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Autore: Kary91    31/05/2016    3 recensioni
[Mini-Long di 3 capitoli | Pre-Saga | child!Alec/child!Jace (il loro primo incontro) | Introspettivo]
Si fissarono in silenzio.
L’espressione di Jonathan brillava di arroganza, ma c’era qualcosa nel suo aspetto – nella sua magrezza, in quegli occhi grandi da bambino – che lo rendeva insolitamente vulnerabile agli occhi di Alec.
La solitudine gli sporcava la pelle come un’impronta: come la marmellata sulle mani di Max quando pasticciava con la merenda, come i baffi di mascara sulla faccia di Izzy quando giocava a truccarsi di nascosto.
“Forse hai ragione” ammise Alec con un’onestà che colse Jonathan di sorpresa.
“Forse sei davvero più bravo di me. Ma credi che questo cambi qualcosa? Possiamo batterci e tu potresti vincere ma anche se riuscissi ad andartene ti ritroverò. Ti ritroveremo e ti riporteremo a casa.”
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Max Lightwood, Robert Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A thousand times over;'
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Premessa: Questa storia si ispira al prompt “child!Alec/Jace – Il Primo Incontro” propostomi da Lady Aika durante l’event di maggio del gruppo We are Out for Prompts.

 

 

 

The Forging of a Bond.

 

“I remember when I met Jace,” Alec said. He’d found two boxes and was dumping bandages into one. He walked out of a Portal from Idris. He was skinny, he had bruises and he had these big eyes. He was arrogant, too. He and Isabelle used to fight.” He smiled at the memory.

Cassandra Clare;

 

Jonathan Wayland attraversò con passo deciso i dieci metri che lo separavano dalla famiglia Lightwood.

Camminava a testa alta, la mano di Robert a stringergli affettuosamente una spalla.

“Ti piaceranno, vedrai” stava mormorando l’uomo, cercando di rassicurarlo: Jonathan non poté fare a meno di percepire la sua tensione di quel tocco e il nervosismo che impregnava la sua voce. Non assomigliava per niente a suo padre: Michael Wayland non aveva mai avuto paura di nulla.

E in quanto a lui, erano ben poche le cose in grado di spaventarlo. Il trasferimento a New York, si era detto più volte quel mattino, non sarebbe mai stata una di queste.

Non sapeva un granché della famiglia che l’avrebbe accolto all’Istituto e nemmeno si era dato la briga di porre domande: a che sarebbe servito?

I Lightwood non sarebbero stati i suoi genitori, ma solo dei tutori. Ne era certo, nonostante Robert Lightwood avesse cercato di convincerlo del contrario lungo il tragitto, parlando di famiglia e di pratiche per l’adozione. Di norma gli Shadowhunters orfani venivano ospitati negli Istituti perché potessero proseguire con l’addestramento, non per essere adottati.

Il fatto che, a quanto pareva, suo padre fosse stato un grande amico di Robert, non c’entrava nulla.

Non poté fare a meno di stranirsi, quando Maryse Lightwood lo accolse con un abbraccio talmente stretto da sentirsi soffocare.

Lei, una donna dall’aria austera e affatto materna, che non aveva nemmeno mai visto.

Lui, un qualsiasi orfanello pelle e ossa.

Quando gli parlò, Maryse lo fece con una dolcezza che suonava sincera, anche se Jonathan aveva l’impressione che quella donna fosse abituata a parlare con tutt’altri toni.

Forse gli faceva semplicemente pena, si disse, sbirciando in direzione dell’Istituto. Forse lei e Robert – che continuava a tenergli una mano sulla spalla  – erano solo presi dalla novità e l’avrebbero coccolato per qualche giorno per poi lasciarlo perdere, troppo presi dal lavoro e dagli altri tre figli.

Non che gli importasse avere dei nuovi genitori, si disse, ignorando la fitta di dolore che lo stuzzicò a quel pensiero.

La sua famiglia era morta assieme a suo padre: la tenuta dei Wayland era l’unica casa che avrebbe mai avuto. Un Istituto avrebbe anche potuto fungere da abitazione, ma non assomigliava per niente a una casa.

 

“Jonathan?”

Il richiamo di Maryse lo distolse da quei pensieri. Gli stava indicando i due ragazzini che aveva notato poco prima, un maschio e una femmina. Il bambino era talmente piccolo che non gli arrivava nemmeno alle cosce.

“Questi sono Isabelle e Maxwell” li presentò Maryse, mentre il bambino di nome Max si nascondeva dietro le sue gambe. “Isabelle ha la tua età, Max sta  per compiere tre anni.”

Jonathan s’irrigidì, ma tese il braccio per stringere la mano alla bambina: non aveva mai incontrato dei ragazzini della sua età. Lo incuriosivano, ma non sapeva bene come comportarsi.

Isabelle ricambiò la stretta con forza, cogliendolo di sorpresa. I suoi occhi neri erano decisamente ostili, dettaglio che non sfuggì né a Jonathan né a Maryse: quest’ultima la fulminò con lo sguardo e la bambina sbuffò.

“Benvenuto in famiglia, Jonathan”  esclamò spiccia, sorridendogli. “Sei carino, anche se mi sembri un po’ magrolino per avere dieci anni.”

“Isabelle…”

La madre le scoccò un secondo sguardo di ammonimento e la bambina alzò gli occhi al cielo: sembrava non vedesse l’ora di finirla con tutti quei convenevoli.

Jonathan la capiva: moriva dalla voglia di risponderle a tono, ma si trattenne per evitare di giocarsi il posto all’Istituto fin dal primo giorno.

“Sì, va bene, ti chiedo scusa…” si corresse Isabelle, allungando la mano per afferrare quella di Max.  Il piccolo si allacciò alla sua gamba e sorrise timidamente in direzione di Jonathan, che si sorprese a ricambiare.

“Adesso posso tornare ad allenarmi?”

“Isabelle!”

Questa volta, l’ammonimento di Maryse suonò davvero brusco. Isabelle tacque all’istante, la bocca contratta in un broncio infantile che poco si addiceva a una futura guerriera Shadowhunter.

“Si può sapere dov’è Alec?”

Robert, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si guardò nervosamente intorno.

Maryse strinse le labbra.

“Ha detto che sarebbe arrivato subito” rispose, cercandolo a sua volta con lo sguardo.

“E questo più meno quindici minuti fa” non riuscì a trattenersi dallo specificare Isabelle.

Robert fece per ribattere, ma una vocina lo precedette.

“Alec tira tante frecce!”

Max aveva smesso di nascondersi dietro alle gambe della sorella e aveva azzardato un passo verso di Jonathan. Si muoveva in maniera un po’ goffa, un braccio avvolto intorno a un cagnolino di peluche e l’altro teso per non cadere.

Jonathan si accovacciò per essere alla sua altezza.

Ne era affascinato: non sapeva che i bambini piccoli potessero essere così buffi. Non aveva idea del perché, ma se li era sempre immaginati come degli adulti in miniatura.

Si chiese se anche lui, da piccolissimo, fosse stato come Max. Non ricordava di essersi mai nascosto dietro le gambe di suo padre o di aver giocato con dei peluche. In casa sua non erano mai mancati i libri e aveva anche avuto qualche giocattolo, ma per lo più si trattava di armi o di qualche soldatino.

La cosa più simile a un peluche che avesse mai avuto, probabilmente, era stata il suo cuscino.

Max azzardò un altro passo verso di lui, gli occhi grigi sgranati per la curiosità.

“Come ti chiami?” chiese, mangiandosi le parole. Fissava incantato l’anello dei Morgersten che il ragazzino portava all’indice sinistro.

“Jonathan. E tu sei Max, vero?”

Tese la mano, proprio come aveva fatto con Isabelle. Il bambino prese quel gesto come un invito e allungò la sua per toccargli cauto l’anello.

“Sì e sono un bimbo grande” specificò, rivolgendogli un sorriso luminoso: Jonathan si accorse che non riusciva ancora a pronunciare la S.

Un moto di simpatia improvviso gli scaldò il petto e anche le ultime briciole di rigidità avvertite nel momento in cui aveva individuato i due fratelli svanì.

Era talmente occupato a studiare Max mentre giocava con il suo anello che, quando Maryse alzò la voce, trasalì.

 “Alexander!” stava chiamando, risalendo i gradini dell’Istituto. “Vieni subito qui!”

Mentre la donna spariva al piano di sopra, Jonathan sentì un tocco affettuoso sulla spalla: Robert gliela stava di nuovo stringendo.

“Alexander è poco più grande di te” spiegò, sorridendo rassicurante. “Non vede l’ora di incontrarti.”

Ancora una volta, Jace dovette combattere l’urgenza di ribattere. Ai suoi occhi era palese che il tanto nominato Alexander non fosse affatto interessato a conoscerlo.

“Potrete allenarvi insieme” proseguì Robert, arruffando i capelli di Max, che si era appoggiato alla sua gamba con la testa. “Qui all’Istituto non ci sono molti ragazzini: avere un compagno di addestramento farà bene a entrambi.”

“Alec si allena già con me” ribatté Isabelle, indirizzando a Jonathan un’occhiata obliqua.

Il padre si lasciò sfuggire un sospiro, ma non la rimproverò.

“Andrete d’accordo” concluse poi, incrociando lo sguardo di Jonathan: i suoi occhi gli sembravano quasi tristi, adesso. Come se gli fosse appena tornato in mente qualcosa di doloroso. “Ne sono certo.”

Jonathan mise le mani in tasca e annuì, la schiena ben dritta nonostante morisse dalla voglia di fare spallucce.

Lui, a differenza di quello che pensava Robert, non ne era affatto convinto.

 

Note Finali.

Buon pomeriggio! Siccome proprio non riesco a stare alla larga da Alec e Jace, sono tornata alla carica con il parababromance. Era da tanto che sognavo di scrivere qualcosa su Jace e Alec da bambini, ma mi bloccava il terrore di scrivere qualcosa di stra-banale e già sentito. In fondo in CoHF ci è già stato accennato parecchio per quanto riguarda Jace bambino e la reazione di Izzy e Alec al suo arrivo. Inoltre sono nuovissima in questo fandom, quindi immagino che siano già state scritte migliaia di versioni a riguardo. Alla fine, però, ho voluto comunque fare un tentativo.

Questa storia sarà suddivisa in tre parti (perché, tanto per cambiare, mi è venuta chilometrica), all’interno delle quali si alterneranno il punto di vista di Jace decenne e quello di Alec, leggermente più grandino. Il prossimo capitolo sarà quindi dal punto di vista di Alec.

Spero tanto che questo primo capitolo possa esservi piaciuto!

 

   
 
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