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Autore: Itsamess    27/05/2016    7 recensioni
[Soulmates!Johnlock]
In un Universo Alternativo, nessuno resta a lungo un cuore solitario: in un determinato momento della vita fa dei sogni ricorrenti sulla sua anima gemella, la riconosce nella vita reale e vive insieme a lei per sempre felice e contento.
John Watson è tornato dall'Afghanistan da due mesi e mezzo, ma è ancora tormentato da incubi tanto spaventosi da tenerlo sveglio ogni notte.
Sherlock Holmes detesta parlarne ma negli ultimi tempi soffre di insonnia, perché quel meraviglioso ingranaggio che è il suo cervello proprio non ne vuole sapere di starsene buono per un paio d'ore.
[Seconda classificata nel Contest "Il Citazionista" indetto da SherylHolmes sul forum]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Let's be soulmates'
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Al ragazzo che sognai quasi ogni notte per due anni, convincendomi che fossimo destinati a stare insieme: nei sogni mi amavi, nella realtà un po’ meno.
E a Greta, insonne ancora per poco (spero).


Ad occhi chiusi

 
 
Qualche volta la si può incontrare: un giorno, ad un tratto, quando non ci si spera più. Allora si aprono nuovi orizzonti e una voce pare che gridi “Eccola!”.
Si sente il bisogno di confidare a quella persona tutta la propria vita, di darle tutto, di sacrificarle tutto.
Non c’è bisogno di spiegarsi: ci si capisce.
Ci si è intravisti nei sogni.
 
Un’Epifania è solo un modo carino in cui realizzi che sei un idiota
 
 

Erano le due e diciassette quando il mondo esplose e John Watson non riuscì ad impedirlo.
 
Si svegliò urlando a squarciagola e quel minimo di lucidità che gli era rimasta bastò a fargli affondare la faccia nel cuscino, per poter continuare a gridare senza disturbare i vicini, dato che l’ultima volta avevano chiamato la polizia pensando che fossero grida di aiuto - e forse non si sbagliavano completamente. Quando John li incontrava sul pianerottolo, loro lo trattavano sempre con estrema gentilezza e premura, quasi avessero paura di vederlo andare in pezzi da un momento all’altro come una di quelle piramidi di bicchieri di carta che si fanno alle feste per bambini.
 
John era tornato dall’Afghanistan da settantaquattro giorni – perché sì, li stava contando – e ancora non era riuscito ad riadattarsi al mondo civile. E dire che ci aveva provato, frequentando quei gruppi di supporto per ex-soldati, passando da uno psicologo all’altro e affittando sempre e solo piccoli appartamenti in periferia per evitare lo stress del centro. Era stato tutto inutile: la guerra gli era rimasta appiccicata addosso come una maglietta bagnata ed ogni notte era costretto a viverla ancora e ancora e ancora e ancora.
Quella volta non era stato diverso.
Stava camminando tranquillamente lungo il Tamigi, quando un boato bianco e assordante, proveniente dal suolo proprio sotto di lui, non aveva inghiottito tutto. Forse era stato per colpa di una mina inesplosa oppure di una granata dimenticata, non aveva davvero importanza, perché anche se particolari cambiavano, la sostanza rimaneva la stessa.
Non faceva differenza che si trattasse di un supermercato, di Trafalgar Square o di una vallata verdeggiante vista in un documentario della BBC: qualunque posto John stesse sognando sarebbe esploso sotto ai suoi piedi.
I diversi incubi erano solo variazioni sul tema.
 
Prima di coricarsi, John pregava con tutto se stesso che cessassero, ma puntualmente si svegliava tremante e madido di sudore, con un lancinante mal di testa alla tempia sinistra e la consapevolezza che anche quella notte non sarebbe riuscito a dormire, quindi tanto valeva smettere di provarci.
 
Con un lieve gemito si scrollò il lenzuolo di dosso, agguantò il bastone appoggiato al comodino e si diresse in cucina per bere qualcosa. Non aveva davvero sete, lo faceva soltanto per trovare una ragione per alzarsi dal letto. Ultimamente non ne trovava molte.
Zoppicò lentamente fino al lavello, aprì il rubinetto e si sciacquò con forza la faccia per cercare di recuperare un po’ di lucidità. Non era successo niente, stava bene, era solo un brutto sogno. Non era successo niente, stava bene, era solo un brutto sogno. Dovette ripeterselo ancora un paio di volte prima di riuscire a convincersene, perché ogni particolare dell’incubo sembrava così reale-
Prese un profondo respiro, tenendo ancorate le mani al lavello per reggersi in piedi senza bisogno del bastone. Era al sicuro, al sicuro in casa sua, sempre ammesso che si potesse chiamare casa quella scatola da scarpe in cui viveva e da cui l’avrebbero comunque sfrattato nel giro di pochi giorni se non avesse trovato il modo di pagare l’affitto. Comunque, era al sicuro.
Sentiva la gola secca. Per un attimo accarezzò l’idea di tirarsi su con una birra, tuttavia la paura che qualche vicino lo incrociasse sulle scale sbronzo e insonne e si decidesse di nuovo a chiamare la polizia lo fece desistere. Meglio accontentarsi dell’acqua. Si voltò verso la vetrinetta dei bicchieri e rimase pietrificato nello scorgere di sfuggita il proprio riflesso nel vetro dell’anta: stava fissando il volto di uno sconosciuto. Non avrebbe saputo dire con esattezza se fosse colpa del taglio di capelli, che aveva rasato a zero per ragioni di praticità ed igiene, o piuttosto colpa dello sguardo spento e appannato, come se un velo di polvere del deserto gli si fosse posato permanentemente dentro. Qualunque fosse la ragione, sembrava una persona diversa. John aveva sempre saputo che partire lo avrebbe cambiato per sempre, eppure ingenuamente credeva che si trattasse solo di un cambiamento interiore. Il suo corpo però aveva reagito: una zoppia psicosomatica, incubi ricorrenti ed ora anche quella stupida mezzaluna nera che gli era comparsa sul polso. Tempismo perfetto. Proprio quando non riusciva nemmeno a dormire, l’universo gli mandava in sogno l’anima gemella.
 
John non era mai stato incline al vittimismo, eppure in quell’istante provò una grande compassione per l’uomo riflesso nella vetrinetta, quasi che si trattasse di un estraneo. Tentò di fare una diagnosi: erano troppo profondi solchi violacei sotto ai suoi occhi, troppo pallido l’incarnato, troppo dura la linea della sua bocca, perennemente serrata.
Non c’era bisogno di essere un medico per capire che la mancanza di sonno, a lungo andare, lo avrebbe ucciso.
John sfiorò per un istante l’idea, per poi decidere che se davvero doveva morire sarebbe stato per qualcosa di più eroico di un paio di incubi ricorrenti.
 
---
 
Abitando in periferia, John aveva dovuto prendere tre autobus diversi prima di arrivare alla clinica, tuttavia non gli era dispiaciuto tuffarsi nel brusio londinese, abbastanza vivo e fremente da infondergli energia.
Aveva camminato di fretta, fermandosi di tanto in tanto a guardare le vetrine e dare l’impressione di avere uno scopo diverso da quello che in realtà aveva, ovvero immergersi nel mondo civilizzato per dimenticare le sabbie del deserto e le urla e il dolore. Non c’era bisogno che partecipasse davvero- voleva solo vedere gli altri fare cose normali come comprare un bagel o prendere un taxi. Normalità. Gli serviva solo questo. Questo e un quantitativo indefinito di ore di sonno. Almeno a quest’ultimo problema avrebbe trovato presto rimedio, o almeno così si ritrovò a sperare entrando nello studio della dottoressa Sawyer.
 
La stanza era grande e luminosa, tanto che John dovette socchiudere gli occhi per riuscire a metterla a fuoco: scrivania, sedie, lettino, scaffali, donna in camice bianco. Gli faceva uno strano effetto essere per una volta dall’altra parte della barricata, paziente invece che dottore. Si sentiva esposto, vulnerabile e ancora nessuno gli aveva chiesto di togliersi la camicia per farsi auscultare il cuore.
 
«Prego, si accomodi» lo accolse gentilmente la dottoressa, indicandogli la sedia davanti alla scrivania con un gesto eloquente delle mani.
 
A quel punto un’altra persona avrebbe notato gli occhi verdazzurri della donna, o magari i suoi capelli lisci e ramati, sciolti sulle spalle nude. Un’altra persona le avrebbe sorriso e si sarebbe seduta, mentre John rimase immobile, in piedi davanti a lei.
Stava fissando il nome scritto sulla sua targhetta identificativa.
Sarah. Si chiamava Sarah.
Come il deserto, solo scritto in modo diverso.
Doveva smetterla di pensarci.
 
«Si accomodi pure» ripeté chiese la donna dal nome come il deserto, piegandosi leggermente sopra alla scrivania per dargli la mano «Sono la dottoressa Sarah Sawyer»
 
«John Watson» borbottò lui, un po’ imbarazzato, stringendogliela.
 
La donna ebbe un guizzo negli occhi alla vista dell’arco scuro sul polso di John, tuttavia non commentò nulla. Gli fece solo segno di sedersi e domandò con cortesia «Come posso aiutarla?»
 
John si sedette sul ciglio della sedia.
«Vorrei dei sonniferi. Potenti… pensavo a delle benzodiazepine, ma anche dei neurolettici andrebbero bene. Non riesco a dormire. I farmaci che mi hanno prescritto non funzionano. Non più, almeno»
 
Sarah inclinò leggermente la testa e sorrise con indulgenza «Capisco. La sua Epifania si avvicina e lei vuole sognare l’anima gemella»
 
«No, no. Non voglio sognare» replicò John, scuotendo la testa con fermezza «Voglio solo dormire»
 
«Non ci sarebbe niente di sbagliato» lo rassicurò Sarah «L’abbiamo avuta tutti, chi prima, chi dopo… anzi congratulazioni, sono felice per lei!»
 
L’uomo si morse con forza il labbro inferiore e chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro. Non voleva sbottare: si trovava fra civili e in modo civile si sarebbe comportato.
«Non sono qui per questo» ripeté .
 
«D’accordo… comunque non c’è niente di cui vergognarsi… è normale provare il desiderio di sapere chi ci è destinato-»
 
«Mi creda, davvero non mi interessa!» la interruppe lui con rabbia, incapace di trattenersi oltre «Sono il maggiore John Amish Watson, ero parte del 5° Reggimento dei Fucilieri di Northumberland e ho prestato servizio in Afghanistan. Soffro di stress post traumatico che mi è stato diagnosticato da due diversi psicologi e vorrei solamente riuscire a dormire per otto ore di fila senza essere tormentato da dei dannatissimi incubi!»
Aveva esagerato. Quella dottoressa non aveva fatto niente di male per sentirsi urlare contro tutta la frustrazione che notti e notti senza sonno avevano causato. John alzò le mani in segno di resa e aggiunse piano «Mi scusi, mi scusi davvero. Le ripeto, non mi interessa sognare. Voglio solo dormire. Mi prescriva dei sonniferi e giuro che la lascio in pace»
 
Sarah aggrottò la fronte, con un’espressione fra lo stupito e il divertito, e disse
«Lo sa? Lei è la seconda persona che me lo dice, oggi»
 
«E la prima quale è stata?»
 
Sarah fece un cenno della testa verso la porta «Sala d'aspetto. Alto, moro, attaccabrighe. Non può mancarlo»
 
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E infatti non lo mancò: nonostante le urla di un gruppo di ammaccati giocatori di hockey, nonostante il lamento sommesso di un uomo dalla testa fasciata, nonostante il brusio di sottofondo che impregnava l’aria della stanza insieme all’odore dei medicinali e ad un vago sentore di sangue, John capì subito di chi parlava la dottoressa Sawyer.
L’uomo era molto alto – molto più di John comunque – molto moro e decisamente attaccabrighe, almeno a quanto lasciava intendere il suo sorriso beffardo e la vivacità con cui gesticolava mentre discuteva animatamente con la responsabile del banco accettazione.
 
Ad attirare l’attenzione non erano soltanto i suoi modi bruschi, ma anche le sue inusuali scelte di abbigliamento, dal momento che invece di un cappotto, un k-way o un parka – ovvero quello che la gente normale avrebbe messo per uscire di casa - indossava una vestaglia da notte, blu, di seta. Era troppo grande per lui e gli ricadeva informe sul corpo esile, come se fosse stata appesa su una gruccia metallica. Il pallore della carnagione dello sconosciuto non faceva altro che esaltare la sua figura scarna, facendolo assomigliare ad un fantasma o ad una statua di cera di quelle che si trovano nelle cripte delle cattedrali. John si chiese se l’uomo si vestisse sempre così o se quella della vestaglia fosse solo una svista dovuta alla mancanza di sonno. Un po’ stupidamente controllò di non essere uscito di casa in pigiama anche lui.
Per fortuna, no.
 
Intanto l’uomo continuava a litigare con una tale energia da rendere difficile credere che soffrisse di insonnia. Parlava in fretta, quasi senza prendere fiato fra una frase e l’altra e accompagnando le proprie parole con ampi gesti, come se avesse paura che il resto del mondo non capisse la sua lingua.
Il vocio di sottofondo rendeva impossibile cogliere l’oggetto del contendere, così John, dopo aver preso un numerino per giustificare la propria presenza al banco accettazione, si avvicinò per sentire meglio, incuriosito.
 
«Le analisi hanno evidenziato la presenza di numerose sostanze chimiche nel suo sangue, non tutte legali…» stava dicendo in tono grave la donna, sollevando lo sguardo sprezzante dal plico di fogli che teneva in mano «Mi vedo costretta a fare rapporto alla polizia»
 
Lui non si scompose.
«Faccia pure. Anzi, mi saluti l’Ispettore Lestrade, già che c’è»
 
Con un sospiro sconsolato che indicava la sua resa, la donna strappò di mano allo sconosciuto la ricetta medica, per servirlo il prima possibile e liberarsi di lui.
«Allora… Lorazepam» ripeté a bassa voce fra a sé e sé, mentre si voltava verso lo scaffale alle sue spalle, dove probabilmente erano conservati i medicinali.
 
Lo sconosciuto scoppiò a ridere.
«Lorazepam? Sul serio? Non mi fa neanche il solletico!»
 
«Allora del Flunitrazepam» abbozzò lei.
 
«L’ho assunto per così tanti anni che ormai ci diamo del tu- e capisce che dare del tu ad un medicinale dal nome impronunciabile è piuttosto complicato»
 
John represse a fatica un sorriso. Si rendeva conto che non c’era niente di divertente in una seria dipendenza da farmaci, tuttavia la nonchalance con cui l’uomo stava gestendo la situazione lo incuriosiva: evidentemente non era la prima volta che protestava contro dei medicinali troppo blandi, dal momento che aveva la stessa disinvolta irritazione di chi in panetteria lamenta la mancanza di pane fresco. John si trovò a chiedersi quale fosse la ragione per cui quel misterioso sconosciuto non riuscisse a dormire e sperò che non fosse terribile come quella che teneva sveglio lui.
 
«Facciamo così, lei mi da una lista dei famaci che avete e vedo io se sono immune o no»  suggerì l’uomo in vestaglia con arroganza, senza nemmeno alzare gli occhi sulla responsabile quando questa gli passò l’elenco. Lo scorse rapidamente, scuotendo di tanto in tanto la testa a riprova del suo disprezzo per una clinica così poco fornita «Immune, immune, immune, immune da anni… E lo chiama un sonnifero, quello? immune, immune…»
Il tono monocorde e annoiato con cui commentava la lista sembrava quello di un ragazzino che, sfogliando un album di figurine, verifica quelle che gli mancano.
«…immune e immune. Tutto qui? Non ne avete altri?»
 
La donna lo fulminò con lo sguardo e strillò «No, non ne abbiamo! Il prossimo!»
Premette un pulsante e sul display alle sue spalle comparve il numero successivo.
 
Lo sconosciuto allargò le braccia con esasperazione e si voltò a vedere chi stava prendendo il suo posto, probabilmente per attaccarlo con la sua lingua tagliente, tuttavia quando il suo sguardo si posò su John e sul numerino di carta che teneva in mano, la sua reazione fu simile a quella di uno che si avvicina troppo ad una fiamma e rimane sorpreso di sentirla bruciare.
 
Si ritrasse istintivamente.
Nei suoi occhi azzurro ghiaccio comparve un’espressione sorpresa e spaventata che avrebbe potuto ferire un’altra persona, ma non John. Dopo settantacinque giorni di vita civile ci aveva fatto l’abitudine. Aveva imparato a riconoscere quello sguardo di cupo stupore, perché l’aveva letto sui volti di mille altri sconosciuti prima di lui. Dovunque sarebbe andato, la gente lo avrebbe sempre riconosciuto come un reduce: il taglio di capelli militare, la cicatrice sulla spalla, la zoppia che gli rendeva indispensabile l’utilizzo del bastone… erano tutti piccoli particolari che avrebbero sempre urlato al mondo che era stato in guerra e la guerra era stata in lui. Le persone gli lasciavano il posto in metropolitana e lo facevano attraversare anche dopo che era scattato il rosso, spinti da un’emozione indistinta che galleggiava fra la pietà, l’ammirazione e il disagio.
 
A farci caso in realtà lo sconosciuto in vestaglia era parso più spaventato che imbarazzato, tuttavia John non poteva biasimarlo: con le occhiaie nere e profonde che si ritrovava, solo un panda lo avrebbe trovato attraente, senza contare poi il bastone da passeggio, senza il quale camminare sembrava impossibile.
Quella reazione sorpresa forse era l’unica davvero sincera che qualcuno gli avesse mai rivolto.
 
Un leggero colpo di tosse dell’infermiera lo riportò alla realtà.
72. Era suo il numero sul display. John zoppicò fino al banco, firmò un paio di documenti e porse alla responsabile il foglio che aveva scarabocchiato la dottoressa Sawyer. Pensava che si trattasse della ricetta, tuttavia la donna gli fece notare «Qui c'è scritto che lei assume già diversi antidepressivi…»
 
«Sì,  Zoloft e Prozac» ammise John, riducendo la voce ad un sussurro per evitare che mezza sala d’aspetto sapesse che soffriva di attacchi di panico, di tanto in tanto. Senza neanche bisogno di voltarsi, sapeva che lo sguardo dello sconosciuto era fisso su di lui. Probabilmente stava ammirando la catastrofe, con la stessa crudele attenzione con cui si osservano le carcasse di auto dopo un incidente stradale.
 
«Capisco…» commentò l’infermiera, appuntandosi i nomi degli antidepressivi su un bloc notes «Nel suo caso non possiamo prescrivere altri farmaci senza aver fatto delle analisi. Ci vorrà un attimo… Mi segua»
 
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La Sala Prelievi consisteva in una stanzetta piccola e silenziosa, arredata in modo modesto con qualche scaffale, una barella e una pianta finta ad animare l’ambiente, eppure John la preferì all’antistante e chiassosa sala d’aspetto. Aveva davvero bisogno di un po’ di silenzio e pace.
Con un po’ di fatica a causa del dolore alla gamba, John si sdraiò sulla barella e sollevò la manica sinistra della camicia. L’infermiera dovette notare il segno sul suo polso, perché fece un grande sorriso e mormorò qualcosa come felicitazioni o congratulazioni- John non ci prestò molta attenzione, perché era troppo impegnato ad osservare la tavola anatomica appesa al muro. Non che gli interessasse davvero – era un medico, conosceva a memoria il nome di tutte le ossa del corpo umano – ma voleva concentrarsi su qualcosa di esatto e rassicurante. Qualcosa di familiare. Almeno avrebbe smesso di pensare a quello sconosciuto e al fascino che aveva su di lui: non c’era alcuna ragione per cui gli dovesse interessare quel tipo insonne, alto e litigioso, perché John aveva già anche abbastanza problemi per conto suo. Il fatto che entrambi non riuscissero a dormire non significava assolutamente nulla, la gente perde il sonno continuamente. È vero che avevano detto alla dottoressa Sawyer le stesse parole a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, ma questo non voleva dire che erano destinati a stare insieme.
Esisteva l’Epifania, per questo. Se davvero John aveva un’anima gemella – il che non era scontato, dato che purtroppo qualcuno ne era sprovvisto – l’avrebbe incontrata nei suoi sogni e non in una clinica sovraffollata. Senza contare che lo sconosciuto era ben al di là della sua portata. Come avrebbe potuto interessarsi a lui? Un reduce di guerra, malandato, noioso…
Doveva davvero smetterla di pensarci.
 
Appoggiò la schiena al lettino, cercando di rilassarsi e pensare ad altro, anche se era difficile farlo con un ago infilzato nel braccio ed un’infermiera alle prime armi incapace di trovare la vena. John si costrinse a chiudere gli occhi, per evitare di dover vedere ancora quello scempio che avrebbe fatto rivoltare Esculapio nella tomba. Tentò di concentrarsi su qualcosa di bello, ma l’unica cosa che gli veniva in mente era lo sconosciuto. Che di certo era bello, ma non esattamente rilassante. Qualche interminabile istante dopo, il prelievo era stato fatto e l’infermiera incapace era trotterellata via per portare il campione in laboratorio.
 
 
«Le fanno impressione gli aghi?» domandò qualcuno alle sue spalle.
 
John si voltò di colpo, spaventato. Non gli piaceva essere colto di sorpresa, perché gli ricordava troppo le imboscate dei guerriglieri e stava cercando con tutto se stesso di non pensarci. Fermo sulla porta, lo sconosciuto lo fissava. Immobile. Lo sguardo azzurro ghiaccio fisso su di lui.
 
Pensando che non lo avesse sentito ripeté scandendo le parole «Le fanno impressione gli aghi?»
 
«No, io- sono un dottore»
 
«Lo so» rispose l’uomo bruscamente, con la stessa impazienza di chi nei romanzi salta i paragrafi descrittivi e legge solo i dialoghi «La domanda resta comunque legittima»
 
«Non mi fanno impressione gli aghi, ma se posso evitare di vederli trapassare il mio braccio- aspetti, cosa significa che sa che sono un dottore
 
Lo sconosciuto non riuscì a reprimere un sorriso: evidentemente sperava in quella richiesta. «Oh, naturale. Quando l’infermiera ha faticato a trovare la vena lei non ha detto niente per cortesia, ma era evidente che conosceva la procedura meglio di lei, tanto che si è morso il labbro per reprimere l’istinto di correggerla. Poteva essere un drogato o un diabetico, ma l’hanno tradita le piccole abitudini da dottore… Vede, la penna nel taschino, la postura, la fermezza delle mani e» Sherlock sorrise indulgente nel vederlo alzare gli occhi sull’orologio alla parete.
«Il modo in cui controlla l’ora con un rapido cenno del capo, proprio come in una sala operatoria controllerebbe l’ora del decesso»
 
John era rimasto letteralmente senza parole: era abituato al fatto che la gente capisse che era stato in guerra, ma nessuno fino a quel momento aveva dedotto che ci era stato per fare il dottore.
«Wow... È incredibile!»
 
L’altro arrossì. Il sangue affluì alle sue guance pallide come un fiume in piena, colorandole di carminio. Sembrava molto più giovane, così.
«Una cosa da nulla» disse scrollando le spalle. Si spostò dalla cornice della porta e porgendogli la mano aggiunse con la voce un po’ tesa «Mi chiamo Sherlock, comunque. Sherlock Holmes»
 
Era una presentazione degna di un film di James Bond. C’era tutto: il fascino, il nome ripetuto due volte per imprimerlo nella testa dell’interlocutore, lo sguardo sicuro di sé.
L’altro boccheggiò un attimo prima di riuscire a presentarsi decentemente.
«John… Watson»
 
«John» ripeté piano l’uomo, come a sentire come suonava quel nome sulle sue labbra. Era solo un sussurro, ma il tono assorto e lo sguardo lontanissimo di Sherlock bastarono a far arrossire John, che si immaginò mille altre situazioni in cui quello avrebbe potuto gemere il suo nome e poi si maledisse mentalmente per aver anche solo sfiorato l’idea, perché non aveva più sedici anni.
Il nome di John indugiò ancora un istante in mezzo a loro, per poi essere spazzato via da Sherlock, che trasalendo domandò con voce incerta «Allora – John - ti stai divertendo?»
 
Diceva sul serio? A giudicare dall’espressione, sembrava di sì.
«Ehm, non direi. No, decisamente no… un prelievo di sangue non corrisponde esattamente alla mia idea di divertimento»
 
Sherlock si guardò freneticamente intorno, come se si fosse appena reso conto di trovarsi in una clinica e non ad una festa danzante.
«Neanche alla mia!» si affrettò a dire subito «Scusa, era una domanda stupida»
Il suo sguardo si incupì.
 
John cercò di recuperare «No, no, non è necessariamente una domanda stupida... Magari c’è qualcuno che ai prelievi si diverte. Dracula, forse?»
 
Lo sconosciuto sorrise, visibilmente sollevato. «Già, Dracula…»
Era evidente che stava cercando qualche argomento su cui fare conversazione. «È una specie di mostro… giusto?»
 
Cerca una foto di Robert Pattinson e poi ne riparliamo
 
«Cosa?» domandò Sherlock, visibilmente confuso.
 
Lo aveva detto sul serio? John si sarebbe preso a pugni da solo se non avesse pensato di dare un po’ nell’occhio.
«Niente, niente» disse, cercando di cambiare di discorso «Bel tempo oggi, eh? Le previsioni davano temporali sparsi e invece è uscito un sole davvero splendid-»
 
«Se posso chiedertelo, perché sei qui?» lo interruppe bruscamente l’altro, che evidentemente non era appassionato di conversazioni metereologiche.
 
«Non riesco a dormire»
 
Lo sconosciuto sbiancò completamente - sempre ammesso che fosse possibile, dal momento che aveva già una carnagione pallidissima «Oh. Capisco»
Ogni traccia di sorriso era sparita.
 
«E tu, invece? Niente di grave, spero» chiese  John tanto per fare conversazione, sperando che Sherlock non cambiasse di nuovo argomento.
 
Lui fece spallucce «Oh no, solo insonnia. Troppi caffè, immagino»
 
 
L’infermiera tornò nella saletta e annunciò rivolta a John, ignorando deliberatamente il broncio di Sherlock «Ok, le farò avere i risultati fra un'ora. Le direi di restare qui ad aspettare, ma come vede l’ambulatorio è strapieno e abbiamo bisogno di tutto lo spazio possibile…»
 
«Non importa, prenderò un caffè nei dintorni» abbozzò John
 
«Oh no, il caffè in questa parte della città è pessimo, colpa dell’acqua... Potremmo andare a casa mia, non è molto distante»
 
John non aveva ben chiare le ragioni per cui lo sconosciuto si dimostrasse così amichevole. Non voleva farsi troppe illusioni: era un gesto di gentilezza, non poteva essere davvero interessato a lui. Immaginò che si trattasse di una sorta di solidarietà fra insonni o qualcosa del genere, sinceramente era troppo esausto per domandarselo.
Così, con un sorriso di sincera gratitudine che nascondeva l’ennesimo sbadiglio, acconsentì a seguire Sherlock nel suo appartamento a Baker Street.
 
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Quando Sherlock aveva biascicato distrattamente di non fare caso al disordine, John non aveva capito che intendeva avvertirlo di muoversi con circospezione perché sul pavimento erano disposti i risultati di un esperimento di tassidermia, né che si sarebbero dovuti accontentare di un angolino perché il resto del tavolo era cosparso di foto segnaletiche di loschi individui.
Era ormai chiaro che il suo lavoro aveva a che fare con il mondo del crimine. Se poi stesse dalla parte degli angeli o meno era tutto da vedere.
Al solo pensiero, John aveva sfiorato con la punta delle dita la canna della 4 mm che teneva in tasca. Non aveva davvero intenzione di usarla - non era nemmeno carica – ma da quando era tornato non poteva fare a meno di portarla sempre con sé, come un crudele souvenir degli ultimi mesi della sua vita: sapere di essere armato lo faceva sentire meno vulnerabile ed esposto, come se in caso di pericolo il metallo della pistola potesse ricoprire il suo corpo con un’armatura.
«Posso offrirti qualcosa?» gli chiese Sherlock una volta giunti in cucina, facendogli segno di accomodarsi sull’unico sgabello sgombro di scartoffie.
«The, caffè…?»
 
Nonostante provasse il disperato desiderio di restare sveglio, quanto meno per capire se si trovava nell’appartamento di un criminale o di un supereroe sotto copertura, John era consapevole che la caffeina non era l’ideale nelle sue condizioni, quindi propese per l’alternativa.
«Un the, allora… Grazie»
 
In tutta risposta, il moro si precipitò fuori dalla cucina.
John si sporse un po’ dallo sgabello per seguirlo con lo sguardo, poi lo sentì aprire la porta e gridare a mezzo pianerottolo «Signora Hudson? Signora Hudsooooon?»
Questa signora Hudson non doveva essere in casa, perché Sherlock non ottenne alcuna risposta se non quella dell’eco della propria voce. John lo udì fare un altro paio di infruttuosi tentativi prima di arrendersi e tornare da lui.
 
«La tua governante?»
 
«Lei preferisce definirsi padrona di casa ma il senso è quello…»  gli spiegò Sherlock con un gesto impaziente delle mani, come a voler scacciare via dall’aria quelle inutili questioni lessicali, poi aggiunse «Deve essere uscita»
 
John lo guardò girarsi verso i fornelli e bloccarsi lì, come se fosse indeciso sulla prossima mossa da fare. Ovviamente non poteva dirlo con certezza, dato che lo aveva appena conosciuto, eppure sembrava che Sherlock non sapesse nemmeno come aprire il gas, dato che aveva armeggiato brevemente con qualche manopola e si era lasciato sfuggire un sospiro di insofferenza, a cui aggiunse borbottando fra sé e sé «Ok, non sarà così difficile, giusto? La signora Hudson prepara the tutto il giorno e non brilla di intelligenza, quindi-»
 
«Se c’è qualche problema non importa» abbozzò John ad alta voceV nel tentativo di essere gentile «va bene anche un bicchiere d’acqua»
 
Ma l’uomo non aveva alcuna intenzione di arrendersi: frugò in tutti gli armadietti della cucina, lanciando alla rinfusa alle sue spalle tutto ciò che si frapponeva fra lui e le agognate bustine da the, tanto che John dovette schivare più volte i pacchetti di biscotti al cioccolato che gli vennero involontariamente tirati addosso, ma alla fine Sherlock riuscì a trovare tutto l’occorrente.
Riempì d’acqua il bollitore, la mise sul fornello che John era riuscito ad accendere e prese dalla credenza le sue tazze preferite, dal manico arcuato in una linea di ceramica sottile.
Un attimo dopo si rese conto che a meno che non avessero voluto fare colazione sopra ad una distesa di fotografie di presunti falsari, forse avrebbe fatto meglio a togliere dal tavolo tutto il materiale del caso Caffrey e raccolse le scartoffie inerenti all’indagine con un gesto fluido e veloce della mano.
 
«Stai cercando di smettere?» domandò John tutto ad un tratto, cogliendolo di sorpresa.
 
«Di fare cosa?»
 
Con sua enorme stupore visto la relativa estraneità che ancora esisteva fra di loro, il biondo gli prese delicatamente la mano ed indicò il rettangolo bianco sul suo polso sinistro «Di fumare. Anche mia sorella ha provato i cerotti alla nicotina-»
 
Sherlock si svincolò dalla presa e tirò ulteriormente giù la manica, mormorando in fretta «Già. Ci provo»
 
Era evidente che non desiderava mostrarsi debole ammettendo una dipendenza dal fumo, perché era avvampato ed aveva distolto lo sguardo. Nonostante sembrasse particolarmente restio a parlare di sé e a mostrare le proprie emozioni, il pallore della sua carnagione costituiva un buon metodo di rendersi conto di ciò che stava provando, o quanto meno di capire se era a disagio o no. John se ne era reso conto qualche minuto prima, quando l’altro, da perfetto padrone di casa, gli aveva preso sciarpa e cappotto, accorgendosi solo in quell’istante di essere uscito in vestaglia: la scoperta non lo aveva lasciato particolarmente turbato, ma le guance gli si erano tinte di un lieve rossore, quasi impercettibile nella penombra delle scale.
Ed ora, davanti alla sua ritrosia a parlare del fumo, John si ritrovò a pensare a quanto lui e lo sconosciuto fossero simili, come prodotti fallati nello stesso punto: entrambi insonni, entrambi soli, entrambi poco propensi a mostrare il polso sinistro perché poco propensi a mostrarsi vulnerabili agli occhi degli altri. Così come il cerotto alla nicotina era indice di una debolezza poco salutare, il marchio dell’Epifania gridava al mondo che non si era ancora trovata la persona giusta e che si aveva bisogno di un aiuto da parte dell’Universo per non passare da soli la fine dei propri giorni.
Era buffo come un segno così scuro potesse avere lo stesso significato di una bandiera bianca.
John accarezzò il marchio con estrema delicatezza, quasi avesse paura di vederlo scomparire come una traccia di carboncino. Ma il segno rimase sotto la sua pelle, nero e vivido come l’inchiostro.
«Tu l’hai già avuta?» sussurrò lentamente senza sollevare gli occhi dal proprio braccio.
 
«Cosa?»
 
«L'Epifania»
 
John alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere un largo sorriso distendersi sul volto del moro, che aggiunse con voce tagliente «Intendi dire se una mattina mi sono svegliato con la certezza insensata di aver sognato la mia anima gemella? No… e non credo avverrà mai per il semplice fatto che l'Epifania non esiste. È solo una leggenda messa in giro dalle case farmaceutiche per vendere cuscini per auto e mascherine per dormire-»

«D'accordo! E questa come la spieghi?» lo interruppe John piccato, sbattendogli davanti agli occhi il proprio polso come prova definitiva.
 
L’altro però gli dedicò ben poca attenzione e scrollando le spalle spiegò
«Una banale alterazione della pigmentazione epiteliale, risultato di anni e anni di mutazione nel genere umano. Non molto diversa dalla comparsa dei denti del giudizio o della barba»

Sherlock forse sperava di averlo zittito. ma John non si lasciò intimorire da un paio di termini medici e gli fece notare «Se fosse legata al fattore della crescita dovrebbe svilupparsi sempre ad una determinata età, mentre sembra che compaia-»
 
«In un momento particolarmente difficile della vita... Sì, ho sentito anche io la pubblicità. Molto specifico, non trovi?  La maggior parte della gente che conosco dice di trovarsi in un momento difficile… In effetti o si trova nel braccio della morte o lavora a Scotland Yard. Non so quale situazione sia la più tragica»
 
Sherlock non fece in tempo a decidere se fosse peggio la prigione o il dipartimento di Polizia, perché la quiete immobile della cucina fu infranta dall’acuto fischio di una granata.
John fece appena in tempo a sentirlo.
Urlò a squarciagola «A TERRA!» e dopo aver afferrato con forza il braccio di Sherlock, lo trascinò con sè sul pavimento, cercando di sfruttare il tavolo come scudo e di metterli al sicuro dall'esplosione.
Ma non ci fu nessuno scoppio, né urla, né dolore, né altro. 
 
John respirava affannosamente, tenendo gli occhi chiusi con forza. Non voleva vedere il mondo esplodere, non di nuovo. Per quello bastavano i suoi incubi.
Le dita erano ancora strette sulla camicia dell’altro.
Accovacciato al suo fianco, Sherlock non era sicuro di aver capito cosa fosse successo: aveva bisogno di altre informazioni. Quelle a sua disposizione – nell’ordine: cocci di ceramica, movimento improvviso, contatto umano – non erano sufficienti a delineare un quadro ordinato che gli permettesse di decidere come agire davanti alla situazione. John tremava violentemente mentre Sherlock era paralizzato. Rimase per qualche istante con una mano a mezz’aria, indeciso se toccarlo o meno: non voleva peggiorare le cose con un gesto brusco per timore di una reazione violenta, come quelle che hanno i sonnambuli quando vengono svegliati. La logica gli suggeriva di lasciarlo calmare da solo, ma il cuore non era d’accordo. Lo conosceva appena, eppure non riusciva a sopportare di vedere John in quello stato, boccheggiante e morente come un pesce sulla battigia.
Sherlock prese un profondo respiro e poi lo abbracciò goffamente, ripetendo piano «Va tutto bene, va tutto bene. Sei al sicuro»

L’altro aprì finalmente gli occhi.
Tutto sembrava tranquillo, ma come poteva fidarsi della pace uno che era stato in guerra? Del resto c'è sempre quiete prima e dopo la tempesta. 
«La granata-»

«Non c'è stata nessuna granata, John» gli spiegò l’altro con estrema calma e lentezza.

«Cosa stai dicendo, io l'ho sentita... Oh»
Pur restando accovacciato sotto al tavolo, John alzò lo sguardo sul piano cottura: sul fornello che lui stesso, giusto qualche minuto prima, aveva contribuito ad accendere giaceva il bollitore, immobile ed innocuo nonostante l’insistente fischio che avvertiva che l’acqua aveva raggiunto la giusta temperatura.
«Mi dispiace. Mi dispiace davvero»
 
«Non è successo niente, non devi scusarti» lo rassicurò Sherlock, allentando delicatamente la presa fino a sciogliere quell’abbraccio impacciato. Si rimise in piedi ed aiutò anche l’altro ad alzarsi dal pavimento: John si aspettava che gli porgesse il bastone, invece Sherlock gli tese una mano.
 
Non appena fu in grado di reggersi sulle proprie gambe, che a dire il vero tremavano ancora, mormorò «Scusa. Per la tazza-»
 
«È solo una tazza»
 
C’era qualcosa di rassicurante nel guardare Sherlock raccogliere con attenzione i cocci di ceramica sparsi sul pavimento. John arrivò a chiedersi se non avrebbe potuto raccogliere anche i suoi, di cocci, dato che sembrava essere abituato a bordi taglienti e recipienti vuoti. Alla fine John non era molto diverso da quella tazzina infranta, se non per il fatto che forse per lui c’era ancora speranza di tornare intero.
Sherlock versò nel lavello il contenuto del bollitore, perché improvvisamente nessuno dei due aveva più una gran voglia di the, eppure si sedette nuovamente a tavola, come se non fosse successo niente. Restò in silenzio, aspettando che fosse John il primo a dire qualcosa.
 
«Non era un'allucinazione... Io-non sono pazzo» mormorò lui, con il tono di voce più fermo che riuscì a trovare.
 
«Lo so»
 
No, non lo sapeva. Come poteva saperlo, se si conoscevano appena?
John scosse vagamente la testa ed indicò con un cenno il fornello.
«Il fischio del bollitore mi è sembrato- Non ha importanza. Solo sappi che non è pazzia, ma stress post traumatico»
 
«Molto frequente nei soldati» commentò Sherlock piano, come se si trattasse di una notazione a margine.
 
«Come- come sai che sono un soldato?» domandò John, pentendosi un attimo dopo della domanda più stupida della Terra, dal momento che non ci voleva un genio a fare due più due fra zoppia psicosomatica, taglio di capelli corto ed alterazione del ritmo sonno-veglia.
 
Eppure non fu quella la risposta di Sherlock, che con un mezzo sorriso disse:
«Le piastrine. Anche se le tieni sotto la maglia, si intravedono lo stesso perché sono in rilievo sotto la stoffa… Sono un consulente investigativo, ma tu mi rendi le cose davvero troppo, troppo facili!»
 
Ed io che speravo di complicartele
 
«Quindi è per questo che non riesci a dormire»
Non era nemmeno una domanda, la sua.
 
John rialzò gli occhi su di lui: lo sguardo di Sherlock era attento e penetrante, ma non crudele. Di fronte a quell’argomento delicato continuava a fare domande perché spinto dalla curiosità, eppure si muoveva con circospezione, attento a non commettere passi falsi proprio come prima era stato attento a non tagliarsi con i frammenti di ceramica.
Annuì, la testa pesante. «Non appena mi addormento- è come se fossi tornato. In ogni mio fottuto incubo il mondo esplode sotto ai miei piedi. È  terrificante. Comincio a pensare che sia stato un errore andare in clinica. Non voglio dei sonniferi. Non voglio dormire se significa questo»
 
«Devi dormire, il tuo corpo ne ha bisogno» replicò Sherlock con un tono un po’ più duro di prima «Non sarai in grado di sopportare ancora per molto questa mancanza di riposo. E comunque ti addormenterai, prima o poi»
 
«Prenderò del caffè» abbozzò John, con poca convinzione.
 
«Il caffè non basterà! Hai mai visto una persona che affoga, John?»
 
«Ehm, no» rispose cautamente quello, sentendo una stretta di paura allo stomaco «Perché tu invece sì?»
 
«Sì, sì, ovvio!»
La nonchalance con cui ne parlava si trovava sulla sottile linea fra l’inquietante e il divertente e John non poté fare a meno di sorridere.
Sherlock scrollò le spalle e riprese «La gente pensa che chi affoga muoia per asfissia, ma non è vero. Sott’acqua il bisogno di aria è insopprimibile. Ci spinge ad aprire la bocca anche se sappiamo che ci troviamo in mare, perché l’istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altra cosa. Più forte di quello che vogliamo, più forte di quello che pensiamo di volere… Tu ti addormenterai, prima o poi, e non puoi farci niente. Quello che puoi fare è lasciarti aiutare»
 
«E da chi?»
In fondo conosceva già la risposta. Voleva solo sentirsela dire.
 
«Da me» rispose Sherlock con una semplicità disarmante, prima di dichiarare in tono solenne «Accetto il caso»
 
Il biondo scoppiò a ridere.
«Non c’è nessun caso! Tu indaghi per omicidio e io non sono ancora morto»
 
Sherlock lo ignorò, come se il suo contributo non richiesto fosse completamente irrilevante.
«Devi riposare. Trasferisciti qui, con me. Monitorerò il tuo sonno e ti sveglierò non appena mi accorgerò che stai avendo un incubo, d’accordo?»
 
Uno sconosciuto che aveva incontrato circa trenta minuti prima, insonne, attaccabrighe e decisamente troppo alto per i suoi gusti gli aveva appena chiesto di andare a vivere con lui in un appartamento pieno di foto di killer e arti imbalsamati. Era semplicemente una follia pensare di accettare, John se ne rendeva conto… eppure che cosa aveva da perdere? A casa lo aspettavano solo silenzio e incubi e stanze vuote. Lì a Baker Street forse gli incubi sarebbero rimasti, però ci sarebbe stata un’altra persona al suo fianco, un altro commilitone a combattere insieme a lui.
«Perché?» gemette piano John, incapace di trattenere più a lungo la domanda che gli risuonava nella testa, insistente come un ticchettio «Perché fai tutto questo per me? Non mi hai mai visto»
 
«No, non-»
John ebbe l’impressione che Sherlock stesse per dire qualcosa di cui si sarebbe pentito o di cui non era sicuro, perché si fermò, mordendosi le labbra come a sbarrare l’uscita alle parole. Lo vide chiudere per un attimo gli occhi - niente più azzurro – poi riaprirgli e scandire con voce impostata «Non è importante se ti conosco o meno... Tu sei un cliente, ora, e io sono l'unica chance che hai»
 
John lo conosceva da troppo poco tempo per capire se era sincero o meno, quindi abbozzò semplicemente un sorriso e andò a fare le valigie.
 
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A parte quel paio di volte in cui aveva sperato di potersi fare un sandwich e aveva trovato dentro al frigorifero solo pollici umani, John non si era pentito della sua scelta di trasferirsi da Sherlock: gli dava un senso di sicurezza sapere di avere una persona alla quale poter dire “sono a casa” una volta richiusa la porta, anche se quella persona il più delle volte non rispondeva perché appisolata sul divano o chiusa nel Palazzo Mentale o immersa fino ai gomiti in una sostanza non meglio identificata.
 
C’era.
Era questo l’importante.
John si divertiva a cogliere i leggeri segni della sua presenza, bricioline di pane che non potevano condurlo a casa solo perché vi si trovava già: gli piaceva tendere l’orecchio e sentirlo borbottare distrattamente commenti sulle notizie del telegiornale, gli piaceva lanciargli occhiate fugaci e vederlo scrivere chissà che cosa sul suo inseparabile portatile, ma soprattutto gli piaceva saperlo accanto a sé quando si trovavano nella stessa stanza, perché l’aria era meno fredda e il vuoto meno assordante.
Alla luce del sole si rivolgevano appena la parola, raccontandosi a vicenda di essere troppo impegnati con il proprio lavoro: Sherlock faceva la spola fra Baker Street e Scotland Yard, mentre John era stato assunto come medico generico nella clinica Sawyer e lavorava fianco a fianco con la dottoressa dal nome del deserto, anche se ormai non ci faceva più caso. Fra capsule Petri e rapporti di balistica per uno e ricette e spalle lussate per l’altro, ogni giorno trascorreva lento e simile al precedente, ma la notte-
La notte aveva smesso di essere un periodo di tempo ed era diventata un luogo, una terra straniera dove Sherlock e John potevano incontrarsi a metà strada. Non si facevano domande e prendevano quel poco che l’altro poteva offrire, fossero tremori e gemiti indistinti o mani ferme e impacchi freddi sulla fronte.
A dire il vero, la prima notte non era andata esattamente come previsto, dal momento che John, rintanatosi sotto le coperte per il freddo, aveva temuto di essere vittima di un’altra delle sue allucinazioni quando aveva visto Sherlock  prendere a pugni il cuscino.
«Cosa stai facendo?» aveva domandato ad alta voce, mentre si dava un pizzicotto sul braccio per essere certo di non essere in uno dei suoi simpatici incubi.
 
Sherlock aveva interrotto quell’iniquo incontro di boxe e con l’aria di uno che parla ad un bambino aveva risposto lentamente «Sprimaccio il cuscino»
 
«Questo lo vedo, la domanda è perché lo fai! Non avevo capito che avremmo dormito nella stessa stanza…»

Sherlock aveva alzato le mani in segno di resa, in un gesto che John aveva visto solo nei polizieschi e che supponeva l’altro avesse imparato a Scotland Yard.
«Sono disarmato» aveva dichiarato solennemente.

«Cosa?»

Come a riprova delle proprie parole, Sherlock si era platealmente tastato le tasche del pigiama e aveva ripetuto «Sono disarmato. Non devi avere paura che possa farti del male, Mycroft mi ha fatto ritirare il porto d'armi... Sembra che tema per la mia incolumità»
 
«Non è questo che temevo, io- Lascia perdere»
Con un sospiro esasperato John si era girato dall’altra parte per non lasciare che Sherlock si accorgesse di quanto era arrossito, perché anche se nella penombra della stanza sarebbe stato comunque difficile notarlo la prudenza non era mai troppa. Aveva ingerito un paio di sonniferi ed era subito piombato in un sonno profondo.
 
La nave rollava incessantemente a destra e a sinistra, come strattonata da due litiganti, tanto che John aveva dovuto aggrapparsi alla ringhiera dell’imbarcazione per non perdere l’equilibrio. Non riusciva a reggersi in piedi, ma la gamba per una volta non c’entrava. Era colpa del pavimento. Lucido e scivoloso e… inclinato. Gli ci era voluto qualche istante a rendersi conto che tutte quelle urla che sentiva sovrastare la tempesta erano grida d’aiuto. La nave stava affondando. Uno scoglio, un iceberg come in Titanic o una falla nello scafo- qualunque fosse la ragione, lo sciabordare d’acqua sotto ai suoi piedi non faceva presagire nulla di buono.
Era stato allora che John lo aveva sentito: tra le grida, il vento e le onde risuonava una richiamo, dolce e rassicurante come il canto di una sirena, ma salvifico invece che mortale.
 
«John» ripeteva la voce «John, svegliati»
 
John si era sentito scuotere con forza le spalle e finalmente si era svegliato, stravolto, tremante e tutto sudato, tanto che i capelli che avevano iniziato a ricrescergli si erano attaccati alle tempie.
A fissarlo, due occhi azzurro ghiaccio, del colore che doveva essere il mare del nord in autunno.
Si era salvato da un oceano solo per annegare in un altro. 


«Ti agitavi nel sonno. Ho pensato di svegliarti» aveva spiegato Sherlock, mordendosi le labbra sottili per timore di aver commesso un errore ed aver interrotto magari il sogno più bello di sempre.
«Era un incubo?»
 
«Sì, ma è passato»
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La seconda notte Sherlock lo aveva  salvato da un altro incubo e la terza da un altro ancora, intervenendo sempre un attimo prima che la situazione precipitasse, come del resto tutti gli eroi.
 
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La quarta notte John si era accorto dell’astuccio del violino che Sherlock aveva maldestramente nascosto sopra all’armadio e gli aveva domandato di suonare per lui. Ogni nota era scivolata sul suo corpo, appena avvolto dalle lenzuola, con una delicatezza tale da sembrare una carezza e non un suono. Quando si era addormentato, cullato da una melodia sconosciuta e forse composta per lui,  il suo sonno era stato profondo e senza incubi, ma non aveva avuto l’Epifania.
 
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La decima notte Sherlock doveva essersi reso conto che il ticchettio dei tasti del portatile poteva dargli fastidio ed aveva deciso di passare a metodi di scrittura più convenzionali, accontentandosi di carta e penna. Quando John gli aveva domandato a cosa stesse lavorando, Sherlock aveva risposto che era un caso Top Secret e che se davvero insisteva avrebbe anche potuto parlargliene, ma poi avrebbe dovuto ucciderlo. John aveva commesso il grave errore di obbiettare che gli avevano ritirato il porto d’armi e Sherlock si era messo ad elencare tutte le altre modalità possibili per commettere un omicidio. John si era addormentato molto prima della fine dell’elenco.
 
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La quattordicesima notte l’Epifania era a metà del suo corso e sul polso di John il cerchio nero era perfettamente a metà, simile una cupola bruna o un sorriso disegnato. Anche il letto era diviso a metà: una pila di cuscini separava i due neo-coinquilini, da quando John aveva sorpreso Sherlock a rubargli le coperte.
 
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La diciottesima notte era stata Londra ad esplodere. Sherlock era intervenuto appena in tempo, asciugamani bagnati sulla fronte e thermos di camomilla e miele. John ci aveva messo venti minuti a calmarsi del tutto e ancora un tremore involontario gli tormentava le mani, eppure era solo il suo corpo ad essere scosso. Dentro di sé sentiva – sapeva – di trovarsi a casa, sano e salvo.
L’alba aveva fatto capolino fuori dalla finestra e Sherlock aveva chiesto cautamente «Come ti senti?»
 
«Al sicuro» era scivolato via dalle labbra di John  «Felice»
 
L’altro era rimasto interdetto per qualche istante e poi aveva riformulato la domanda «No, intendevo sapere come sono le tue funzioni vitali»

John stava imparando ad amare i suoi goffi tentativi di fare conversazione, insieme alle mille altre cose che invece aveva amato da subito. Questo però non glielo disse. Rispose «Ah buone, credo »
 
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La ventesima notte John si era svegliato con un braccio appoggiato sul petto di Sherlock e la spaventosa certezza di non avere alcuna voglia di spostarlo. Lo aveva spostato, alla fine, ma solo perché avevano iniziato a formicolargli le dita.
 
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La ventisettesima notte un blackout aveva fatto saltare la luce in tutto il loro quartiere ed  il buio aveva tinto di inchiostro le pareti della camera, la spalliera del letto e i loro corpi esausti. Sherlock si era lanciato in una filippica a favore dell’oscurità completa, che a suo dire evitava di affaticare gli occhi e giovava ad un sonno più sereno, la voce calda e avvolgente come la coperta di lana sotto alla quale si erano rintanati per sopperire alla mancanza di riscaldamento. John era sdraiato di schiena, la testa sul cuscino. Si sarebbe potuto dire che fissasse il soffitto ma era tutto talmente buio che era impossibile distinguere anche solo un particolare della stanza. Sherlock continuava a parlare di fotorecettori e bastoncelli con la passione con la quale un genitore avrebbe raccontato al figlio una fiaba prima di dargli la buonanotte. Poco importava che John avesse una Laurea in Medicina e conoscesse a memoria il volume che l’altro stava citando: il semplice fluire delle parole lo cullava nel dormiveglia. Era tutto così buio che non sapeva neanche bene dove si trovasse Sherlock, se in piedi accanto al letto o a pochi centimetri da lui. Il suono della voce non poteva aiutarlo, perché invece di fornirgli informazioni spaziali finiva solo per confonderlo, tanto era suadente e familiare.
Per un folle istante, lo assalì il terrore di essersi immaginato ogni cosa: l’appartamento, la tazza infranta, la camomilla, la sinfonia da Beethoven e le partite a Cluedo.
Sherlock.
Era vero o era solo un’altra delle sue allucinazioni da stress?
John aveva allungato a tentoni la mano sull’altro lato del letto e non l’aveva fermata fino a quando non aveva avvertito sotto le dita la pelle calda e viva e reale di Sherlock.
«Sei reale» aveva mormorato  piano, accarezzandogli il braccio o il torso o qualsiasi parte del corpo stesse toccando.

«Non ti sfugge proprio nulla» aveva replicato l'altro con sarcasmo, forse solo per cambiare discorso e non concentrarsi sul fatto che la sensazione era piacevole anche per lui.

John aveva sorriso e non aveva risposto, ma dentro di sé aveva pensato a quanto Sherlock fosse reale sul serio. Forse l'unica cosa davvero reale da quando era tornato. L’idea lo fece addormentare con un sorriso ad incurvargli le labbra.
 
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La ventottesima notte era iniziata nel peggiore dei modi a causa di un palinsesto televisivo tanto tremendo che John per un attimo aveva pensato di rifiutarsi di pagare il canone, tuttavia con un sospiro si decise a rimandare le sue rimostranze contro la BBC ad un altro momento e cercare di dormire un po’, dato che erano già passate le undici.
 
Si alzò stancamente dalla poltrona nella quale era sprofondato e spense la televisione. Soffocando a stento uno sbadiglio mormorò  «Io credo che andrò a letto» aspettandosi che Sherlock gli rispondesse qualcosa, o quanto meno desse segni di vita, tuttavia il moro non rispose: era seduto al tavolo della cucina, con la testa china sui libri. I ricci scuri gli coprivano il volto, tanto che era impossibile sapere per certo quale fosse la sua espressione, eppure qualcosa nel suo comportamento lasciava intendere che era frustrato. Stava sfogliando furiosamente le pagine di un grosso volume, fermandosi ogni tanto per scribacchiare annotazioni sul suo taccuino.
 
Forse non lo aveva sentito, pensò John, del resto quando era immerso nella lettura era difficile che prestasse attenzione alla realtà esterna, anche quando questa cercava di mettersi in contatto con lui. Negli ultimi giorni era accaduto spesso che Sherlock si estraniasse da tutto e tutti e passasse ore davanti al computer o sui libri, quindi doveva essere stato commesso un delitto davvero efferato se ancora non era riuscito a venirne a capo… In ogni caso nessuno quanto John poteva conoscere gli effetti della privazione del sonno, quindi fece un ultimo tentativo per convincere l’amico a riposare un po’ e a seguirlo in camera da letto.
Si schiarì la voce e disse di nuovo «Io vado a dormire, vieni con me?»
 
Un mese prima quella frase avrebbe avuto un significato diverso, simile a potrei avere un incubo e ho bisogno che mi svegli.
Ma John non aveva fatto alcun brutto sogno nell’ultima settimana e se voleva Sherlock con sé era solo e soltanto perché desiderava avvertire la sua presenza silenziosa e rassicurante al suo fianco. Voleva potersi svegliare nel cuore della notte e sentire il suo respiro regolare o il ticchettio delle sue dita sulla tastiera del portatile. Voleva stropicciarsi gli occhi, al risveglio, ed intravedere la sagoma sottile del suo corpo aggirarsi per la stanza in punta di piedi, per fare piano.
Decise di cambiare strategia e con noncuranza domandò «Posso darti una mano con la tua ricerca?»
 
«Non capiresti» rispose subito Sherlock, senza nemmeno levare lo sguardo dal suoi preziosi appunti.
 
«Prova a spiegarmi» tentò John in tono conciliante, facendo qualche passo verso di lui per mostrare tutta la propria buona disponibilità.
 
In tutta risposta l’altro richiuse in fretta il taccuino.
John si ritrasse sorpreso: se si trattava di lavoro perché doveva mantenere tutto quel mistero? E se invece non era qualcosa legato alle indagini, che cosa stava scrivendo di tanto personale da non potergli far leggere? Non erano due estranei, avevano condiviso la stessa casa – lo stesso letto - per quattro settimane, quindi era così assurdo pensare che fossero- amici?
Il rancore fu subito sostituito dall’insopprimibile curiosità di sapere cosa mai ci fosse scritto in quel maledetto taccuino e con un gesto fulmineo John lo afferrò prima ancora che Sherlock potesse aprire bocca per protestare.
 
«Mettilo giù» intimò il moro con grande cautela, come se non si trattasse di un notebook ma di un’arma da fuoco.
 
«Perché, cosa ci hai scritto dentro?»
 
«Annotazioni»
Il tono della sua voce era teso come una corda di violino.
«appunti»
 
«Tipo un diario segreto?» lo stuzzicò John, che iniziava a trovare divertente la situazione.
 
Sherlock alzò gli occhi al cielo.
«Cos’ho, quattordici anni?! No, che non è un diario segreto! Ma è segreto. Quindi mettilo giù» esclamò,  tentando bruscamente di riprendersi il maltolto.
 
Il taccuino finì a terra.
Un paio di fogli millimetrati caddero sul pavimento, insieme a schizzi di grafici a torta e tabelle disegnate a matita. John non poté mascherare la sua delusione: allora si trattava davvero di lavoro. Per un attimo aveva sperato che fosse qualcosa di personale, qualcosa che gli permettesse di capire più a fondo Sherlock, il quale era sempre piuttosto riservato sulle sue emozioni.
John si chinò in fretta per rimediare a quel pasticcio e raccogliere come meglio poteva i fogli, ma lo sguardo gli cadde su uno dei grafici.
In cima allo schizzo c’era scritto Andamento sulla fase REM.
E su un altro Ritmo sonno/veglia.
Perché mai Sherlock stava facendo ricerche sul sonno-
 
«Su di me» realizzò John con la voce ridotta ad un sussurro «I tuoi appunti sono su di me»
 
«Posso spiegarti tutto, John» disse cautamente Sherlock, rinfilando i foglietti fra le pagine del taccuino senza nemmeno guardarli. I suoi occhi di ghiaccio erano fissi sull’amico. «Ma non stasera. Ho davvero bisogno di tutto il tempo possibile per terminare la mia ricerca-»
 
Giusto, prima il lavoro e poi il resto del mondo, come sempre del resto.
John era rimasto paralizzato. Le parole di Sherlock lo avevano colpito in mezzo allo sterno con la stessa crudele violenza di un pugno. Aprì la bocca per replicare, ma non riuscì ad articolare nessun suono coerente.
Quindi si era sempre trattato di questo, di una raccolta dati per una ricerca scientifica? Gli aveva mentito fin dall’inizio, usandolo per scopi informativi. Era questa la ragione per cui gli aveva detto di trasferirsi lì, per poter controllare a vista la cavia designata- o meglio il Soggetto, come lo chiamava in quel suo stupido taccuino.
Soggetto. Questo era per lui. Un soggetto da studiare, nient’altro.
 
Sherlock si era rialzato dal pavimento ed aveva appoggiato il notebook sul tavolo, sopra a mille altri libri aperti e letti a metà.
«Te lo prometto, domani risponderò a tutte le tue domande-»
 
«NO, rispondimi ora!» lo interruppe John, gridandogli addosso tutto il suo risentimento «C’è mai stato qualcosa di-reale, fra di noi?  O è si è sempre trattato di uno dei tuoi cazzo di esperimenti?»
 
Il silenzio di Sherlock fu una risposta abbastanza eloquente. In ogni caso John non voleva sentirsi dire nessun’altra bugia. Non gli lasciò molto altro tempo per ribattere, perché subito lo investì nuovamente di tutta la rabbia di cui era capace.
«Non riesco a crederci. Io… ti ho rivelato ogni singolo dettaglio dei miei incubi perché avevo bisogno di un amico mentre tu-»
 
«Io avevo bisogno di dati, sì!» ammise finalmente Sherlock. Sembrava che si fosse liberato di un peso enorme. «Ognuno dei due avrebbe avuto quello che desiderava. Mi è sembrato uno scambio equo»
 
Non lo era e lo sapevano entrambi, tuttavia era inutile continuare a discutere come se si potessero davvero cambiare le cose. Tutto ciò che a John restava di fare era di cercare di schiarirsi le idee allontanandosi il più possibile da quel dannato appartamento. Agguantò il cappotto.
 
«Dove stai andando?» gli urlò dietro Sherlock, con una punta di smarrimento nella voce.
 
John non si voltò nemmeno. «Non ti interessa! O forse sì, devi aggiornare i tuoi appunti con una bella mappa dei miei spostamenti?»
 
«D'accordo, non dirmelo…» gridò allora Sherlock, punto sul vivo «Ma se fossi in te disattiverei il GPS del cellulare- o la geo localizzazione ti tradirà»
 
«Fottiti, Sherlock, dico sul serio» sentenziò John, prima di sbattere la porta dietro di sé.
 
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Aveva camminato per quasi un’ora spinto solo dal desiderio di mettere più distanza possibile fra sé e  Baker Street - dal momento che ogni dettaglio di quel quartiere gli ricordava Sherlock e gli faceva salire il sangue alla testa – ed ora si sentiva davvero troppo esausto per continuare.  In condizioni normali, non avrebbe cercato conforto nell’alcool – in famiglia bastava Harry – tuttavia a quell’ora della notte gli unici locali aperti erano immancabilmente pub, quindi John si decise ad entrare nel primo che incontrò.
Una volta accomodatosi al bancone ordinò un’aranciata sotto lo sguardo divertito ed incuriosito degli altri avventori. Scelse di non farci caso. Non gli importava davvero di niente, giunto a quel punto. Per ingannare il tempo senza pensare al litigio che aveva appena avuto sfogliò distrattamente un giornale sportivo e fece un orribile origami con un tovagliolo, fino a che qualcosa non attrasse la sua attenzione. Il barman aveva sintonizzato la televisione su un canale di sole news, dove una bionda anchorwoman stava leggendo in tono monocorde:
 
«...adesso di un'esplosione verificatasi in Baker Street in seguito ad una presunta fuga di gas. Due i feriti lievi»

Sherlock.
Lo shock per un attimo lo paralizzò. Poi lasciò distrattamente una banconota sul bancone e si precipitò fuori dal pub.
 
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Il panico spazza via ogni traccia di razionalità.
Avendo passato molti anni di specializzazione in ospedale, John Watson sapeva bene che si potevano dare informazioni su un paziente solo ai suoi familiari, eppure  continuava a chiederle ad una povera infermiera innocente, ripetendo che doveva solo sapere se il suo amico stava bene e che sarebbe rimasto lì anche tutta la notte fino a che non avesse avuto sue notizie.
«Me lo lasci vedere, solo un minuto» la pregò per la millesima volta.

«Mi dispiace, non sono autorizzata» gli ripeté lei per la millesima volta.

John stava perdendo anche l’ultimo grammo di pazienza che gli era rimasta, quindi prese un profondo respiro, contò fino a tre e poi nel tono più civile possibile disse «Mi ascolti. Io credo di essere innamorato di quell’uomo e vorrei vederlo prima che sia troppo tardi, quindi lei ora mi dice la camera e mi lascia andare-»

«Camera 201… non c'è bisogno di scaldarsi tanto» borbottò un po’ imbarazzata una voce sconosciuta alle sue spalle.
 
John si voltò sorpreso: l’uomo indossava un elegante completo gessato e delle scarpe tanto lucide da potercisi specchiare, eppure tutti i tentativi che aveva evidentemente fatto per darsi un tono erano vanificati dalla sua espressione sconvolta. Aveva pianto, lo si capiva dagli occhi rossi. Doveva essere qualcuno molto legato a Sherlock. Prima ancora che John potesse aprire bocca quello domandò «Sei lui, non è vero?»
 
«Lui
 
L’uomo misterioso sospirò e scosse la testa, come infastidito dall’ottusità di John, e ripeté «Camera 201. Dovrebbe svegliarsi a momenti, ormai»
 
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Tutto sommato, era stato fortunato.
L'esplosione aveva fatto saltare in aria mezzo appartamento, eppure Sherlock se l’era cavata solo con qualche ecchimosi sulle braccia ed una ferita superficiale alla fronte. Non era grave quanto John aveva temuto. Probabilmente lo avrebbero dimesso l’indomani. Le infermiere si aggiravano nei corridoi senza particolare fretta o preoccupazione, lanciando solo di tanto in tanto un'occhiata dentro alla stanza per controllare che fosse tutto a posto e che al paziente non venissero altre belle idee della serie lasciamo sostanze altamente infiammabili vicino ad un fornello e vediamo cosa succede.
John avrebbe dovuto immaginarselo: era chiaro che se Sherlock non sapeva bene come aprire il gas neanche sapeva chiuderlo! Non lo aveva potuto lasciare solo 5 minuti e aveva fatto esplodere l’appartamento. Per sua fortuna, John non aveva intenzione di lasciarlo solo mai più.
 
Si avvicinò al letto, il rumore dei suoi passi scandito di bip dei macchinari a cui Sherlock era attaccato. Aveva gli occhi chiusi e un’espressione serena dipinta sulle labbra, come se fosse appena stato baciato ma avesse scelto di non svegliarsi. Come una di quelle principesse nelle fiabe. John scosse appena la testa, rimproverandosi mentalmente di aver pensato una cosa tanto stupida.
Si sedette al suo fianco e rimase per qualche istante a guardarlo: ora che ci pensava non lo aveva mai visto dormire, dal momento che di solito era Sherlock a vegliare sul suo sonno e non il contrario. Ed era un peccato, perché Sherlock sembrava così giovane e felice e bello, ad occhi chiusi.
 
«Almeno sei riuscito a chiudere occhio, alla fine» mormorò con un sorriso stentato che mascherava solo in parte il terrore che provava. Si trattava solo di ferite superficiali, tuttavia non poteva fare a meno di pensare al peggio.
Panico contro razionalità, due a zero.

Gli mostrò il polso, pur consapevole del fatto che Sherlock avesse ancora gli occhi chiusi.
«Ultima notte».
Quello che appena un mese prima era un arco sottile si era progressivamente riempito fino a diventare un cerchio completo, come uno spicchio di luna divenuto plenilunio.
«E lo so che tu non ci credi- sto iniziando a non crederci nemmeno io… ma se fosse possibile? Se si potesse davvero sognare la propria anima gemella- sceglierla ed essere scelti, ad occhi chiusi? Sai come quando la mattina frughi nel cassetto senza neanche dover accendere la luce, perché sai cosa ti serve e vai a colpo sicuro? Non sarebbe bello poterlo fare anche con le persone?»

«John»
Era un sussurro troppo debole per essere udito dall’altro.
«John» ripeté Sherlock in tono più deciso, sforzandosi ad aprire gli occhi.

«Sì, sono qui… sei sveglio, grazie al Cielo!»

«John, chiama un'infermiera»
La sua voce era intrisa di sofferenza. Parlava a fatica.

«Ti senti male?»
 
«Il mio tasso glicemico... Si è impennato dopo tutte le tue dichiarazioni sdolcinate sull'Epifania e le anime gemelle» mormorò Sherlock in tono serissimo, prima di lasciarsi andare ad un debole ma dolce sorriso.

Gli aveva fatto prendere un colpo, quel bastardo. John sbuffò esasperato ma si sentì travolgere da un’ondata di sollievo.
«Sei vivo»
 
«John, se continui con queste deduzioni brillanti sarò costretto ad assumerti come collega nelle mie indagini investigativ-»
 
L’ultima vocale gli restò sulle labbra, perché John lo costrinse al silenzio posandogli un indice sulla bocca.
«Vuoi stare- zitto? Solo un secondo»
John sentì una lacrima solcargli la guancia, eppure non era mai stato più felice. Sherlock era davanti a lui e stava bene. Pensò a quanto lo aveva odiato un’ora prima a causa di uno stupido litigio che a malapena ricordava e a quanto lo amasse, in quell’istante, logorroico anche sotto morfina. O forse lo aveva amato sempre, anche quando gli urlava contro, anche quando gli sbatteva la porta in faccia. Lo amava, ed era tanto semplice quanto era complicato.
Era rimasto in silenzio troppo a lungo, Sherlock avrebbe potuto pensare che non conoscesse l’esatta durata di un secondo. Conoscendolo, lo stava già pensando.
 «Allora, come-come ti senti?»
 
«Contuso. Sedato»
Sherlock lanciò un’occhiata fugace al monitor che teneva traccia dell’elettrocardiogramma.
«Ma stabile»
 
John immaginò che fosse il suo modo per dire al sicuro, felice.
Aveva imparato in fretta a cogliere le sfumature dei suoi sotto testi, a leggere le emozioni dal rossore delle sue guance e a capire quale fosse il vero significato delle sue parole, come se quella di Sherlock fosse una lingua straniera che aveva già studiato da giovane e che doveva semplicemente ripassare. Anche quando lo aveva incontrato in quella sala d’aspetto non si era trattato di conoscerlo, quanto più di riconoscerlo, come un oggetto dalla forma familiare pescato al buio da una scatola.
«Sherlock, io- dicevo sul serio quando parlavo dell’Epifania»
Il suo tentativo di affrontare il discorso si scontrò contro lo sguardo scettico e arrogante dell’amico, che piuttosto di sentir parlare di anime gemelle e predestinazione avrebbe preferito farsi staccare la spina.
John tuttavia lo ignorò e continuò  «Dicevo- mi sarebbe piaciuto averla, perché sto iniziando a provare dei… sentimenti per una persona e vorrei avere una prova che sia quella giusta, prima di espormi»
 
«Dovresti dirglielo» lo interruppe Sherlock.
 
Lo sto facendo adesso pensò John.
 
«E sarebbe anche ora… Sono settimane che Sarah aspetta che tu ti faccia avanti. Perfino tu ti sarai accorto che ha sostituito il suo vecchio profumo con una fragranza più femminile, rosa e violetta. A dire la verità adatto ad una donna ben più giovane di lei, ma pur sempre raffinato»
Davanti allo sguardo stupito di John spiegò, scrollando le spalle «Ti resta attaccato ai vestiti. È piacevole»
 
Il che era un modo bizzarro di dire che trovava attraente il suo odore e che ci aveva fatto caso: John arrossì - un po’ ingenuamente considerato che il profumo non lo aveva neanche scelto lui.
«Però io non parlavo di Sarah…» mormorò, prendendogli la mano.
Continuò a fissarlo negli occhi intensamente, nella speranza che capisse, perché per essere un uomo dal quoziente intellettivo di gran lunga superiore alla media, Sherlock sapeva essere incredibilmente stupido a volte.
«Si tratta di un’altra persona»
Abbassò lo sguardo sulle loro dita intrecciate e gli accarezzò delicatamente il polso. Il cerotto alla nicotina che ricordava di aver visto in una lontana mattina di un mese prima doveva essere stato rimosso dai medici oppure si era staccato in tutto il trambusto dell’esplosione, perché il suo indice sfiorava solo pelle, liscia e morbida e pallida.
Quasi immacolata se non fosse stato per un segno.
Un cerchio, nero e pieno.
«Sherlock, il tuo marchio- è completo» boccheggiò John.
 
«Sì» rispose lui con disarmante sincerità, come se gli avesse chiesto se voleva altro zucchero nel caffè.
 
«Da quando?»

«Da te»

«Non- non capisco… cosa significa?» domandò John, con la voce rotta, lasciandogli la mano. Non riusciva a collegare i vari tasselli, come sempre quando si trattava di Sherlock.
 
«Ho avuto l’Epifania due mesi fa. Ho sognato te»
Sherlock si schiarì la voce, come faceva sempre prima di uscirsene con una delle sue brillanti deduzioni. Era chiaro che stava finalmente per fare un discorso che si era ripetuto all’infinito nella testa.
«Ovviamente non sapevo ancora chi fossi… conoscevo solo il tuo volto e il tuo tono di voce, ma a parte questo brancolavo nel buio. Avevo bisogno di altre informazioni… chi eri? Cosa facevi? Dove ti trovavi? Non riuscivo a pensare ad altro che a te, eri come un virus che mi aveva infettato il cervello. Dormire era diventato impossibile»
 
Ero io la causa della tua insonnia
 
«Passavo la notte a fissare il soffitto e a chiedermi se sarei stato alla tua altezza o se avrei rovinato tutto, come sempre. E poi ti ho incontrato, in quella clinica. E tu eri brillante e spiritoso e… insonne. Eri lì per il mio stesso motivo, ma non avevi ancora avuto l’Epifania. Non mi avresti mai sognato. Ho pensato che fosse di gran lunga meglio così, per entrambi»
 
John scosse la testa ripetutamente, senza quasi rendersene conto, ma Sherlock continuò imperterrito «E così ti ho proposto di trasferirti. Nella mia casa, sotto al mio tetto. Quale occasione migliore per tenerti d’occhio ed assicurarmi che non dormissi? Ero disposto a straziare il violino anche tutte le notti pur di essere certo che tu non mi sognassi mai. E credimi, John, era un gesto altruista. Non volevo infliggerti la penitenza di dover trascorrere il resto dei tuoi giorni con me, perché nella vita avevi già sopportato abbastanza… ma mi sono innamorato di te e ha prevalso l’egoismo. Ho iniziato a desiderare che mi sognassi anche tu. Per questo ho preso a fare ricerche sull’Epifania, per questo ho monitorato il tuo sonno…»
 
John fino a quel momento era rimasto in silenzio, incapace di interromperlo perché incapace di formulare un solo pensiero coerente. Non aveva capito praticamente nulla del lungo sermone di Sherlock, se non che era innamorato di lui. Lo aveva ammesso in fretta, come se si trattasse di una debolezza, però lo aveva ammesso.
 
«… perché tu eri il mio nuovo sogno, John Watson» concluse Sherlock, riprendendo finalmente fiato.
 
John non ebbe nemmeno bisogno di riflettere.
«E tu eri il mio»
 
Sherlock gli rivolse uno sguardo smarrito.
«Hai avuto l'Epifania?»

L’altro scosse la testa debolmente e rispose «La sto avendo ora. Non ho bisogno che uno stupido sogno mi confermi che sei tu quello giusto»
 
Con un gesto che aveva visto fare solo in Grey’s Anatomy, con molta delicatezza John si sdraiò al suo fianco ed appoggiò la testa sul suo petto. Si sentì di nuovo al sicuro e felice, come la sera in cui si era accorto di amarlo. Con un sorriso si rese conto che anche quella notte non avrebbe dormito, perché non voleva chiudere gli occhi - non proprio in quel momento, in cui tutto ciò che desiderava era restare con la testa appoggiata sul petto di Sherlock che si alzava e si abbassava piano al ritmo regolare del suo respiro.
 
Solo per un istante l’alternarsi di ispirazione ed espirazione di Sherlock si interruppe- e fu quando John lo baciò, ad occhi chiusi.






Angolo dell’autrice

Questo è il momento dei ringraziamenti stile Oscar e lascia che il primo vada a te, stoico lettore che ti sei sorbito circa 11.500 parole: scusa per la lunghezza della storia, mi sono decisamente lasciata prendere la mano.

Il secondo ringraziamento spetta a Sheryl Holmes, che ha indotto sul forum il contest Citazionista, ispirato a quotes famose di film e telefilm: quando ho letto quella tratta da uno dei miei film preferiti (Rapunzel- eri il mio nuovo sogno. E tu il mio), ho pensato che sarebbe stato bello scrivere una AU in cui la nostra Johnlock è destinata ma ci mette un sacco di tempo a capirlo. In effetti non è tanto AU, dato che nello show accade la stessa cosa.

Il terzo ringraziamento è per uno dei miei negozi preferiti, l’IKEA. Cosa c’entrano i mobili svedesi, vi starete forse chiedendo.
irca un quattro o cinque anni fa, in una delle mie frequenti visite al negozio, mi imbattei in uno di quei cartelli informativi a tema Scandinavia, non so se li avete presenti. Tipo quelli che ti dicono: peschiamo salmone solo nel freddo mare del nord in compagnia degli inuit, oppure le renne sono ghiotte dei nostri mirtilli rossi, per intenderci. Ecco, uno di questi parlava della Notte di Mezza Estate, detta Midsommar per chi mastica lingue scandinave: la notte della vigilia prima di questa festa, le ragazze del paese girano i campi, saltano muretti di pietra e raccolgono fiori spontanei e una volta tornate a casa li infilano sotto al cuscino. Secondo la leggenda, quella notte sognano il loro futuro marito.
(Da quel momento mi convinsi che il ragazzo alto e gentile che sognavo ricorrentemente era la mia anima gemella, anche se ancora non se ne rendeva conto. Alla fine non era così, ma quei sogni restano i più belli della mia vita)

Poche note, perché se già avete letto 11.500 parole altre 100 non faranno la differenza, credo:
  1. Ti vedo ad occhi chiusi e sai perché/ fra miliardi di persone / ad occhi chiusi hai scelto me (ovvero il titolo è tratto da una canzone di Marco Mengoni, cantatami una sera a cena da un'affascinante ragazza bionda. Se non la conoscete, andatela a sentire o trovare un'amica canterina, perchè ha un testo super johnlock). Mentre la prima citazione è tratta da Anna Karenina e la seconda da una fanfiction inglese sempre a tema Sherlock

  2. Il caso di frode Caffrey è un velato omaggio a White Collar (googlatevi Matt Bomer e godetevi lo spettacolo)
  3. Sono davvero pessima in geografia ma persino io so che il Sahara non si trova in Afghanistan. Volevo solo scrivere di quanto l’esperienza in guerra abbia segnato il nostro povero John che ormai vede sabbia ovunque
  4. Io non soffro di insonnia e non ho mai preso sonniferi in vita mia, quindi ogni nome viene paro paro da Wikipedia. Se notate errrori o altro, fatemelo sapere =)
  5. Nonostante sia un AU, ho cercato di seguire il più possibile il canon della prima serie, per questo ho inserito la battuta “Sei la seconda persona a dirmelo oggi!- E la prima qual è stata?”, per questo ho inserito Sarah, per questo ho inserito l’esplosione a Baker Street (ricorderete che si trattava di una bomba, ma il telegiornale aveva riportato fuga di gas, mentre qui è una fuga di gas per davvero, perché Sherlock e il magico mondo della cucina non vanno d’accordo)

Che altro dire?
Grazie di essere arrivati fin qui, vi auguro tutto il bene possibile.
E se volete fatemi sapere cosa ne pensate in una recensione =)
Itsamess

 
  
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