promessa, anzi, quel giuramento, fosse la cosa più facile da mantere. ❞
E se i protagonisti di Dolce Flirt fossero tra le mura di Hogwarts? E se tra loro ci foste anche voi?
{ grafica in corso... }
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Kentin, Lysandro, Nathaniel, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Hogwarts
warm blood.

 

 



primo capitolo

 

 « Your shoulder
Bare and staring me down now. »

 

 

 

O1/O9/2O16

I maestri accordano gli strumenti, provano brani, qualcuno emerge sugli altri, poi si spegne. La musica è stridore, confusione. Poi, dal caos, d’improvviso, l’armonia si spande, melodie diverse all’unisono si fondono in un tutt’uno che penetra anche l’anima più semplice.

Gli studenti di Hogwarts, i quali annualmente dovevano prendere il treno che li avrebbe diretti alla scuola di Magia e Stregoneria più conosciuta al mondo, erano un po’ così: il caos che emettevano quando salivano, alla ricerca di un posto dove potersi sedere e passare le ore di viaggio in compagnia delle proprie simpatie o, per i più solitari, una posizione tranquilla dove poter leggere o ripetere in pace, o magari semplicemente pensare. Poi, d’improvviso, quando ognuno aveva trovato un posto di suo gradimento, dalla polvere dei sedili emergeva l’armonia, ogni elemento e persona era al suo posto, tutto assumeva il ruolo e la logica che avrebbe sempre dovuto avere.

Per un’amante dell’ordine come Lilith Sherilyn Willheindom – la quale era solita a scrutare con occhio critico la maggior parte delle persone che le capitassero davanti – era stranamente bello vedere tutta quella massa di adolescenti entrare all’interno del treno, soprattutto essere parte dell’idea che lo racchiudeva e che, alla fine, avrebbe dato un risultato un risultato quasi poetico ai suoi occhi.

La ragazza si umettò le labbra, per poi abbassare lo sguardo, leggermente sorpresa. Tra le mani aveva ancora aperto il romanzo che stava leggendo, fermo a pagina centosessantaquattro. Provava uno smisurato desiderio di continuare quella lettura, ma prima avrebbe dovuto salire sul treno e sedersi da qualche parte, preferibilmente senza qualche Purosangue snob accanto.

Udì alle sue spalle il rumore di un carello, le ruote che sferragliavano contro il marciapiede fino a fermarsi a pochi centimetri dai suoi piedi.

«Ehi piccoletta, hai intenzione di leggere ancora per molto?».

Lilith non rispondeva mai mentre leggeva, spesso perché era troppo trascinata da ciò che stava leggendo, ma soprattutto perché era consapevole che, qualsiasi cosa le avessero detto, non avrebbe mai eguagliato il suo interesse rispetto ai romanzi. Tuttavia, in quell’istante stava semplicemente riflettendo, e poi per lei avrebbe sempre potuto fare un’eccezione.

Si voltò, un leggero sorriso sul volto. Gli occhi color liquirizia di Lilith incontrarono quelli prato della sua migliore amica.

«Ciao, Kim», Lilith istintivamente chiuse delicatamente il libro, il segnalibro a forma di torrone regalato da sua nonna Babbana Jinny accuratamente posizionato tra pagina centosessantaquattro e centosessantacinque.

«Ti vedo in forma!», fece una breve pausa. «Ti ho disturbata?».

«No, sta’ tranquilla».

Mentiva, ma la voce di Kim sembrava essere l’unica alla quale cedesse, qualche volta.

Ma dopotutto, glielo doveva davvero. Ricordava bene il primo anno: non conosceva nessuno e Lilith era troppo orgogliosa e presa dai suoi libri per fare amicizia. E poi, dopo due mesi passati in solitudine, mentre si dirigeva nel dormitorio dei Corvonero – la sua casata – una Grifondoro dalla pelle color caffè più grande di un anno le si parò davanti, le braccia incrociate.

«Io sono Kim Stidolph, Nata Babbana, e voglio essere tua amica», nessun motivo, nessuna spiegazione. Solo ammirevole schiettezza.

L’undicenne aveva alzato gli occhi dal suo libro, sorpresa, sconvolta. Sembrava una persona così diversa da lei. Provò una gioia mastodontica, che difficilmente riuscì a contenere. Aveva un’amica. Un’amica.

«Lilith Sherilyn Willheindom, Mezzosangue».

Un anno dopo era arrivata Violet e le due la presero quasi subito sotto la loro ala protettrice. Lilith voleva un mondo di bene anche a lei: erano entrambe della stessa casata e le loro personalità tranquille e riservate le avevano unite non poco.

«Senti, tu hai già lasciato i bagagli?», la voce di Kim, susseguita dal fischio del treno per avvisare che tra dieci minuti sarebbero partiti, la riportò al presente.

«Eh? Ah sì, all’ultimo vagone c’è un uomo che li sta mettendo nella stiva», indicò dietro di sé.

L’amica si sporse appena, per poi sbuffare. «Cavolo, che fila! E il carrello?».

«Il signore mi ha detto di lasciarlo lì, probabilmente ci pensa lui».

«Okay, grazie piccoletta», Kim la sorpassò, lo stridio delle ruote che lottavano contro l’asfalto. Mentre procedeva voltò appena il capo. «Ah, senti, Violet dovrebbe essere già nel treno. Valla a cercare prima che muoia di timidezza, io poi vi raggiungo».

«Tranquilla Kim, vado a salvarla io», Lilith ridacchiò appena, per poi entrare all’interno dell’espresso.

 

   

 

Per un ragazzo talmente timido come Arthur Axel Kirkland camminare nel corridoio semi affollato del treno era quasi un vero e proprio incubo. Procedeva a testa bassa, spiaccicato contro la parete del treno, per evitare di incrociare lo sguardo di qualsiasi altro studente. Sembrava come se stesse cercando di nascondersi. Era infantile, lo sapeva, ma il suo cervello cercava di convincerlo che se non vedesse nessuno, nemmeno gli altri potevano vedere lui.

Si sentiva così in ansia da non riuscire a respirare, mille pensieri si rincorrevano nella sua testa e si sentiva prudere dappertutto. Voleva solo trovare una cuccetta* vuota: era forse chiedere troppo?

Cercò di concentrarsi sui propri passi: piede destro, piede sinistro. Piede destro, piede sinistro.

All’improvviso sentì una forte pressione sul braccio: qualcuno lo aveva afferrato non troppo delicatamente, e il giovane non poté fare a meno di sussultare dallo spavento, come se fosse stato appena vittima di una Maledizione Cruciatus**. Si voltò di scatto per vedere il viso della persona che l’avesse fermato.

Non che ne avesse bisogno. Sapeva già perfettamente di chi si trattasse. Per un attimo pensò che avrebbe preferito essere vittima di una Maledizione Cruciatus. Sì, una Maledizione Cruciatus forse avrebbe fatto meno male.

Ed ecco che si sentiva di nuovo avvampare, le sue orecchie avrebbero potuto prendere fuoco da un momento all’altro e la temperatura del treno sembrava essere aumentata di almeno dieci gradi.

«Che ci fai qui, Arthur?», gli domandò, e il ragazzo cercò di trattenere un brivido passandosi la mano destra tra i capelli color neve: era da giugno che non sentiva la sua voce. Non se la ricordava così…così bella.

Ti prego, non fare scena muta. Parla. Parla!, gridò a sé stesso nella sua testa. Per qualche istante non capì più cosa stesse succedendo.

«Io…beh, s-sto prendendo il treno», balbettò in preda all’ansia. «E…un posto dove sedermi, i-insomma, sì. Tu non…»

«Questo lo so, che sciocco che sei!», scoppiò a ridere di gusto, dandogli una piccola pacca sulla spalla. «Volevo dire: cosa ci fai qui tutto solo per i fatti tuoi?».

Arthur non rispose, nonostante la sua lingua fremesse dal volergli urlare così tante cose.

L’altro – dal canto suo – non notando alcuna reazione, riprese la conversazione sempre con il sorriso sulle labbra. «Io, Armin e Kentin stiamo in una cuccetta poco lontana da qui, ti aggiungi a noi? Così stai più tranquillo».

Più tranquillo. Come no.

In quel momento il ragazzo si accorse che il corridoio del treno era praticamente diventato semivuoto, indiscutibile segno che il treno sarebbe partito a breve.

«D’accordo, Alexy», in quel momento Arthur posò lo sguardo sui vestiti dell’amico e, prima che quest’ultimo si girasse, gli domandò curioso: «Come mai non ti sei messo la divisa della scuola?».

Per un secondo Alexy lo fissò senza capire, poi abbassò lo sguardo e fece mente locale, mentre la sua espressione cambiò un sorriso dalla sfaccettatura dispettosa. «Col cavolo che mi metto quella tunica deprimente anche quest’anno. E poi il nero non mi dona affatto».

Il Tassorosso dai capelli color neve non poté fare a meno di ridere. «Già mi immagino la faccia della Preside!».

«Credo che quella della Delaney sarà molto peggio!», anche Alexy scoppiò in una risata fragorosa, e risero insieme fino a quando Melody si sporse dalla sua cuccetta e fece segno ai due di fare silenzio.

 «Oops, perdonaci Melody», proferì spensierato Alexy grattandosi la nuca, mentre l’altro si coprì la faccia dall’imbarazzo.

La ragazza lanciò un cipiglio di disapprovo al primo, per poi rientrare nella sua cuccetta sbattendo con forza la porta scorrevole.

«Comunque, credo che spiegherò il mio poco amore per il nero alla Preside. Magari capirà», Alexy riprese l’argomento, parlando a voce più bassa per non farsi sgridare nuovamente. «Voglio dire, non mi chiamo mica Kentin!».

Il sorriso dell'amico si spense in un attimo. «In che senso?», chiese, ma non era sicuro di voler conoscere la risposta.

«Beh», Alexy si scompigliò i capelli blu elettrico. Un rossore quasi impercettibile gli colorò appena le guance. «Voglio dire, Kentuccio sta bene con qualsiasi cosa, perfino con la divisa della scuola o quegli orribili pantaloni verde militare».

Arthur serrò le labbra e si costrinse a sorridergli. Il suo cuore aveva appena perso un battito.

Sì, una Maledizione Cruciatus avrebbe fatto decisamente meno male.

 

   

 

Constance Adeline Paternoster era quasi arrivata alla stazione di King’s Cross, lo sentiva; ormai riconosceva il ritmo dei treni. Prendevano velocità appena usciti dalla stazione, poi iniziavano a rallentare, lo sferragliare si trasformava in un brontolio più sommesso e invece, quando i treni arrivavano alla stazione, si avvertiva lo stridio dei freni. L’espresso di Hogwarts sarebbe partito tra pochi minuti e lei era in palese ritardo come suo solito. Avrebbe dovuto accelerare il passo, ma il carrello era troppo pesante ed era troppo pigra per trovare un minimo di forza di volontà.

Spesso Constance era così persa nei suoi pensieri che non guardava nemmeno ciò che la circondasse. Che poi, che senso avrebbe avuto affrettarsi? Tanto quell’anno sarebbe stato esattamente come tutti gli altri: poltrire sul letto tutto il giorno, sentire le sue compagne di stanza lamentarsi del suo disordine cronico e voti pessimi dovuti ad una totale pigrizia. In quel momento avrebbe potuto essere ovunque: su una spiaggia nel sud della Spagna, o in Italia, con le sue belle casette colorate, o meglio ancora, nella sua camera con il suo letto matrimoniale a baldacchino a mangiare Cioccorane***. Quello sì che sarebbe stato il paradiso.

Sentì una voce chiamarla: era Rosalya, davanti al treno con un’espressione furente e visibilmente seccata.

«Ma che ci fai lì impalata? Possibile che non ti si possa lasciare un attimo da sola? Sbrigati!», quasi strillava, ma Constance sapeva in cuor suo che aveva ragione. Praticamente era diventata più una baby-sitter che un’amica.

L’incantesimo dell’immaginazione era ormai rotto, e faceva spazio alla realtà.

 

Il treno era partito da un paio di minuti e Constance era nella sua cuccetta insieme a Rosalya, e stava guardando incantata fuori dalla finestra i nomi dei cartelli che balenavano dal finestrino con un suono quasi poetico, la strada si snodava come un nastro grigio su e giù dalle colline su cui brucavano le pecore. Il cielo era plumbeo e pesante e le piccole casette che a tratti sfilavano accanto sembravano seminascoste, quasi si vergognassero di essere notate.

«Constance, hai i capelli tutti disordinati!», le fece notare Rosalya. Per lei situazioni del genere erano intollerabili.

La ragazza si voltò verso l’amica, per poi ridacchiare imbarazzata e passarsi una mano tra la chioma disordinata, scompigliandosela ancora di più. «Beh, stamattina mi sono alzata parecchio, parecchio tardi e non ho avuto il tempo di pettinarmeli».

L’altra si limitò ad alzare gli occhi al cielo, per poi frugare all’interno della borsa e prendere un pettine. «Sei sempre la solita», commentò sospirando, per poi passarle il pettine tra i corti capelli biondi.

Constance conosceva Rosalya da quando aveva memoria: i loro genitori andavano discretamente d’accordo e spesso si erano incontrate durante le feste esclusive per i Purosangue. Da bambine avevano giocato tante volte insieme, ed essendo due inguaribili romantiche spesso il tema era una fiaba principesca dove le due trovavano i loro perfetti principi Purosangue e vivevano tutti per sempre felici e contenti. A volte la bionda le aveva offerto di giocare ai naufraghi o ai Dissennatori**** assassini, ma Rosalya rifiutava categoricamente, definendoli giochi “troppo assurdi” o “troppo spaventosi”. Anche durante i primi anni di Hogwarts erano sempre state unite, ma a differenza di Rosalya – che dopo un paio di anni aveva abbandonato il mondo dei bambini e si era lentamente trasformata di una bellissima, armonica ed elegante giovane donna – Constance sembrava essere rimasta intrappolata in uno spirito eterno di infantilità, superficialità, continua distrazione e fin troppa spensieratezza. Senza dimenticare la sua totale mancanza di indipendenza. A quindici anni non sembrava ancora aver trovato una passione o un obbiettivo per il futuro a parte quello di rotolarsi sul pavimento in estate e passare tutto il suo tempo sotto le calde coperte in inverno.

Rosalya era davvero preoccupata per lei e, nonostante non si dispiacesse a farle da mamma oltre che da amica, entrambe sapevano che una situazione del genere non sarebbe potuta durare in eterno.

«Comunque Rosa, mi devi raccontare assolutamente tutto quello che è successo con Leigh! Non mi scappi, eheh!», le sorrise Constance indicandola, la voce fintamente intimidatoria.

Rosalya si portò una ciocca di capelli argentei dietro l’orecchio. «Ecco…», fece una breve pausa, per poi mostrarle la mano sinistra, l’anulare circondato da un bellissimo anello d’oro, dove al centro era incastonata una piccola punta di diamante. «Me l’ha regalato quest’estate, non me lo sarei mai aspettata».

Constance avvicinò il capo all’anello con un’espressione entusiasta. Si passò le mani sulla faccia, per poi tirarsi appena le guance. «Oh, mamma mia. Non. Ci. Credo», si lasciò sfuggire un gridolino emozionato, come se fosse stata lei a ricevere l’anello. «Quindi fa proprio sul serio! Quando te l’ha dato?».

«Il quattordici agosto».

«Il quattordici agosto?!», quasi urlò sconvolta. «E me lo dici solo ora?», si lamentò, offesa.

«Scusami, davvero, ma quest’estate sono stata parecchio impegna…», non riuscì a terminare la frase che l’amica le si scaraventò addosso per farle il solletico sulla pancia.

Constance era davvero contenta per Rosalya, insieme a Leigh era davvero felice. Aveva trovato il principe Purosangue che aveva sognato fin da bambina. Adesso mancava solo lei.

 

   

 

Anche se per Dorabell Lesye Harley quello era un giorno incredibilmente triste, lei era bella, bellissima come sempre. Perfino in quel momento, nella penombra di una cuccetta vuota, infagottata nella divisa nera della scuola, un’espressione malinconica sul volto, appariva in forma smagliante. Quel giorno portava i lunghi e setosi capelli biondo platino in un’adorabile chignon spettinato da cui era sfuggita qualche ciocca che ricadeva sulle spalle. Aveva le unghie pitturate di scarlatto, ma lo smalto era scheggiato: non era certo schiava dei giudizi altrui, nessuno avrebbe potuto accusarla di questo. Ogni dettaglio di lei rappresentava una forma di perfezione, a suo modo.

Era sola in quella cuccetta, perché lei voleva essere sola. Stava cercando di concentrarsi sul libro di testo di Storia della Magia del settimo anno, ma le lettere sembravano solo delle incomprensibili sfocature. Stupidi occhi lucidi.

Chiuse il libro con un tonfo, arresa, e si girò verso il finestrino mentre teneva la schiena rivolta al vagone.

Qualche volta dal vetro della porta scorrevole della sua cuccetta vedeva gli studenti che passavano: c’erano facce familiari, gente con cui aveva frequentato alcuni corsi durante gli anni precedenti. Alcuni si giravano per vedere chi ci fosse all’interno della cuccetta. Dorabell li riconosceva e loro riconoscevano lei, però non era certa che la vedessero per quello che era davvero.

Era una mattinata abbastanza soleggiata, calda ma non soffocante; il sole andava sempre più ad ovest, le ombre si allungavano e la luce lambiva le chiome degli alberi. Il treno si trascinava incessante nella sua corsa.

Il treno si fermò ad un semaforo rosso, ma Dorabell questo già lo sapeva. C’era un semaforo difettoso sulla linea, a metà percorso tra la stazione di King’s Cross e quella di Hogsmeade. O per lo meno credeva che fosse guasto, perché non era mai verde. In tutte le corsie che quel treno avesse fatto, si era sempre fermato a quel semaforo: a volte per pochi secondi, altre per parecchi minuti. Se trovava posto nella carrozza D del treno, come era capitato quasi sempre, e il treno si fermava proprio in quel punto, aveva una visuale perfetta della sua casa preferita: quella al civico 34.

Era come tutte le abitazioni che costeggiavano quel tratto della ferrovia: una villa discretamente grande a tre piani, con un piccolo giardino ben curato e lungo non più di cinque metri, fino alla terra di nessuno che lambiva i binari. Dorabell la conosceva alla perfezione: i mattoni, il colore delle tende della camera al piano superiore, la finestra del bagno con la vernice scrostata, le quattro tegole che si erano staccate dal tetto, sul lato destro.

Dentro quella villa vivevano due maghi, probabilmente Purosangue dato che si trattava di un quartiere molto chic. Erano una bella coppia, entrambi non dovevano avere più di venticinque anni. Lui era molto alto, aveva i capelli color ebano, la carnagione pallida e sembrava un uomo forte e sicuro di sé, mentre lei aveva la carnagione molto scura e i capelli neri e corti, e sembrava essere timida e piena di insicurezze.

Ogni anno li cercava sempre con lo sguardo quando l’espresso era fermo al rosso. La giovane donna si era sempre trovata in terrazza da quando Dorabell aveva preso il treno per la prima volta. Forse era stata anche lei un’alunna di Hogwarts e scorgere il treno che passava le metteva una dolce nostalgia degli anni passati. A volte Dorabell aveva avuto l’impressione che anche lei la vedesse e che i loro occhi si incrociassero e la studentessa sentiva l’impulso di salutarla, ma si sarebbe sentita troppo ridicola. Lui invece non c’era quasi mai; in sette anni di andata e ritorno l’aveva visto solo tre volte.

Ed eccola là, la giovane donna dalla carnagione scura, appoggiata alla ringhiera. Indossava un vestito rosa ed era senza scarpe. Era voltata verso la ringhiera, forse stava parlando con il suo partner che le stava preparando la colazione. Dorabell continuò a guardare lei e la sua villetta, mentre il treno ripartì lento. Non le interessavano le altre abitazioni, men che meno quella che si trovava quattro porte più avanti, e che un tempo era sua e della sua famiglia.

Aveva abitato al 42 di quella strada per nove anni, a partire dal momento in cui era nata: era stata felice ed ingenua da fare schifo, e al tempo stesso profondamente disperata. Non riusciva a guardarla. Era stato lì che aveva costruito le sue memorie insieme ai suoi genitori e a suo fratello. Non ce la faceva; o meglio, avrebbe potuto farcela, voleva, non voleva, cercava di non cascarci. Ogni anno si imponeva di non guardarla, e ogni anno faceva l’esatto contrario. Non poteva farne a meno, anche se non c’era niente da vedere, anche se la faceva stare male.

La casa era lì, come sempre, così come l’avevano lasciata. E pensare che era tutto così perfetto prima che…

No. Non doveva pensarci.

Chiuse gli occhi e contò fino a dieci, quindici, venti. Quando li riaprì erano già passati oltre.

Aveva voglia di alzarsi e andare a cercare Rosalya, la sua raffinatezza e il suo delicato sorriso l’avrebbero sicuramente calmata, senza dimenticare che era forse l’unica persona che potesse definire sua amica all’interno di Hogwarts. Tuttavia preferì non farlo, con lei ci sarebbe stata quel disastro ambulante di Constance Adeline Paternoster, con la sua voce fastidiosamente squillante e quell’ottimismo infantile che non spariva nemmeno se la prendevi a pugni. Probabilmente le avrebbe fatto un sacco di domande e le avrebbe parlato di un sacco di cose di cui non poteva importarsene di meno, quindi preferì rimanere lì, da sola.

Si immaginò la coppia del civico 34: lei era seduta con i piedi sul tavolo e un bicchiere di burrobirra***** in mano, lui era in piedi, dietro di lei, e le appoggiava le mani sulle spalle, con il suo tocco fermo e rassicurante. Nonostante Dorabell non fosse mai stata particolarmente interessata all’amore, a volte non poteva fare a meno di domandarsi cosa si provasse ad avere un uomo nella propria vita, qualcuno che fosse sempre lì per aiutarla e sostenerla, che l’accettasse per quello che era, che l’abbracciasse nel cuore della notte dopo che si era svegliata da un incubo con le lacrime che le cadevano dagli occhi.

Quando ci pensava, il cuore le sprofondava nel petto.

 

 ⌠  ⌡

 

Quando Mariska Jane Eberlin e Priya Jasmine Greengrass raggiunsero Elisewin Alexandra Bloxham nella cuccetta, quest’ultima si stupì non poco nel sentire dal corridoio del treno due voci che sembravano avere una conversazione tutt’altro che piacevole. Elisewin – la quale stava disegnando – chiuse il suo quaderno e guardò le due amiche con un’aria interrogativa.

«Castiel Butterworth sta litigando con la sua ragazza», rispose subito Mariska a bassa voce per non farsi sentire, mentre occupava il posto davanti all’amica. Aveva come suo solito un sorriso vivace sulle labbra. La sua pelle chiara in quel momento era a chiazze rosse, tipico segno – per coloro che la conoscevano bene, come Priya ed Elisewin – che stava cercando di fare del suo meglio per non scoppiare a ridere e fare una delle sue battute squallide.

«Ex fidanzata, oserei dire. Ha appena scoperto che lo tradiva», la corresse la bella Priya – anche lei segretamente divertita dalla situazione – mentre si sedeva accanto a Mariska.

Elisewin lanciò uno sguardo alle sue amiche, stringendo il suo quaderno tra le braccia, come se fosse un peluche. Castiel Butterworth era indubbiamente uno dei ragazzi più attraenti della scuola, conosciuto per la sua cattiva fama, per il suo tipico carattere da Serpeverde e per il suo noto disprezzo verso i Purosangue, specialmente verso Nathaniel Humbert Nithercott, primogenito dell’uomo più importante di Londra nel mondo dei maghi. Nonostante l’odio di Castiel, qualche mese prima aveva provato ad iniziare una relazione con una Purosangue, anche lei Serpeverde, Debrah Janine Ainsworth, ma a quanto pare non stava affatto andando bene.

Probabilmente dopo quest’esperienza chiuderà per sempre con il mondo dei Purosangue, si ritrovò a pensare Elisewin, abbassando il capo pensierosa. Una ciocca di capelli mossi le scivolò lentamente sulla fronte, coprendole una piccola parte del viso.

Senza accorgersene si perse nei suoi pensieri a tal punto da sobbalzare violentemente quando la porta scorrevole della sua cuccetta si aprì con un tondo brutale. Castiel entrò come se nulla fosse, con Debrah che lo afferrava per un braccio e cercava di tirarlo, o per lo meno di trattenerlo.

«Era solo uno scherzo. Castiel. Ti prego, tesoro», lo supplicava, le lacrime agli occhi. Elisewin non poté fare a meno di domandarsi se fossero di coccodrillo o meno.

«Non chiamarmi così!», urlò Castiel, così forte a tal punto che Priya spalancò gli occhi e alzò le sopracciglia, mentre Elisewin sussultò nuovamente e assunse un’espressione da cucciolo spaventato: non aveva mai sentito qualcuno alzare la voce in un modo così terrorizzante in tutta la sua vita. Mariska invece si limitò a guardarli sorridente, mentre muoveva appena le gambe e la testa canticchiando una canzoncina tra sé e sé, come se i due stessero facendo commenti sul meteo o sui risultati dell’ultima partita di Quidditch.

Castiel si passò le mani tra i capelli tinti di rosso e si lasciò cadere sul sedile vicino a Elisewin. Debrah si sedette sulle sue gambe e cominciò a palpargli la t-shirt, come per placarlo.

A quel punto Mariska non riuscì più a trattenersi e bofonchiò all’orecchio di Priya. «Ma se le chiedo di battere il cinque, secondo te controlla l’agenda?».

Debrah si voltò di scatto. «Ti ho sentita, stronzetta», e Mariska come risposta le fece una pernacchia infantile. Prima che quella potesse ribattere, Castiel abbassò le ginocchia, facendola cadere a terra.

«Ahia!», strillò lei.

«La ragazzina non ha tutti i torti, noi abbiamo chiuso. Trovati altre due ginocchia su cui sederti. Non credo che ti sarà troppo difficile».

«Castiel!», frignò mentre si rimetteva in piedi.

Lui non rispose e si concentrò sui paesaggi scorrevoli fuori dalla finestra. Debrah a quel punto lanciò un cipiglio furioso alle tre ragazze presenti nella cuccetta – perfino alla povera Elisewin che non c’entrava nulla in tutto ciò – per poi andarsene con tono altezzoso.

Castiel ammiccò a Mariska come per ringraziarla, e lei per risposta alzò il pollice e si presentò: «Mi chiamo Mariska Jane Eberlin, Tassorosso», si portò una mano sul petto.

«Ed io sono Priya Jasmine Greengrass, Corvonero. Mi dispiace deluderti, ma in questa cuccetta siamo tutte Purosangue».

«Ma quale delusione, al contrario mi sento molto fortunato!», esclamò, ma il sarcasmo nella sua voce era evidente.

Elisewin non si presentò.

Le tre amiche qualche secondo dopo si attardarono a discutere dei progetti per la prima settimana scolastica e per il week-end. Castiel fece per andarsene, ma poi si fermò con loro. Elisewin lo ignorò il più a lungo possibile ma, quando alzò lo sguardo, notò che la stava fissando e la Corvonero si sentì avvampare. Forse si sarebbe dovuta presentare, ma le corde vocali sembravano rifiutarsi di voler collaborare e il Serpeverde rivolse alla ragazza quello che la sedicenne immaginò fosse il sorriso più affascinante del suo repertorio, il quale emanava sesso e ribellione. Vedendo che tentava di sedurla, alzò gli occhi ambrati al cielo.

«Non credo di averti mai incrociata prima. Un vero peccato», commentò il rosso.

«In realtà sì», intervenne Mariska, cercando di non ridere. «Due anni fa in Sala Mensa le hai rovinato la divisa».

Già, non me lo ricordare, pensò la Corvonero ricordandosi della sua povera divisa sporca di Whiskey Infuocato******.

Lui ghignò malizioso. «Ho rovinato parecchie divise durante la mia carriera scolastica».

«Pervertito», sussurrò appena Elisewin, un’espressione disgustata sul volto.

Castiel approfittò del silenziò per avvicinarsi maggiormente a lei. «Timidona, giusto?».

«No», ribatté secca. «Ho un nome».

Il modo in cui lo guardava sembrava divertirlo, il che servì solo a farla infuriare di più.

«Beh? Qual è?».

Elisewin si limitò a far roteare tra le dita la matita con la quale stava disegnando precedentemente, in un silenzio religioso.

«Ti chiamerò Timidona, allora», scrollò le spalle.

La Corvonero guardò le due amiche, poi si girò verso di lui. «Sto cercando di rilassarmi».

Lui raccolse prontamente la sfida. «Sono Castiel. Castiel Butterworth».

«So chi sei», rispose l’altra con un tono di sufficienza.

Incarnò un sopracciglio e ghignò nuovamente. «Lo sai, eh?».

«Non montarti la testa. È difficile non notarti quando tutta la scuola parla male di te».

Si raddrizzò leggermente. «Sì, la gente lo fa spesso». Elisewin alzò nuovamente gli occhi al cielo e lui ridacchiò. «Hai un tic?».

«Come, prego?».

«Un tic. Continui a muovere gli occhi», lo guardò furiosa e lui esplose in un’altra risata. «Però sono occhi davvero niente male. Di che colore sono, dorati?», domandò avvicinandosi un po’ troppo e la ragazza arrossì brutalmente, spingendolo via con tutta la forza che possedesse nelle braccia e si alzò di scatto.

Castiel non poté fare a meno di ridere per l’ennesima volta. «Ehi, ehi, calmati Timidona. Volevo solo guardare», alzò le mani con sguardo fintamente innocente.

«Perché non vai a dare fastidio a qualcun altro, Castiel?», intervenne Priya, la voce era calma ma era percettibile una certa trepidazione, e prese l’amica per mano, rassicurandola.

«Va bene, va bene. Un vero peccato, siete sorprendentemente spassose per essere delle semplici Purosangue», le salutò con la mano in modo ironico, per poi uscire dalla cuccetta.

Elisewin si lasciò sfuggire un sospiro di liberazione e si passò una mano sul viso rosso dalla vergogna e dall’ansia.

Che razza di situazione!

 

 ⌠  ⌡

 

Paige Ambrose era seduta da sola in una cuccetta, non che questo la infastidisse. Gli studenti di Hogwarts erano terrorizzati da lei, e nessuno voleva averci a che fare. Non che questo la toccasse o la ferisse. Dopotutto, gli esseri umani – maghi o babbani che fossero – erano tutti inutili, uno ad uno. Se fosse stato legale, a quest’ora avrebbe già usato tutti e tre gli incantesimi proibiti contro tutti coloro che si erano permessi di sparlare di lei – in sua presenza, poi. Ricordava ancora la fine dell’anno precedente: non le era affatto dispiaciuto usare Levicorpus******* contro quell’idiota di Ambra Ottoline Nithercott; le facce terrorizzate delle sue due stupide amichette erano state troppo esilaranti.

«Il sangue mi diverte, non posso farci nulla», parlò da sola – come ormai era solita a fare – lasciandosi sfuggire un sorrisetto sadico al ricordo.

Voltò lo sguardo verso la finestra: vicino alle rotaie c’era un mucchietto di vestiti. Un indumento arancione, sembrava una camicia, arrotolata insieme a qualcosa di bianco. Avrebbero potuto essere stati buttati tra gli alberi lungo il terrapieno dagli ingegneri che lavoravano a quel tratto di linea e che forse passavano di là abbastanza spesso. Ma avrebbe potuto trattarsi anche di qualcos’altro. E questo “qualcos’altro” per la Serpeverde quindicenne sarebbe stato decisamente più stimolante. Sua madre le diceva che aveva un’immaginazione troppo macabra; anche Jefferson lo pensava. Ma Paige non poteva farci niente: quando vedeva degli abiti ridotti a brandelli, una maglietta sporca o una scarpa spaiata, non riusciva a non pensare all’altra scarpa e ai piedi che la calzavano.

L’espresso sobbalzò e si rimise in movimento; riprese la corsa verso la stazione di Hogsmeade, verso Hogwarts. Ormai mancavano all’incirca soli venticinque minuti prima della destinazione finale. Procedeva lento, appena più veloce di un corridore in buona forma, ma i vestiti scomparvero alla vista. Fuori c’era una studentessa appoggiata sulla porta scorrevole della cuccetta di Paige – si trattava di quell’idiota di Lety Paddon, se non ricordava male – la quale sospirò con forza per sfogare un’inutile irritazione: il treno per Hogwarts in questo punto del viaggio metteva a dura prova la pazienza dei pendolari più rassegnati. La linea che stavano percorrendo in quel momento era vecchia, decrepita, funestata da problemi di segnaletica e di lavori di manutenzione che sembravano non dovessero finire mai.

Avanzarono a fatica, superando magazzini, ponti, capannoni, serbatoi dell’acqua e modeste abitazioni in stile vittoriano.

Paige appoggiò la testa al finestrino e vide sfilare il retro degli edifici, come se fosse il piano di sequenza di un film. Era una prospettiva unica, ignota persino agli stessi abitanti di quelle case. Due volte all’anno, solo per pochi, fugaci istanti, la Serpeverde aveva l’opportunità di sbirciare nella vita di sconosciuti. A suo parere c’era un qualcosa di frustante nel vederli sani e salvi tra le mura domestiche.

Sentì da fuori la suoneria di un cellulare: una canzoncina allegra, e vivace, del tutto fuori luogo. Realizzò che apparteneva a Lety, la quale ci mise un po’ a rispondere, la musica si diffuse tutto intorno.

Il sole quel giorno splendeva, il cielo era terso, ma Paige non aveva nessuno con cui uscire in quei giorni ad Hogwarts e niente da fare. La sua vita scolastica era più complicata prima che arrivasse l’inverno: le giornate sarebbero state lunghe e non ci sarebbe stata l’oscurità a proteggerla. Tutti gli altri studenti sarebbero andati in giro a divertirsi e sarebbero stati tutti così disgustosamente felici. Era deprimente. E lei si sarebbe sentita segretamente a disagio, dato che non riusciva ad essere come loro.

Il suo quinto anno scolastico si stava per spalancare davanti: troppe ore vuote, tutte da riempire.

Nella sua testa continuò a vedere quel mucchietto di vestiti abbandonati lungo i binari. E ghignò.

 

 

 

 

 

 

Sorpresa! Eccomi qua, più che pronta con il primo capitolo di questa Fan Fiction appena terminato. Perdonatemi se ci ho messo così tanto, ma dovete sapere che dato che frequento una scuola privata ogni anno sono costretta a fare degli esami verso inizio giugno, e di conseguenza questo mese sono stata costretta a scrivere e a studiare un sacco di tesine. Insomma, avete capito la situazione.

Scusatemi tanto per la mia assenza, e spero vivamente che questo capitolo possa ripagarvi.(?)

Perdonatemi se trovate degli errori lessicali, di battitura o altro, ma purtroppo non ho una Beta, e sinceramente sono troppo pigra per rileggere il tutto con attenzione.

Parlando della storia: avete visto? Sono riuscita ad inserire tutti gli oc nel primo capitolo, e ho donato uno spazio più o meno equo ad ognuno di essi. Voglio almeno una medaglia per questo.

Tranne per alcuni personaggi, ho voluto maggiormente concentrarmi sugli oc – diciamo – e sui loro rapporti di amicizia. Da come potete notare, sembra esserci un netto distacco tra Purosangue e Mezzosangue/Nati Babbani per ora, perché quasi sicuramente le cose cambieranno con il tempo, eheh.

Comunque, vi piacciono le amicizie? (Per gli oc che hanno amici, obv.)

In questo capitolo sono anche state presentate due coppie: Alexy/Arthur e Castiel/Elisewin. Cosa ne pensate? Li shippate già? Io personalmente sì!

Vi ricordo: OGNI AUTORE DEVE RECENSIRE ALMENO OGNI TRE CAPITOLI, AD INIZIARE DA QUESTO, ALTRIMENTI L’OC VERRA’ BUTTATO FUORI, quindi vi voglio suuuuper attivi. Ci tengo a precisare che non lo faccio per cattiveria, bensì perché ci tengo tantissimo a ricevere le vostre opinioni e se la storia vi sta piacendo, mi danno la carica per scrivere i capitoli successivi. Insomma, cose così. Non credo di pretendere troppo.

Baci da me e palpate da parte di Castiel

Angel Cake (che aspetta con ansia vostre opinioni)

 

 

 

*Cuccetta: l’espresso di Hogwarts è composto da cuccette, alias piccole stanze dove un piccolo gruppo di studenti possa sedersi e chiacchierare in serenità.

**Maledizione Cruciatus: è uno dei tre incantesimi proibiti. La Maledizione Cruciatus viene utilizzata per torturare. Per avere un effetto immediato sulla vittima, bisogna desiderare davvero di far del male. Inoltre, sappiamo che la sensazione che prova la vittima quando è colpita dalla Maledizione Cruciatus è quella di essere infilzato da coltelli bollenti.

***Cioccorane: La cioccorana è uno dei dolci più popolari nel mondo della Magia. L’unico inconveniente è che non sempre si riescono a mangiare poiché, appena viene aperto l’involucro che le contiene, le cioccorane tendono a scappare saltellando. In ogni pacchetto, c'è una figurina d'un Mago o di una Strega famoso/a. Ai giovani Maghi, piace collezionare e scambiarne.

****Dissennatori: Il Dissennatore è una creatura oscura tra le più temibili che popolano il mondo magico. È un essere umano a cui è stata tolta l’anima.

*****Burrobirra: Sicuramente è la bevanda preferita dai maghi di ogni età ed è preparata con birra bionda alla spina, burro fuso, uova, zucchero, e chiodi di garofano. Può essere servita sia calda che fredda ma in entrambi i casi la bevanda risulta rinfrescante. Non è ben chiaro quale sia effettivamente il suo grado alcolico; difatti, seppur i giovani maghi la possano bere liberamente, pare che abbia un blando effetto disinibente.

******Whiskey Infuocato: E’ il distillato più in voga nel mondo magico, un finissimo whisky doppio malto dal sapore intenso e dal colore ambrato. Non è molto diverso dal corrispettivo babbano a parte il procedimento di distillazione ed invecchiamento che è fatto all’antica maniera grazie alla ricetta custodita gelosamente dai discendenti dell’ideatore.

*******Levicorpus: fa levitare una persone a mezz'aria facendola rimanere appese per la caviglia.

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Giochi di Ruolo > Dolce Flirt / Vai alla pagina dell'autore: Angel Cake