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Autore: My Pride    13/04/2009    20 recensioni
Ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Il che è strano, dato che sono passati trecento anni o poco più; ma non riuscireste a seguire il discorso, se non partissi dall’inizio, quindi ascoltatemi attentamente.
Credo fosse il 1612 quando l’incontrai e capii cos’ero realmente.
[ Edwar Elric POV ]
[ Agli esordi de «Il bacio del vampiro» ]
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio, Edward Elric, Hohemheim Elric, Roy Mustang | Coppie: Roy/Ed
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Crimson Darkness [Damnation 1]
Titolo: Crimson Darkness [Damnation]
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 8278 parole ]
Personaggi: Altro personaggio, Edward Elric, Van Hohenheim, Roy Mustang
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale

Rating: Arancione
Avvertimenti: AU, Non per stomaci delicati, OOC, Shounen ai



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.
 

Let me bleed you this song of my heart deformed
And lead you along this path in the dark
Where I belong ‘till I feel your warmth
Hold me like you held on to life
When all fears came alive and entombed me
Love me like you love the sun
Scorching the blood in my Vampire Heart
[1]


    Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Il che è strano, dato che sono passati trecento anni o poco più. Ma non riuscireste a seguire il discorso, se non partissi dall’inizio, quindi ascoltatemi attentamente.
    Credo fosse il 1612 quando l’incontrai e capii cos’ero realmente. Mi ero recato vicino Londra con mio padre, seguendolo in uno dei suoi soliti viaggi d’affari nonostante avessi espresso più volte il desiderio di poter restare nel nostro maniero, a Sheerness, e lungo tutto il tragitto in carrozza, durato se ben ricordo quasi un giorno o più, non avevo fatto altro che sbuffare sonoramente e lamentarmi, incurante delle occhiate ammonitrici che di tanto in tanto mi lanciava. Ero il figlio d’un Laird
[2], e secondo lui avrei dovuto comportarmi in modo consono alla mia posizione, anche se da un bel po’ di tempo non eravamo visti di buon occhio, date le nostre origini. Vi lascio quindi immaginare quanto me ne importasse d’apparire infantile o, come tanto si divertiva ad infierire lui, un “ragazzetto di campagna”.
    Arrivammo nei pressi della piovosa Londra all’alba del giorno seguente. E, ironia della sorte, appena misi piede fuori dalla carrozza, cominciò a piovere. Vidi di sfuggita mio padre coprirsi con il lungo giaccone da viaggio che indossava, mentre io, che stupidamente non avevo voluto ascoltarlo e non avevo portato abiti più pesanti, mi bagnai da capo a piedi come un pulcino nel seguirlo verso una locanda.
    Lui si voltò verso di me e rise nel vedere i lunghi capelli che avevo incollati al viso, avvicinandosi per coprire anche me con il velluto foderato del cappotto. «Vedi cosa succede a fare di testa tua?» mi prese in giro, con un sorriso stampato in volto.
    Gli lanciai un’occhiataccia, stringendomi nella mia camicia e persino nella casacca per evitare il freddo pungente che mi penetrava le ossa, sfregandomi le mani sulle braccia. «Potevi dirmelo che il tempo cambiava così repentinamente, padre», ribattei, scansando innervosito il colletto piatto bordato di trina.
    «Och, ma io ti avevo avvisato», replicò subito, coprendo meglio entrambi mentre ci apprestavamo veloci ad entrare nella taverna, dove il confortevole tepore del fuoco mi fece involontariamente sfuggire un piccolo e languido sospiro compiaciuto. Lui rise ancora scuotendo divertito la testa, lasciandomi lì a crogiolarmi al calore delle fiamme per dirigersi tranquillamente nella ressa della locanda, poggiandosi al bancone e discutendo con il proprietario.
    Non badai loro più di tanto, cercando di scaldare le mani con il fiato e con il fuoco, sentendole più fredde di quanto fosse mai successo. Persino il viso mi sembrava insensibile, mentre gli occhi mi bruciavano leggermente. Forse ero spossato per il viaggio. Difatti sbadigliai, proprio qualche attimo prima che mio padre tornasse. Mi poggiò qualcosa sulle spalle e, voltandomi, notai una coperta in tessuto di tartan bella grande, ai cui bordi erano cucite frange nere e rosse. Guardai mio padre, concedendogli un sorriso quasi sarcastico. «Invece di uscire nuovamente in quel diluvio e venire con te ad incontrare quell’uomo, posso restarmene qui a bere qualcosa?» gli chiesi innocentemente, ma il suo viso assunse una strana espressione, come se avessi detto qualcosa di sbagliato.
    Restò ad osservarmi con i suoi occhi dorati, quasi inespressivi e vuoti, ma si riprese subito, scuotendo appena la testa e portandosi una mano alla fronte, come se le tempie gli pulsassero. «Tra poco l’acquazzone passerà», disse semplicemente, anche se il suo tono di voce mi risultò alquanto rauco. «Per adesso vai di sopra a cambiarti, ti presto una delle mie camice. Anche se è parecchio grande ti coprirà e ti terrà caldo».
    Non ribattei, limitandomi ad annuire e ad alzarmi; mentre salivo le scale del piano superiore, però, seguendo il figlio del locandiere con la camicia di mio padre sotto braccio, sentii un brivido corrermi lungo la schiena, come se qualcosa mi stesse osservando attentamente. Gettai così velocemente uno sguardo alle mie spalle che quasi rischiai di farmi venire un crampo al collo, ma la situazione era assolutamente normale, come quando eravamo entrati. Affibbiai la colpa di questo nuovamente alla stanchezza, mentre riportavo la mia attenzione dinnanzi a me e continuavo a seguire quel silenzioso ragazzo. Mi guidò in una camera piccola e angusta, richiudendosi la porta alle spalle. Sentii i suoi pesanti passi ritornare giù, nella taverna.
    Con un certo disappunto, mi rigirai fra le mani quell’ampia camicia, cominciando poi a liberarmi di quella zuppa che indossavo. Sciolsi i capelli e vi passai la coperta, nel tentativo di asciugarli. Quando fui pronto, mi lanciai un’occhiata. Era larga quasi quanto due mie camice, le maniche erano strette ai polsi e quasi a palloncino, mentre il tessuto scendeva come gli antichi abiti delle damigelle, rendendo bizzarro e trasandato il mio aspetto.
  Sbuffai, tornando mogio alla porta. Giù nella taverna, mio padre si era seduto ad un tavolo e stava sorseggiando distrattamente un liquore che mi parve whisky, anche se il colore era dorato scuro. E non volli nemmeno sapere se era a causa del bicchiere sporco o altro. Attraversai la ressa e mi sedetti dinnanzi a lui, squadrandolo con il viso atteggiato ad un’espressione corrucciata, mettendo il broncio.
    Mi lanciò un’occhiata e gli vidi il divertimento solcare quegli occhi color topazio, mentre allontanava il bicchiere dalle labbra e lo posava sul tavolino. «Stai proprio bene così», sghignazzò, facendo vagare lo sguardo sul mio corpo e sui miei capelli, ricaduti a boccoli a causa dell’umidità.
    Grugnii e digrignai i denti, poggiando le braccia incrociate sul bordo del tavolino, senza rispondergli e concentrandomi sul via vai e sul chiacchiericcio presente nella locanda, ricevendo di tanto in tanto dagli altri clienti delle occhiate incuriosite. Restammo lì seduti per un bel paio d’ore, prima che vedessi mio padre alzarsi. Andò a pagare il cibo e il vino che avevamo ordinato, ritornando velocemente da me e, facendomi cenno di alzarmi, si diresse verso l’entrata, aprendo la porta.
    La luce del sole ci investì in pieno e socchiusi gli occhi per l’intensità, riuscendo appena a scorgere la figura di mio padre che avanzava svelto, attraversando le strade e le vie lastricate come se sapesse esattamente dove dirigersi. Mi stupì il suo volto quasi contratto dalla sofferenza, ma decisi di non fare domande. E una volta arrivati nella piccola piazzetta centrale, si sedette su una delle tante panchine lì presenti, traendo fuori dalla tasca laterale del suo giaccone un piccolo e consunto libro, cominciando tranquillamente a leggerlo sotto il mio sguardo basito.
    Spalancai la bocca per la sorpresa, sbuffando sonoramente mentre mi avvicinavo a lui, lasciandomi cadere svogliato al suo fianco. Non parlammo affatto. Si era creato una specie di silenzio assorto fra noi, come se ci fossero delle cose da dire ma nessuno dei due avesse voglia di spiegarle. Mi dedicai ad osservare i dintorni, incuriosito: le strade erano affollate e caotiche, soprattutto nella via del mercato, dove il continuo via vai della gente che si teneva quasi addossata agli edifici per evitare di rimanere bloccata fra le strade acciottolate mi faceva dolere la testa. C’erano troppe persone che si affaccendavano in botteghe e bancarelle, troppi venditori che urlavano il pregio dei loro prodotti artigianali, ma ad occhio e croce, osservandoli da lontano, mi sembravano solo patacche.
    Sbuffando, mi sistemai l’ampio colletto della camicia, gettando un’occhiata a mio padre. Così come pochi minuti prima, era ancora assorto nella sua lettura. La sua calma e la sua tranquillità mi fecero salire i nervi. «Perché non hai portato Alphonse al mio posto, padre?» domandai, sforzandomi di non rendere il tono della mia voce esasperato e duro, mentre quasi reclinavo la testa all’indietro e poggiavo le mani sul bordo della panchina, così da sostenere il mio peso.
    Lui girò distrattamente pagina, come se mi ascoltasse solo per il dovere di farlo. «Perché, in quanto primogenito, un giorno sarai tu a succedermi», rispose semplicemente. «Devi imparare come amministrare gli affari di famiglia».
    «Ma, padre... lo sai che non mi interessa», bofonchiai ancor più annoiato, incrociando le gambe sulla panchina, i palmi delle mani abbandonati sulle caviglie.
    Mi lanciò un’occhiata, ammonendomi solo con il colore dei suoi occhi. «Comportati in modo consono alla tua posizione sociale, piuttosto. Non lagnarti come un paesano qualsiasi», ribatté, sondando con lo sguardo il modo ben poco “aristocratico” in cui mi ero abbandonato a sedere. «E siediti per bene», soggiunse, scuotendo debolmente la testa.
    Stavo per rispondergli a tono quando lo vidi d’improvviso chiudere il libro e posarlo sulla panchina di pietra, sorridendo dinnanzi a sé. Inarcai un sopracciglio senza capire, voltandomi nella sua stessa direzione quando si alzò e mi impose solo con un cenno della mano di seguirlo. Erano appena arrivati due uomini, e mio padre sembrava conoscere il più grande.
    Lui era molto alto, forse più di mio padre, ma sembrava un tantino più vecchio, gli avrei come minimo dato quarant’anni o poco più. I capelli brizzolati si muovevano alla lieve brezza che si era alzata, e il sorriso che gli incurvava le labbra era parzialmente nascosto dai folti baffi neri, ma a richiamare la mia attenzione fu il ragazzo al suo fianco. Proprio come lui, aveva i capelli scuri, e li portava lunghi, legati da un nastrino che si confondeva con quell’ebano quasi lucente. I suoi occhi, però, erano particolarmente unici, dal taglio quasi a mandorla, come quelli degli uomini stranieri ritratti nei dipinti che avevo avuto l’agio d’osservare in una delle case nobiliari d’un amico di mio padre. Poteva avere più o meno la mia età, anche se il suo viso aveva un non so che di maturo.
    «Spero che il viaggio non sia stato spossante», richiamò la mia attenzione la voce dell’uomo, e lo vidi, con la coda dell’occhio, stringere la mano a mio padre e lanciarmi un’occhiata. Nei suoi occhi neri, scorsi un guizzo di curiosità.
    «Nay, è stata una splendida passeggiata», replicò in tono spassoso il mio vecchio, ricambiando la stretta con un sorriso. Mi trattenni dal non scimmiottarlo, borbottando fra me e me. Una passeggiata, certo... incrociai le braccia al petto, reprimendo qualche insulto. «Immagino che lui sia suo figlio», soggiunse poi, vedendolo gettare uno sguardo al moro che, stranamente, mi osservava. Non capii perché ma, se avesse continuato a farlo, si sarebbe ritrovato con un pugno nello stomaco. Odiavo quando mi fissavano a quel modo.
    «Immagina bene», rispose quello che ormai capii esser suo padre, dando una pacca sulla spalla al figlio, che finalmente smise di guardarmi per osservare lui. «Avanti, Roy, dove sono finite le buone maniere?»
    Restai ad osservarlo in silenzio mentre chinava il capo quasi referenziale e allungava una mano verso mio padre, stringendogli la sua. Gli vidi un sorriso dipinto in volto, e mi chiesi vagamente se fosse idiota a sorridere sempre o se invece fosse solo una mia impressione.
    «È davvero un piacere conoscerla, signor Hohenheim», disse, con una voce calda, morbida e ovattata, ritornando a guardarmi. E dovetti rimangiarmi la mia seconda ipotesi. Era idiota.
    «Il piacere è mio, Roy», ribatté mio padre, guardandomi a sua volta. Gli lanciai un’occhiata vedendolo quasi muovere le labbra in un parole silenziose, ma la mia attenzione si riconcentrò subito sul moro che, chinandosi elegantemente a mezzo busto, mi aveva delicatamente preso la mano destra baciandone il dorso come un galantuomo. Sarebbe stato superfluo dire che mi accigliai. Sbattendo le palpebre con fare perplesso, osservai la sua chioma nera prima di gettare uno sguardo anche a suo padre, vedendolo tranquillamente sorridente. Non capii.
    «Incantato», mi richiamò il mormorio quasi deliziato del moro, che aveva alzato la testa concentrando i suoi occhi scuri su di me, sorridendomi. Quasi mi sembrò stesse ammiccando. Evitai di deglutire mentre voltavo la testa verso mio padre, con un vago senso d’imbarazzo. Odiavo ammetterlo, ma quel sorriso aveva qualcosa d’affascinante.
    «Tha e gòrach, Athair
[3]», dissi nella nostra lingua, in modo che mi capisse solo lui, ma così facendo ci ricavai solo un’ammonizione.
    «Non essere scortese», replicò, scompigliandomi con vigore i capelli prima di voltarsi divertito verso il moro, che aveva quasi inclinato la testa su una spalla. «Temo tu abbia frainteso, ragazzo mio», sghignazzò, e come lui, vidi i due scambiarsi uno sguardo quasi spaesato. L’idiota, come l’avevo ormai catalogato, mi lasciò la mano gettando un’occhiata al padre, come se stesse cercando di capire qualcosa che sfuggiva ad entrambi. Mi avevano forse scambiato... per una ragazza?! Non solo avevo dovuto sfacchinare per ore in una carrozza, bagnarmi da capo a piedi rischiando quasi di beccarmi un’influenza, infilarmi in quella camicia che mi rendeva ridicolo fino ad aspettarli per chissà quanto tempo... dovevo anche permettere che mi credessero una donna?!
    Innervosito, tossii appena, vedendo nuovamente la loro attenzione appuntata su di me. «Sono un maschio», sbottai, allungando il braccio per afferrargli la mano e stringerla con vigore, premurandomi di fargli abbastanza male prima di lasciargliela. «Mi chiamo Edward».
    Come se non se ne capacitasse, lo vidi sgranare quegl’occhi d’onice e coprirsi la bocca con la mano, mentre intorno a noi aleggiavano divertite le risate di mio padre, ben presto mescolate con quelle del suo. Si grattò dietro al collo, forse a disagio o in imbarazzo, guardandomi di sottecchi. «S-Sono desolato», si scusò, sulla difensiva. «E’ che hai un viso così carino che pensavo fossi una fanciulla. Perdona l’insolenza».
    Non potei non arrossire, quando me lo confessò. Mi sentii io lo stupido ad aver avuto quella reazione. In quei miei diciott’anni di vita, l’unica persona che mi aveva mai fatto dei complimenti per il mio aspetto era stata solo la mia defunta madre, ma si sapeva che per le madri ogni figlio era bellissimo. Quindi ricevere un complimento del genere da un uomo come me, mi fece sentire strano, ma non volevo farglielo capire, dato che non lo conoscevo.
    Incrociai le braccia al petto, osservandolo dall’alto in basso quasi con saccente distacco, con aria di superiorità, quasi per provare ad intimidirlo, e il che non era facile, visto che era più alto di me. «Devo considerarla un’offesa alla mia virilità, questa, o un complimento?» ribattei.
    Forse divertito dal mio tono di voce, sentii mio padre soffocare una risatina, prima che mi desse una poderosa pacca sulla schiena. Lo guardai con disappunto, vedendolo, in effetti, divertito.  «Placa gli ardori, Highlander. Non essere così acido», mi prese in giro, prima di portare la sua completa attenzione sul padre del moro, indicandogli con un gesto ampio della mano la panchina in pietra. «Vai a fare due passi, dobbiamo parlare di affari», soggiunse poi, tornando a guardare me.
    «Vai anche tu, Roy», sentii dire anche dall’altro uomo.
    Fui dunque costretto ad incamminarmi lontano da lì, con quell’idiota al seguito. Non sapevo dove dirigermi dato che era la prima volta che mi trovavo in quella cittadina, ma qualsiasi posto, che fosse abbastanza lontano dai noiosi discorsi di mio padre e da quel moro che continuava imperterrito a seguirmi, sarebbe stato per me perfetto.
    «Senti, mi dispiace», lo sentii dire a qualche passo di distanza da me, ma feci finta d’esser solo, mentre mi dirigevo verso una delle poche stradine in cui le persone scarseggiavano. Volevo tenere il più possibile le distanze da lui, forse a causa dell’espressione dei suoi occhi, troppo scuri per essere normali, chi voleva dirlo. O forse solo perché mi aveva scambiato per una ragazza. Ma a chi volevo darla a bere. Cercavo di distanziarmi da lui perché mi faceva sentire strano, ecco qual era la verità. «Non volevo dubitare del fatto che sei un uomo, sul serio», riprese lui con voce insistente, e in meno d’una frazione d’un secondo me lo ritrovai al mio fianco. «Ma è vero che sei carino, non scherzavo affatto su quel punto».
    Arrossii così vistosamente che mi fermai di botto, benedicendo il fatto che mi trovassi di qualche passo dinnanzi a lui e non potesse vedermi attentamente in volto.  Non potevo credere che avesse una tale presa, su di me. Cos’era, un mago? Un ammaliatore? Qualcuno di quei druidi legati alla religione celtica? Perfetto, cominciavo anche a sparlare a causa sua. Stavo diventando matto. Ma lo guardai con la coda dell’occhio, sondando la sua postura. I capelli gli ricadevano sbarazzini sul volto, rendendolo affascinante.
    «Anche tu lo sei», gli confessai d’impeto senza che me ne accorgessi, ma mi affrettai immediatamente a tapparmi la bocca, quasi sgranando gli occhi
    «Oh, beh, sono lusingato», mi rispose divertito. «Che ne dici di dimenticare quel piccolo disguido e ricominciare da capo?»
    Feci per dirgli qualcosa, o almeno provarci, ma lui fu più rapido. Si ritrovò ancora di più al mio fianco, e quasi mi costrinse a girarmi mentre mi afferrava la mano per stringermela come si conveniva ad un gentiluomo, quasi sorridendo con una punta di seduzione.
    «Piacere, Roy», fece spassoso, come se quello a cui aveva dato vita fosse un gioco.
    Abbassai lo sguardo, osservando le nostre mani, accigliato; poi lo rialzai piano, fondendo i miei occhi con i suoi d’onice. E a quel punto dovetti ammetterlo. Non era carino. Era uno splendore. Mi permisi persino il lusso di regalargli un sorriso, aumentando la stretta di mano. «Edward», mormorai, e lui rise. Una risata cristallina, che sembrò colmarmi il cuore.
    Non so cosa mi spinse a farlo, ma non lo lasciai, come se temessi potesse svanire come fumo.
    Mi guardò come a chiedersi il perché, ma quando incrociai il suo sguardo, mi limitai appena a fare spallucce, più che intenzionato a non dirgli nulla. «Lo considero un gesto d'affetto?» sghignazzò lui, e gli lanciai ancora una volta una mezza occhiata, prima di guardare il lastricato ai miei piedi.
    «Consideralo come vuoi», borbottai, cercando di rendere il mio tono più che scontroso, ma mi stupii quando non ci riuscii.
    «Ma dai, dimmelo tu», insistette
    Alzai svelto lo sguardo su di lui sollevando le sopracciglia in un’espressione scettica, ma mi ritrovai subito a sorridergli, quasi a mio agio. «Tienilo a mente, mai discutere con uno scozzese», mi sentii in dovere di dirgli, vedendolo portarsi una mano alla bocca mentre ridacchiava, come se cercasse di contenere l’ilarità.
    Prima che potessi fare qualcosa poi, mi tenne a sua volta stretta la mano trascinandomi lontano da lì, in una stradina dove ai lati delle case erano innalzate piccole pianticelle verdi e una fontanella, che rinfrescava l’ambiente. «Mi stavo giusto domandando da dove venissi», disse divertito, continuando a trascinarmi. «Dalla lingua che hai usato prima non sono riuscito a capirlo».
    «Non pensavo fosse così difficile rendersene conto», replicai subito, quasi ridacchiando.
    Incuriosito forse dal mio tono ora divenuto socievole, mi gettò un’occhiata, sorridente. Si fermò voltandosi verso di me, non prima d’essere entrambi giunti accanto alla fontanella, e mi lasciò andare la mano sedendosi, una gamba poggiata sul ginocchio opposto. «Pensavo che indossaste tutti il gonnellino», buttò lì, e quando mi specchiai nei suoi occhi mi parvero quasi brillare divertiti.
    Mi limitai solo ad inarcare un sopracciglio, senza capire se mi stesse prendendo in giro o meno, stringendomi nelle spalle prima di lasciarmi cadere seduto al suo fianco, le mani abbandonate sulle cosce mentre guardavo dritto dinnanzi a me. Ancora non volevo guardarlo, anche se non capivo il perché. «Si chiama kilt
» precisai, come se fosse doveroso farlo. «Ma io sono un’eccezione», ribattei, guardandolo di sbieco, e lui sorrise maggiormente, scivolando piano sul marmo della fontana per avvicinarsi a me.
    Vidi la sua espressione assorta e quasi compiaciuta mentre mi squadrava dall’alto in basso, le sue polle scure saettavano ammiccando su tutto il mio corpo, e quasi mi parve che si soffermasse sulle mia labbra e sui miei occhi, come ammaliato. Difatti si chinò un po’ verso il mio viso, rendendo la distanza fra noi minima. Arrossii così vistosamente che ero convinto che le mie guance, di solito innaturalmente diafane, fossero divenute scarlatte.
    Come un bambino, inclinò la testa di lato, lasciando che i suoi lunghi capelli neri gli ricadessero su una spalla, rendendolo ancor più affascinante. «Non ho mai visto occhi come i tuoi», mormorò con devozione, e il suo tono mi stupì così tanto che indietreggiai un pochino, sentendomi a disagio. Perché mi guardava in quel modo, adesso?
    Deglutii, stringendomi involontariamente e quasi in modo convulso una mano sulla stoffa della camicia, gettando degli sguardi intorno prima di tornare a fissare lui. «Sono... sono diventati di questo colore crescendo», gli dissi, anche se il disagio che sentivo sembrava crescere sempre più. «Quand’ero bambino erano quasi color nocciola».
    «Sono davvero bellissimi», sussurrò delicato, allungando piano una mano verso il mio viso, sfiorandomi una guancia. «Hai gli occhi del color del sole».
    Il suo bel volto s’addolcì, gli occhi d’onice quasi divennero immoti. Non riuscivo a capire cosa gli fosse preso, così d’improvviso, ma fu solo quando spostò due dita verso le mie labbra che decisi di farla finita. Mi rialzai così in fretta che lui sussultò, sbattendo poi le palpebre come se si stesse risvegliando da un lungo sonno, guardandomi senza davvero farlo. Si portò la mano con cui prima mi stava accarezzando il volto alla tempia, scuotendo con impeto la testa, forse nel tentativo di schiarirsi i pensieri.
    «Ma cos’è successo?» mi domandò quasi sottovoce, gettandomi un’occhiata stranita.
    Feci qualche altro passo indietro, quasi andando a sbattere contro le poche persone che camminavano sulla stradina di ciottoli. Mi ritrovai a deglutire ancora una volta, non sapendo cosa dirgli. «Non lo so», quasi farfugliai, vedendolo alzarsi.
    Guardò me e poi guardò se stesso, grattandosi la testa come se non si capacitasse di quel che era appena accaduto, proprio come me. Un attimo prima parlavamo tranquilli, e un attimo dopo quasi sembrava stregato. «Forse ho riposato poco, stanotte», disse lui fra sé e sé, strofinandosi distratto gli occhi. Poi fece a sua volta spallucce, imitando con entrambe le mani il gesto di spostare qualcosa, come se volesse in qualche modo arginare la questione. Tornato ad essere il ragazzo di pochi minuti prima, mi sorrise, riavvicinandosi. «Abbiamo lasciato Londra questa mattina presto, probabilmente sono spossato», mi informò, flettendo le braccia come per sgranchirsi. «E non ho ancora mangiato nulla, forse è per questo che prima mi sono sentito un po' strano».
    Annuii piano, senza parlare, mentre lo seguivo ancora per le stradine della cittadella, vedendolo con le mani in tasca, e si faceva a volte da parte per schivare le persone o fermarsi per aspettarmi.  Dubitai, però, delle sue parole. Non era normale che un ragazzo ne osservasse un altro con quello sguardo. Quasi mi era apparso lo sguardo con cui i nobiluomini, amici di mio padre, guardavano le loro dame dagli abiti di foggia pregiata durante i balli.
    Presi a tormentarmi le mani continuando a seguire la sua figura agile e scattante, sentendomi invaso sempre di più da una bizzarra emozione, soprattutto quando lo sguardo mi cadde sul suo sedere. E divenni una vampa di fuoco quando lui si voltò e vide dov’erano puntati i miei occhi, sorridendo quasi sfacciato al mio indirizzo.
    «Un vero capolavoro, eh?» sghignazzò divertito, facendomi arrossire ancora di più.
    Puntai così in fretta lo sguardo alla pavimentazione acciottolata che non mi accorsi di essere andato a sbattere contro un uomo che era il doppio della mia stazza, e gli chiesi freneticamente scusa mentre imbarazzatissimo mi riavvicinavo a quel ragazzo, Roy. «Non capisco di cosa stai parlando», borbottai, più che deciso a non dargliela vinta su quell’assurdità e ad avere frattanto l’ultima parola. «Ancora non ho visto nulla di così fantastico da esser considerato artistico, in questa cittadina».
    Lui rise ancora, squisitamente e in modo così limpido che il mio cuore quasi perse un battito. «Oh, ma i miei glutei lo sono eccome», replicò, sempre più divertito nel vedere, probabilmente, il rossore che stava ormai colorando in modo permanente le mie gote. «Mai visto il David di Michelangelo?»
    «Quante ragazze hai incantato con certe falsità?» rimbeccai invece, sgarbato. Qualcosa, nelle mie stesse parole, mi rendeva estremamente geloso. Ciò che mi stupì, però, fu nuovamente la sua risata.
    «Non sono propriamente un buon partito, quindi ancora nessuna», sghignazzò ancora, ravvivandosi i capelli all’indietro prima di ritornare a guardarmi.
    Forse fu l’espressione stupita che si era dipinta sul mio volto, ma fatto sta che rise di nuovo, dandomi una leggera pacca sulla spalla come se fossimo amici da anni. Agitò poi cadenzato la mano destra indicandomi la stradina lastricata, facendomi cenno di precederlo verso la piazzetta, dove si trovavano ancora i nostri padri. Non discussi e non aggiunsi altro, anzi. Fui quasi lieto di allontanarmi da lì e, in particolar modo, porre almeno un minimo di distanza tra lui a me, soprattutto dopo la piccola discussione nata fra noi.
    Non capivo esattamente il perché, ma insieme a quel ragazzo mi sentivo strano. Strano come non lo ero mai stato.


    Tra noi regnò il silenzio finché non tornammo nei pressi della piazza, e gettai uno sguardo fra la sua vastità per localizzare la figura di mio padre e del suo, trovandoli ancora intenti a chiacchierare quasi animatamente e con impeto di chissà cosa, ridendo e scherzando.
    «Che noia, stanno ancora discutendo», bofonchiai, lasciando trapelare parecchio quanto quella situazione mi seccasse. Sapevo troppo bene quanto si dilettasse mio padre ad intrattenere piccoli commercianti.
    Accanto a me, quel Roy proruppe in un piccolo sbuffo. «Se dici così mi fai pensare che non sono poi di gran compagnia, sai?» fece sarcastico, e voltandomi appena lo vidi con la classica espressione scettica di chi non si aspetta tale scortesia.
    Feci immediatamente spallucce, agitando distratto entrambe le mani. «Non dico questo, ma ti conosco da poco», replicai, più che intenzionato a non voler fare inutili questioni con lui anche se non capivo il perché. Cominciai frattanto ad incamminarmi verso il centro della piazzetta, nel tentativo di convincere mio padre a continuare altrove quella conversazione. Il mio stomaco avrebbe presto cominciato a reclamare a gran voce del cibo, e anche lui avrebbe sicuramente dovuto mangiare, visto che non lo vedevo quasi mai con un piatto dinnanzi. Anzi, a rifletterci, era raro che lo vedessi mangiare.
    Dopo poco, sentii nuovamente al mio fianco quel ragazzo moro, che si stava stiracchiando tranquillamente e si scompigliava distratto i lunghi capelli, trattenendosi dal non sbadigliare. «Per curiosità», cominciò, nel tentativo di richiamare la mia attenzione e nel contempo di fare un pò di conversazione. «Quanti dei tuoi coetanei sono abituati ad intrattenere un discorso con te?»
    A quella domanda gli lanciai un’occhiataccia. Incapace di capire da dove fosse sorto quel quesito, mi fermai pochi passi dalla panchina su cui erano accomodati i nostri genitori. Sbuffando, incrociai le braccia al petto, bofonchiando tra me e me prima di degnarlo d’una risposta. «Guarda che fra gli amici di mio padre non ce ne sono poi così tanti che hanno figli della mia età».
    «Ecco spiegato perché a volte sei così scorbutico», buttò lì, con un marcato e inconfutabile segno d’ironia pura nella voce. «Passi il tuo tempo con quei pomposi nobili».
    M’innervosii, corrugando le sopracciglia. Era riuscito a farmi passare dallo stadio di simpatia a stizza in meno di pochissimo tempo. «Ritiro tutto quello che ho detto prima: sei irritante!» brontolai quasi esclamando, vedendolo inarcare finemente un sopracciglio nero, ma per il divertimento.
    «Sei la settecentoquarantatreesima persona che me lo dice», replicò in tono spassoso.
    «E te ne vanti pure!» sbottai, quasi stupito dall’innocenza con cui l’aveva detto.
    Con un sorriso sornione che gli accentuò il taglio degli occhi obliqui, si chinò appena a mezzo busto, agitando con movenze cadenzate la mano destra, abbassando la testa per guardare il terreno. «Certo che me ne vanto, Milord», disse, enfatizzando soprattutto sul titolo.
    Indispettito, incrociai ancora una volta le braccia al petto. «Preferisco mille volte assistere per l’ennesima volta al Macbeth, piuttosto che continuare a discutere con te», sbottai, e sul suo volto, quando riappuntò lo sguardo su di me, si dipinse un’aria un tantino stupita. Si grattò distratto dietro al collo, per poi sorridere nuovamente.
    «E di grazia, cosa o chi sarebbe, tale Macbeth?» domandò, con aria innocente.
    Fu il mio turno stavolta, di restare stupito. «Mai stato a teatro?» chiesi sbigottito. Erano in molti, dalle nostre parti, a conoscere tale dramma. Gli attori che lo interpretavano spesso non volevano nemmeno annunciarne il nome ad alta voce, credendo che fosse maledetto.
    Lui scosse la testa, dando vita ad una scrollata di spalle. «Sembro avere molto tempo libero, ma aiuto mio padre con la vendita dei suoi vini», mi disse, come se la cosa spiegasse tutto, persino la sua bizzara ignoranza.
    «Pensavo conoscessi Shakespeare e le sue opere», feci ancora, sbattendo le palpebre.
    Per l’ennesima volta, scrollò le spalle. Tutto, adesso, nella sua espressione e nella sua postura, mi faceva pensare a tutt’altro. Sembrava quasi estraneo a quello che ci capitava intorno, come se vivesse in un mondo tutto suo e non gli importasse di nulla, agiato nella tranquillità che sembrava irradiare lui stesso. E, senza che me ne accorgessi, lasciò perdere il discorso e si avvicinò ancora di più, con quel sorriso sfacciato e sghembo che gli illuminava il volto.
    Con mia grande sorpresa, mi passò un braccio intorno alle spalle, facendo così in modo che fossimo abbastanza vicini da poter riuscire a sentire il suo cuore. «Credo che sia meglio concentrarsi su altro», disse, palesemente divertito. Per l’ennesima volta in quella mattinata, arrossii senza motivo. Ero sul punto di dirgli di mollarmi quando si voltò verso suo padre, la mano del braccio con cui mi cingeva mi accarezzava di sfuggita la manica della camicia. «Papà, non ti sembra scortese non invitare il signor Hohenheim a pranzo?» disse con un sorriso divertito, mentre mi trascinava, senza che mi opponessi, accanto alla panchina.
    Suo padre guardò distrattamente lui e poi il cielo, riportando la sua attenzione sul mio vecchio. «Le andrebbe di mangiare qualcosa?» gli chiese, con lo stesso sorriso del figlio. «Poco lontano c’è una piccola taverna dove preparano ottimi pranzetti.»
    Mio padre parve rifletterci, ma poi sorrise a sua volta, alzandosi. «Accompagnato da uno dei suoi vini, magari?» replicò in tono spassoso, ma nella sua voce, e nel modo in cui aveva enfatizzato la parola “vino”, scorsi quasi una punta di... seduzione? Era mai possibile? Nay, forse era la vicinanza con quel tipo, Roy, a farmi avere certe allucinazioni. Che ne potevo sapere io, a quei tempi, della seduzione.
    Suo padre annuì, quasi formale, facendoci strada senza dire una parola. Io li seguivo, o meglio, venivo trascinato dal moro, sentendomi un po' bambino. Non mi arrischiai minimamente ad alzare lo sguardo verso di lui finché non arrivammo alla piccola taverna alla quale ci aveva guidati suo padre, e lui si diresse subito al bancone per ordinare un pasto per quattro persone.
    Quando il garzone ci portò da mangiare, io mi avventai quasi famelico sul mio pasto, e, come avevo immaginato, gettandogli un’occhiata, mio padre non toccò cibo. Più volte mi ero chiesto quando mangiasse, e avevo persino provato a chiederlo a lui, anche se, naturalmente, la risposta era sempre la stessa: “Mangio la sera mentre lavoro.” Già da certi responsi avrei dovuto capire cos’era. Non mi era mai passato per la testa perché non lo credevo possibile. Ah! Se ci penso adesso, che stolto sono stato! Ma non era di questo che stavamo parlando. Era ben altro, che avrei dovuto raccontare.
    Cominciammo a mangiare tutti e tre tranne mio padre, che solo di tanto in tanto allungava distratto una mano alle posate, rigirando il cibo nel piatto senza assaggiarlo. Nessuno gli disse nulla; un po' per rispetto, un po' per altro. E quando arrivò il momento del vino, sembrò almeno rianimarsi in parte, raddrizzando la schiena e sporgendosi appena verso il padre di Roy, con i gomiti sul bordo del tavolo in modo da sorreggere il viso, le mani incrociate sotto il mento.
    Sbadigliai sonoramente mentre li osservavo riempirsi i bicchieri, inspirare il profumo ebbro del vino a grandi polmoni come dei gourmet, sorseggiandolo appena prima di ricominciare a parlare. Al mio fianco, sentii Roy sbadigliare a sua volta, come se si stesse annoiando. Gli gettai un’occhiata, sollevando un angolo della bocca in un sorriso nel vedere le lacrime offuscargli appena l’orlo delle ciglia, proprio come capitava ai bambini quando avevano troppo sonno per restare ancora svegli. «Abituati, mio padre chiacchiera tantissimo», lo informai con velato divertimento, sentendolo sbadigliare ancora prima di vederlo passarsi distratto il dorso della mano sugli zigomi.
    «E io che pensavo che fosse mio padre, ad avere la chiacchiera facile», replicò, evitando di stiracchiarsi a tavola per non essere maleducato.
    Ridacchiai ancora un po', poggiando il viso sul dorso della mano per squadrarlo. «Ognuno dei due ha trovato pane per i propri denti, allora».
    «E mi sa che se continuano così, saremo noi a perdere la pazienza».
    Mi lasciai sfuggire un’altra piacevole risata, nel sentire il suo tono così sarcastico. Passammo poi la maggior parte del nostro tempo nel piacevole tepore della taverna, a chiacchierare davvero come fossimo amici di vecchia data senza curarci dei nostri genitori. Si erano rigettati nei loro discorsi e discutevano del vino e dei loro affari, assorti come non mai, tanto che persino loro sembravano dimentichi di noi e di ciò che gli accadeva attorno.
    La sera ci invitarono a casa loro, ma mio padre reclinò gentilmente l’offerta dicendo che aveva già affittato una piccola camera in una locanda, salutandoli con un sorriso e con la promessa che il giorno dopo avrebbe assaggiato un altro dei suoi vini.
    Quando calò la notte e ci ritirammo, mi addormentai come un sasso. L’incontro di quel giorno mi aveva reso, anche se faticavo un pò ad ammetterlo a me stesso, allegro e vivace come non lo ero più stato dalla morte di mia madre. Mi svegliò solo un debole rumore alla finestra. Con gli occhi socchiusi e pesanti per il sonno, mi guardai appena intorno, vedendo che, nella stanza inondata dalla luce della luna, ero solo.
    La cosa mi fece accigliare e non poco, ma il mattino seguente, quando incontrai mio padre giù nella taverna, decisi di non fare nessuna domanda, limitandomi solo a seguirlo ancora una volta al suo incontro, stranamente arzillo e pimpante, come se non vedessi l’ora di rivedere quel ragazzo. E continuammo così anche per le settimane e i mesi che seguirono. Ci vedevamo spesso, lasciando i nostri genitori ai loro affari mentre lui si premurava di mostrarmi ogni posto della cittadina, ogni piccolissima bellezza che vi sorgeva, persino vivaci giardini ricolmi di piante e fiori dalle mille specie.
    Fu durante una di quelle uscite, che sentimmo qualcosa cambiare. Come succedeva di solito, il cielo si era annuvolato e, dopo poco, tuoni e fulmini si erano fatti sentire, avvisaglia del temporale che era scoppiato non più di cinque minuti dopo. Ci rintanammo in una piccola catapecchia abbandonata, le cui uniche cose rimaste del vecchio proprietario erano un pantalone a tre quarti, che probabilmente usava per il lavoro, e una coperta tutta bucherellata rosicchiata dai topi.
    Storsi la bocca in una smorfia nel sentire il tanfo e nel vedere il sudiciume che regnava ovunque, ma Roy sghignazzò e, con la coda dell’occhio, lo vidi sedersi nel centro del casolare, accanto alla legna umida che ancora restava.
    «Non sarà il palazzo della Regina, ma almeno non ci bagneremo», buttò lì in tono divertito, picchiettando le assi quasi ammuffite del pavimento per invitarmi ad accomodarmi.
    Scossi con impeto la testa, indietreggiando verso la soglia. Preferivo starmene fuori sotto la pioggia piuttosto che sedermi in quello sporco, e forse capendolo, Roy rise più sonoramente.
    «Vieni qui e siediti, scemo», disse con un sorriso, come per cercare di convincermi.
    Cedetti involontariamente quando mi guardò ammiccando. Avevamo passato abbastanza tempo insieme da creare una sorta di sincronia fra noi, una sincronia che fino a quel momento avevo avuto solo con mio fratello Alphonse. Era diventata un’intesa quasi speciale, la nostra. Un’intesa simile a quella che vigeva fra vecchi amici, o persino in coppie ben saldate. Strano paragone per adesso, ma capirete il mio uso di cotal parole quando giungerò a quell’esatto momento.
    Riluttante, mi sedetti accanto a lui, vedendolo allungare distrattamente un braccio verso la legna per spostare quella bagnata e cercare una più asciutta; una volta trovata, si alzò per andare alla ricerca d’una pietra focaia o di qualcosa che avrebbe potuto utilizzare per creare una fiamma, e quando ritornò da me lo vidi con due legnetti fra le mani.
    Inarcai un sopracciglio con scetticismo. Prima che fosse riuscito ad accendere il fuoco, saremmo morti di freddo. Poco ma sicuro. Nel vedere la mia espressione, si limitò a fare spallucce e riaccomodarsi, cominciando a sfregarli fra di loro, le sopracciglia corrugate dalla concentrazione.  Poggiai un gomito sul ginocchio in modo da sorreggermi il viso, sbuffando annoiato e quasi tremando infreddolito. Ci volle parecchio tempo prima che una scintilla sfavillasse.
    Con in volto un’espressione di trionfo mentre vedeva come me il fuoco divampare e consumare la legna, Roy gettò anche quelli che teneva fra le mani nelle fiamme, il calore gli salì immediato al viso colorandogli le guance e creando strane luci arancioni fra i suoi capelli e nei suoi occhi. Mi incantai nell’osservarlo. Durante quel mese e mezzo che avevo passato con mio padre a Londra, dove c’eravamo trasferiti quando il suo ormai “socio” era dovuto tornare ai suoi affari, avevo imparato a voler bene a quel ragazzo, un affetto che in un primo momento avevo associato a quello fraterno, ma mentre lo osservavo, non seppi dire con certezza cosa stavo provando. Sentivo il cuore pompare agitato il sangue al cervello, i muscoli delle braccia e delle gambe erano quasi in tensione e il mio corpo, teso, sembrava dolermi dalla voglia di sfiorare la pelle di quel volto che adesso guardavo assorto.
    Come sentendosi osservato, Roy si voltò verso di me, rivolgendogli uno dei suoi soliti sorrisi sghembi, sorrisi che avevo imparato ad apprezzare. «Fa più caldo, adesso?» mi chiese, avvicinandosi un po’ di più a me.
    Arrossii per la vicinanza, e ringraziai il fatto che il colore del fuoco non mostrasse quello che aveva appena assunto il mio volto. Con mia grande sorpresa, però, fui io stesso ad avvicinarmi, come se il calore delle fiamme non mi bastasse. «Aye, grazie», mormorai inconsciamente, sentendolo cingermi le spalle.
    Alzai lo sguardo verso di lui, e quasi mi parve che fosse arrossito a sua volta. O forse era solo il fuoco a darmi quell’impressione? Il modo in cui si comportava, però, mi fece pensare che non me lo fossi immaginato. Si stava grattando distratto una guancia con l’altra mano, e aveva distolto lo sguardo per farlo vagare con non curanza nella catapecchia, come per evitare di incrociare i miei occhi. Fui io a sorridere, questa volta.
    «È la prima volta che ti vedo arrossire», dissi per sbeffeggiarlo, cercando di pungolargli le costole per continuare ad infierire mentre lui, arrossendo ancor più vistosamente, borbottò fra sé e sé qualcosa, cercando di tenersi a debita distanza dal mio dito. Riuscii a liberare ben presto il braccio, cominciando a giocherellare con lui, sentendolo ridere come un bambino quando presi a fargli il solletico.
    «Dai, basta!» esclamò ridendo, scansandosi un po’ e tentando di rialzarsi in piedi per sfuggirmi. Nel far questo, però, cadde rovinosamente all’indietro, trascinando anche me. E ci ritrovammo l’uno sopra l’altro, gli occhi sgranati d’entrambi riflettevano i nostri volti. Lo vidi distintamente deglutire e lo feci anch’io, mentre il mio sguardo vagava quasi inconsciamente sul suo corpo prima di tornare a guardare quei pozzi d’onice dilatati da un qualcosa che sembrava animare anche me.
    Non me ne resi conto subito, di quel che fece lui. In meno d’una frazione d’un secondo, si sporse verso di me e le sue labbra sfiorarono le mie, in un contatto castissimo e fuggevole. Sbarrai gli occhi nel sentire la calda consistenza di quella bocca, quel velluto rosso che adesso mi accarezzava il viso, bollente quanto le fiamme che ci riscaldavano pian piano, ma quando incontrò il mio sguardo, le sue pupille si ridussero ad un puntino scuro.
    Si allontanò immediatamente e lo feci anch’io, sbattendo quasi violentemente il sedere sul pavimento quando scattai all’indietro, guardandolo, forse sconvolto. Il suo petto aveva cominciato ad alzarsi e ad abbassarsi a ritmi irregolari mentre deglutiva sempre più a fatica, con il respiro velocizzato. Si portò quasi inconsciamente due dita ad accarezzarsi le labbra, passandoci sopra anche la lingua prima di tornare a guardarmi, le sopracciglia scure corrugate dalla preoccupazione.
    «Scusami», farfugliò, indietreggiando un pochino. «Non so cosa mi sia preso, io non... non volevo farlo, cioè, sì... no, aspetta...» S’interruppe coprendosi il volto con le mani, come se continuare a parlare avesse solo potuto fargli sfuggire qualcosa che non voleva.
    Dal canto mio, ero rimasto paralizzato. Sbaglio o... mi aveva appena baciato? Il mio primo bacio e me l’aveva dato un ragazzo! Deglutii nervoso, arrischiandomi ad avvicinarmi un po’ a lui, cercando nel contempo di vedere il suo volto, inclinando la testa. Mi sentivo in imbarazzo e non poco, ma volevo cercare di dimostrarmi sicuro. Vedendo però che non si decideva a muoversi, titubante, gli picchiettai una spalla, e lui alzò di poco lo sguardo, fondendo i suoi occhi d’onice con i miei.
    Riuscivo benissimo a scorgere il rosso che gli imporporava le guance. Fece scivolare di poco le mani sul viso, facendo comunque in modo che fossero solo gli occhi, la parte scoperta ed esposta. Dalla sua espressione sembrava stesse aspettando qualcosa. Magari che fossi io a fare o dire qualcosa, ma ero più sconcertato di lui, se volevamo metterla su questo piano. Proprio non sapevo cosa avrei potuto dire, in una situazione del genere. Avevo sempre pensato che l’affetto che nutrivamo l’uno per l’altro andasse oltre a quello che normalmente vigeva fra amici, ma non pensavo andasse verso quella soglia.
    Deglutii, sedendomi sulle mie gambe e poggiando le mani chiuse a pugno sulle cosce, appuntando il mio sguardo alle assi di legno. Il fuoco creava frattanto giochi di luce e ombra, rendendo l’atmosfera ancor più strana. Intima, avrei detto. Anche se l’imbarazzo che aveva cominciato ad aleggiare fra noi rendeva opprimente tutto il resto. Presi ad attorcigliarmi alcune ciocche di capelli fra le dita, evitando di guardarlo anche se la voglia di farlo cresceva sempre di più. Mi concessi il lusso d’un piccolo sorriso, grattandomi poi il collo.
    «Sai, era il mio primo bacio», dissi in un sussurro, nel tentativo di alleggerire un pochino la tensione che si era creata fra noi, ma mi diedi mentalmente dell’idiota quando mi resi conto di ciò che avevo detto.
    Sussulto, volgendo lo sguardo da un’altra parte prima di scuotere la testa, come se non si capacitasse di quel che aveva fatto lui stesso. «Cazzo», imprecò sottovoce, richiamando la mia attenzione. Era la prima volta che lo sentivo parlare così. Non capii però perché l’avesse detto, e non gliel’avrei di certo chiesto. Fu lui stesso a dirmelo, ritrovando parzialmente il coraggio, guardandomi, anche se il suo volto mostrava gli inconfutabili segni dell’imbarazzo. «Credo di aver messo nei guai tutti e due, così», mormorò concitato, tormentandosi nervoso le mani. «E lo farò ancor di più appena te l’avrò detto».
    Per un po’ nessuno di noi due fiatò, ci limitammo solo ad osservarci, finalmente, anche se non aprivamo bocca. Poi, dopo poco, lui trasse un lungo sospiro, socchiudendo gli occhi per poi riaprirli.
    «Vedi, da un po’ di tempo sento qualcosa, per te... qualcosa che non dovrei provare perché è sbagliato», il suo tono divenne bassissimo, come se avesse paura che qualcun altro, oltre a me, potesse sentirlo. «Questo qualcosa mi rende strano, ma allo stesso tempo mi fa capire che la mia vita serve a qualcosa... considerami pure uno stupido, ma... ecco, credo che quel che sento per te sia...» gli sfuggì un piccolo suono simile ad una risatina tremolante, prima che mi guardasse intensamente negli occhi. «Credo di amarti, Edward».
    Il mio cuore perse un battito, a quelle parole. Non sapevo cosa rispondere, non sapevo nemmeno da dove cominciare. Ero sempre stato, sin da bambino, una persona che non si era mai interessata alle relazioni amorose, avevo sempre passato i miei anni chino sui libri per poter avere un’istruzione che, in una famiglia come la mia, avrebbe significato portare avanti una stirpe. Non avevo mai avuto qualche interesse particolare per le donne, figurarsi quindi per gli uomini, e non conoscevo nemmeno le cose basilari.
    Mi sentii le guance in fiamme al solo pensiero, e non seppi dove trovai il coraggio ma, incerto, mi avvicinai a lui. Titubante e con un certo disagio, mi arrischiai a cingergli i fianchi con le braccia, sentendo il suo corpo teso per lo stupore. «Non so se quello che provo io sia a sua volta amore, ma...» cominciai, sentendomi invaso ancor di più dall’imbarazzo. «...quando tu non ci sei, vorrei averti con me».
    Mi abbracciò e mi accarezzò lento i capelli, la mano tremante e insicura. «È esattamente quello che provo io», la sua voce era dolce e struggente, nonostante il lieve tremore che l’incrinava.
    Fu dopo quel momento che cominciammo davvero a frequentarci. Con la scusa degli incontri tra mio padre e il suo, noi riuscivamo sempre a vederci e ad andare in giro per la città come normali amici, arrischiandoci a prenderci per mano solo quando eravamo sicuri d’esser davvero soli. Passarono un altro paio di mesi, e anche quando venne il momento di ritornare, non a Sheerness, bensì ad Edimburgo, cercammo di restare comunque uniti. Non volevo lasciarlo, ora che avevo capito cosa significasse amare incondizionatamente qualcuno, ma le cose presero una piega che, nessuno dei due, si sarebbe mai aspettato.
    Nonostante il suo continuo tirarsi indietro quando gli chiedevo di fare quel passo, fu lui stesso, una sera, a portarmi a casa sua. I nostri padri erano nuovamente ad una cena per discutere sul lavoro, e lui era passato a prendermi nella taverna in cui alloggiavamo, rendendomi, a quel tempo, il ragazzo più felice del mondo. Ricordo distintamente come aveva addobbato il suo letto, nel tentativo di rendere l’atmosfera romantica e sensuale. Mi ero trattenuto dal non ridere, certo, ma anche dal non svenire per l’imbarazzo. Quando poi ci eravamo ritrovati nudi, a guardarci entrambi con gli occhi quasi dilatati e il viso in fiamme, avevo davvero creduto che non avrei retto a tutto quell’improvviso afflusso di adrenalina. Dolore, sospiri, gemiti concitati. Tutto era andato a confondersi mentre diventavamo una sola cosa, concretizzando quel frutto peccaminoso che era il nostro proibito amore. Ma, come dicevo pocanzi, la situazione cambiò poco tempo dopo quel momento.
    Era notte, e pioveva ininterrottamente da molto tempo. Mi trovavo a Sheerness con mio fratello, e l’avevo trovato a leggere mentre aspettava nostro padre, uscito come suo solito a quell’ora tarda già da un po’. Non mi dilungherò troppo a spiegare ciò che accadde. Sappiate solo che, quando lui ritornò a casa, rischiò di morire. Era ferito e perdeva molto sangue, anche quando io e Alphonse provammo ad arrestare l’emorragia non risolvemmo molto. Ciò che fece nostro padre, però, fu spaventoso.
    Mi chiese di prendergli da bere, ma quando sentii l’urlo lanciato da mio fratello, abbandonai tutto ciò che avevo preso per correre da lui. La scena che mi si parò davanti fu terrificante. Non vidi mio padre, bensì un vampiro col suo aspetto. E fu allora che divenni quel che sono, una misera creatura che beve il sangue degli esseri umani per continuare a vivere e mantenersi forte. Potrei anche non farlo, ma a quel punto sarebbe meglio la morte che la pazzia in questa forma.
    Dunque miei cari, dopo quanto vi ho raccontato, siamo così giunti ai giorni nostri. Corre l’anno 1922. Trecento anni buttati al vento, in verità. Poiché, una settimana dopo il mio esser diventato vampiro, l’uomo che amavo venne ucciso. Vi lascerei immaginare da chi, ma voglio dirlo: fu mio padre. Già, proprio quel padre che si era dimostrato tanto gentile e premuroso nei miei confronti e nei suoi.
    Strano come cambino i punti di vista, nevvero? Ma non per questo ho rinunciato a cercarlo. O meglio, a cercare un lui che non era lui. Ci ho messo un po’, vero, ma è con me da quasi otto anni, ormai. E nonostante il destino ci abbia uniti ancora una volta, dopo trecento anni, nulla è più come prima. Per averlo trasformato ci ho quasi rimesso la sua anima. Non ho accennato al fatto che, in questa nuova vita, era un prete. Forse è per questo che la sua metà oscura è così in conflitto con l’altra. Mi ripudia. Ripudia se stesso e tutto ciò che potrebbe aiutarlo a ricordare il passato. Solo in alcuni momenti ritorna ad essere il mio amante, e quei momenti me li godo appieno, fondendo nutrimento e sesso in una danza selvaggia ed erotica, che di romantico non ha quasi nulla. Ma la colpa non è di nessuno dei due.
    Siamo creature nate per ammaliare, per sconvolgere, è la lussuria stessa a guidarci. Presto, però, ho come la sensazione che ci sarà una svolta decisiva, in quel che stiamo metaforicamente vivendo. Qualcosa che renderà quest’eterno supplizio meno soffocante.Tutto ciò che è cominciato nel sangue finirà nel sangue, e questa visione distorta del mondo giungerà alla sua decadenza.
    Polvere alla polvere, cenere alla cenere. Qual fine migliore, per un vampiro. Non siete forse d’accordo?














_Note inconcludenti dell'autrice
Credo che dopo aver letto questa storia tutti voi vi starete chiedendo perché sono così scema e faccio certi finali inconcludenti... ebbene, vi rispondo subito: mi divertono!
Parlando con la mia nee-san Liris, alla fine ho optato per una specie di storia a parte che possa, spero, spiegare un po' la vita passata fra Roy e Edward molto prima de “Il bacio del vampiro” e dello stesso Il figlio delle Tenebre, visto che facendo i conti avrei dovuto scrivere troppi salti nel passato se non interi capitoli e non si sarebbe capito più nulla.
Qualche cosa, nell'inizio della storia, alcuni di voi l'hanno già riscontrata ne Il figlio delle Tenebre ma mi serviva per unire i vari punti; come avevo già accennato in separata sede, l'ho scritta perché alcune cose non sarei riuscita ad inserirle nella storia a capitoli, poiché avrei allungato un po' troppo e sarei stata costretta ad inserire parti del passato che ci avrebbero in questo modo distanziati dalla storia vera e propria, e cioè dagli avvenimenti accaduti dieci anni dopo la prima storia.
Così, dopo aver letto questa doppia shot, spero vi siate fatti una piccola idea di come sia stato il loro rapporto all'inizio, perché vedrete ne “Il figlio delle Tenebre” frammenti che saranno un po' di tempo dopo e che qui ho descritto solo come sensazioni, abbreviando.
Ultime note. Anche questa canzone è degli HIM [His Infernal Majesty] e si intitola, ironia delle ironie, Vampire Heart.



[1] Lascia che ti svegli la canzone del mio cuore deformato,
e fatti condurre lungo questo sentiero, nell’oscurità
alla quale io appartengo finché sento il tuo calore
Stringimi come ti sei aggrappato alla vita
quando tutte le paure brulicavano e mi sotterravano,
Amami come ami il sole,
intaccando il sangue nel mio cuore di vampiro.
[2] Letteralmente significa “Signore”, deriva dall’inglese “Lord” ed è gaelico scozzese.
[3] Papà, questo qui è scemo (Letteralmente: Lui è scemo)




_My Pride_


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