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Autore: PanRayuki    01/06/2016    1 recensioni
Nathan è un uomo di 29 anni, ma la sua vita sembra non avere più uno scopo da quando un incidente l'ha segnato dentro.
Un giorno decide di andare a pranzo in un bar in centro, ma qui non troverà solo un buon pasto: un uomo infatti si avvicina a lui e, con poche e semplici quanto raccapriccianti parole, instaura in lui un senso di stranezza.
«Ho un messaggio per te, è da parte di qualcuno che conosci.»
Genere: Horror, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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20 ottobre.

Una villetta su un solo piano, molto piccola ed aggraziata, di color panna sulle facciate all'esterno, era circondata da siepi, alberi di magnolia e da un vasto prato. Un lampione la faceva da padrona, illuminandone una parte con una finestra che, a quanto pare, sembrava essere rimasta ancora aperta. Da lì, si potevano intravedere delle lancette d'orologio che sembravano suggerirne l'orario notturno: le due e diciassette minuti.
L'arredamento all'interno aveva uno stile moderno ed un calendario appeso ad una parete indicava qualche mese prima della data effettiva: agosto, ma non è tutto. I numeri del pezzo di carta erano stati cancellati con una "X" che riconduceva facilmente ad un pennarello rosso, fino al 27.
Accanto, era visibile un uomo con espressione costernata, quasi sofferente, che si reggeva la fronte con la mano destra mentre il gomito era distrattamente disposto sulla scrivania in mogano. Su di questa, una serie di fogli vi erano sparpagliati: manoscritti, bozze stilizzate di disegni, progetti, piani di lavoro da seguire ed ancora materiali che stanziavano da acquerelli ad un laptop grigio metallizzato; qualsiasi cosa potesse essere avvistata su quel mobile, avrebbe fatto sì che facesse intuirne qualcosa su cosa svolgeva solitamente quell'uomo: era un artista. Disegnatore, scrittore, anche musicista a giudicare dai pentagrammi poggiati in un angolo sporgente del legno, ma cosa stava torturandolo in quella notte tanto tranquilla, silenziosa e propiziatoria?

Pensieri, paure.

Nathan, ventinovenne con una carnagione chiara, occhi verdi, capelli folti castani e qualche accenno di barba non molto curata, sembrava aver perso la voglia di vivere.
Era abbigliato come se fosse appena rientrato da una serata di lavoro in un qualche ufficio: aveva le maniche della camicia bianca, con un ricamo nero lungo tutto il bordo, tirate su fino ai gomiti; un paio di pantaloni neri con la tipica riga centrale ed un paio di mocassini ai piedi. Al collo, una cravatta blu scura lasciata larga, come se intendesse levarsela da un momento all'altro, ma non avesse la voglia d'eseguirne il gesto.

«Non ce la posso più fare...»

Erano le uniche parole che, con un filo di voce, Nathan riusciva a dire.
Una voce femminile si presentò nella stanza, «Un'altra notte insonne?» domandò come se l'interlocutrice stesse contemporaneamente sorridendo. Nathan si alzò dalla sedia, grugnendo e sospirando pesantemente.
«Qual è il problema, Nathan?»
Lui non permise di far uscire una sola parola da quelle labbra serrate che in realtà nascondevano dei denti stretti, probabilmente frustrato da ciò che gli accadeva.
Guardandosi intorno, apparentemente, sembrava esserci solo lui in quella piccola casa. Ma lui non era solo, non lo era mai stato. Non fino a quel giorno.
La dolce e indulgente voce ripeté la domanda un'ultima volta, senza alcuna irritazione e fu proprio allora che, portando di scatto le mani fra i capelli, Nathan sbraitò qualcosa dopo un piccolo verso iroso.
«Non ci riesco! Non ci riesco! Ecco cosa succede!» sbottò lui, voltandosi di scatto ed allargando stavolta le braccia come intento a discutere "faccia a faccia" con qualcuno; indicò quindi la scrivania.
«Li vedi?! Eh?! Questi inutili ammassi di...» si avviò verso il mobile, afferrando e strappando intere pagine, «... di ciarpame! Non una. Non due, ma ben centotrentasette volte che provo a fare qualsiasi cosa! Eppure non mi piace, mi fa schifo! Non sono più in grado di scrivere o creare qualcosa...» sospese la sua discussione con un tono sempre più crescente d'ira, dirigendosi verso il calendario che afferrò e prese a muovere avanti e indietro di fronte a sé, lasciandone intendere che stesse sbattendolo davanti a qualcuno, riprendendo «... da quel dannatissimo giorno! La mia vita non ha più uno scopo! Non ha più senso!»
La voce emise un verso sorridente, mentre il ragazzo cercò di placare il proprio stato d'animo, mostrando semplicemente i denti.
 

«Ti stai ancora incolpando per qualcosa che non potevi prevenire?»
«Avrei potuto farlo, se solo avessi dato maggior importanza a...»
«No.» lo interruppe, «Nathan, tu non potevi. Devi lasciar andare quel ricordo, o finirai per farti risucchiare da quella spirale. Io non voglio... vederti soffrire ancora. Lasciaci andare.»
Nathan non rispose, chinò la testa, coprendo la propria espressione con i ciuffi di capelli della frangia; l'unica cosa che si leggeva sul suo volto era un mix tra rassegnazione e disperazione sommessa. Lasciò cadere al pavimento l'oggetto che tanto sembrava averlo segnato, dirigendosi nel proprio letto nella stanza accanto allo studio senza avere le forze per togliersi nulla, ad eccezione delle scarpe. Fece sprofondare la testa nel morbido cuscino, osservando il comodino a fianco: lì sopra vi era un piccolo libricino a righe, era il suo libro dei sogni, ogni volta che ne faceva uno, al risveglio lo scriveva cercando di ricordare quanto più possibile... ma, ultimamente, non ne ricordava più nessuno.
Storse il naso, poco convinto che il sonno sarebbe arrivato, allungò la mancina ed afferrò quel libricino dalla copertina nera. In qualche modo, si sarebbe dovuto distrarre. Aprì la prima pagina: descriveva un paesaggio soleggiato di campagna, volti allegri e felicità la facevano da padrona, laggiù. Un timido sorriso si aprì sul viso di Nathan. Sfogliò svariate pagine, abbozzando talvolta dei versi che sembravano placare la sua angoscia fin quando non giunse al sogno del 26 agosto. Quel sogno sembrava volerne premonire qualcosa del giorno seguente; era la fissa di Nathan: un paesino di campagna buttato nella pioggia torrenziale; lui che correva in cerca di un riparo; volti di persone che non riusciva a distinguere e che si rifiutavano di fornirgli un tetto costringendolo alla continua corsa.
Giunto in strada, dissestata a differenza degli altri sogni, una macchina per poco non lo investì. Non ne ricordava il colore e nemmeno il modello, sapeva solo che doveva seguirla. Arrivò così in una galleria che, alle sue spalle, si chiuse senza lasciargli altra scelta se non proseguire quel buio corridoio. L'aria iniziava a farsi pesante ed un peso opprimente cominciò a propagarsi sul suo petto come un macigno.
Delle voci confuse fecero la loro comparsa ed infine dei fari lo abbagliarono, portandolo al risveglio. Una smorfia d'irritazione si ripresentò di prepotenza sul suo volto, ma decise comunque di proseguire a leggere la pagina successiva.

Il 27 agosto non vi scrisse il sogno. Quel giorno era stato quello dell'incidente che portò una nuova prospettiva cupa e sinistra nella vita del ragazzo. Un sospiro aleggiò nell'aria, seguito da un

«Smettila di leggerlo...»

Nathan ubbidì, quasi stressato da quelle richieste; riappoggiò l'oggetto sul comodino e spense la piccola lampadina che gli aveva permesso la lettura fino ad ora. Il giorno successivo si svegliò, stiracchiandosi e sbadigliando come se tutto fosse stato risolto. Malamente, il moro si sollevò dalla comodità del materasso per andare a farsi una rapida doccia; si vestì ed uscì dalla villetta. Comprò un giornale, quindi andò in banca a prelevare dei soldi. Sarebbe stata una giornata tranquilla, comune, dove lui sarebbe stato il solito ventinovenne qualunque in una cittadina di poca importanza.
Verso mezzogiorno, Nathan si fermò davanti ad una vetrina di un bar; lo sguardo esprimeva poco interesse e l'aria imbronciata lo faceva sembrare un reietto della società. Dopo qualche minuto di rimuginare, decise di entrare per accontentare il proprio stomaco che aveva preso incessantemente a brontolare. Si sedette ad un tavolo singolo ed ordinò un panino imbottito ed una birra media alla spina. In quel momento, qualcosa scattò dentro di lui: una strana e formicolante sensazione lo portò ad alzare la testa e dirigerla verso la porta; un uomo apparentemente normale entrò nel bar, facendo chiedere a Nathan il perché avesse avvertito quel brivido. Tornò a mangiare, ma proprio in quell'istante, l'uomo si avvicinò a lui, restandogli di fianco, in piedi e con le mani in tasca. Il tono di voce sembrava essere apatico, leggermente basso e rauco. Nathan non si scomodò minimamente a rivolgergli lo sguardo.

«Tu sei Nathan Williams?» Ci fu un momento di silenzio in cui il moro non rispose. «Ho un messaggio per te, è da parte di qualcuno che conosci.»
«Che cosa vuoi?» proferì sinteticamente, con tono seccato, come a volerlo invitare a darsi una mossa.
«Mi manda Noah.» nuovamente, il silenzio piombò nella sua mente, stava per addentare l'ennesima volta il proprio pasto, quando quel semplice nome bastò a farlo girare con aria stupita. Per un attimo pensò ad uno scherzo.
«Dice di non seguirlo, o sarà peggio per te.» una smorfia di disgusto ora la faceva sovrana sul viso del moro che, di scatto, balzò in pieno viso a colui che nemmeno conosceva.
«Vaffanculo..!» ringhiò a denti stretti, mostrando diverse rughe espressive sulla fronte parzialmente coperta dalla frangia spettinata. «Chi cazzo sei?» aggiunse, notando la mancanza di espressione dello sconosciuto alla sua reazione.
«Te lo ripeto: smettila di seguirlo.»
Quella persona lo stava mettendo a dura prova. Da un lato lo voleva prendere a pugni, dall'altro si chiedeva se non ne dovesse avere timore. La questione era semplice... come poteva mandarlo Noah? Non fece in tempo a proporre quella domanda che l'uomo si era già voltato verso l'uscio, varcandolo. Preso da un momento di paura, Nathan riflesse sul perché di quelle parole: doveva sapere!
Immediatamente si catapultò all'esterno della locanda, ma già messo il piede fuori... di quel bizzarro tizio non vi fu più traccia. Che se lo fosse immaginato?
Riprese a riflettere sull'aspetto di quell'uomo: occhi e capelli neri molto corti, aspetto robusto, naso a patata, al massimo gli avrebbe dato cinquant'anni. Si rivolse verso alcuni passanti che sembravano guardarlo straniti, nonostante proseguissero il proprio percorso.
E questi cos'hanno da fissarmi così?, pensò arricciando il naso; decise di rientrare per terminare il proprio pasto con un paio di bocconi e pagarlo. Uscito stavolta definitivamente dal locale, proseguì il proprio cammino fissando il pavimento.

«Nathan!» una voce da bambino, solare quanto confusa e distorta, irruppe nel silenzio mentale del ragazzo; inizialmente si guardò intorno, convinto che qualcuno lo avesse chiamato, ma appurata la mancanza di un pargolo in tutta la via, iniziò a preoccuparsi.
Che diavolo sta succedendo?, si domandò sempre più incerto. Camminando verso una meta non ben definita, sentì qualche piccola risata che, pian piano, sembrava assumere un tono quasi malvagio. Senza rendersene conto aveva raggiunto quell'incrocio. Il respiro di Nathan si fece più veloce e, dall'altra parte della strada, vi vide...

«N-... Noah?!»
No, n-non è praticamente possibile, pensò strofinandosi gli occhi per l'incredulità, restando a bocca aperta. Guardando a destra ed a sinistra, il moro decise di attraversare la strada.
«Noah, sei tu?!» domandò con il cuore in gola. Il bambino, un biondino dal taglio composto, alto al massimo un metro e trentasette, con occhiali ed occhi ambrati, gli sorrise, iniziando successivamente a correre in direzione di un vicolo lì vicino. Senza pensarci troppo, Nathan lo seguì ed una volta giunto sul posto che non aveva vie di fuga, cominciò ad avvertire nuovamente un senso d'oppressione e tristezza. La testa iniziò a girargli vorticosamente, dandogli un flebile senso di nausea da farlo accovacciare al manto asfaltato. La fronte imperlata dal sudore che colava gli fece avvertire un mancamento: l'ambiente intorno a lui si stava fondendo insieme in un vorticoso movimento rotatorio.
Non resse tale sforzo, lasciandosi perciò accasciare al pavimento.

Si risvegliò diverse ore dopo, richiamato da un passante alquanto burbero che lo invitò ad alzarsi dal suolo pubblico. Stordito da quel risveglio, notò che era calata la notte e che l'orologio indicava un orario che tanto lui odiava: le due e diciassette minuti. Accigliatosi alla vista dell'ora, iniziò a guardarsi intorno. La via che prima era popolata, ora risultava deserta, fredda, quasi priva di vita. Cercò di non pensarci dicendo a se stesso che semplicemente doveva tornare a casa. Non sapeva il perché, ma decise di camminare nel bel mezzo della strada, come consapevole che nessuna macchina sarebbe passata di lì.

«Che cosa hai fatto, Nathan...»
Si fermò, guardandosi intorno con fare intimorito. Quella voce di donna... «Non dovevi farlo.»
«Oh, ti prego. Fa silenzio Helen.» irruppe lui, «Io non ho fatto nulla.»
«Non lo sai cos'hai fatto veramente.» quella melodiosa voce che aveva assunto un tono rassegnato, combattuto, svanì lasciando il ragazzo vagare in piena solitudine, silenziosamente. Sentì il bisogno di stringersi fra le braccia, come infreddolito, ma non lo era. C'era qualcos'altro sotto che nemmeno lui stesso avrebbe saputo definire con fermezza: l'unica cosa che ora importava per Nathan era tornare nella propria abitazione e riposare. Il cielo era carico di elettricità, sembrava che un temporale sarebbe scoppiato da un momento all'altro, provocando un senso di fretta nel moro che lo portò a raggiungere la porta di casa a passo svelto. Infilata la chiave nella serratura, si udì un tlack. Ora era al sicuro dalla pioggia... ma qualcosa non tornava: l'appartamento era stato messo a soqquadro, come se vi fosse entrato un ladro. La mancina di Nathan passò su tutto il volto che non sapeva a quale emozione attaccarsi: seccatura, preoccupazione o angoscia? Sospirò, quasi esasperato, maledicendo chiunque avesse fatto tale azione, quando improvvisamente un'impercettibile voce echeggiò in tutta la casa, facendo sussultare il ventinovenne.

«Chi c'è?» chiese ad alta voce. Non ottenendo nessuna risposta, Nathan decise di cercare in giro, ma in quelle quattro stanze (cucina, salotto, camera da letto e bagno), non vi trovò nessuno. Costernato, si massaggiò il collo sedendosi in poltrona. Ancora una risata portò questa volta Nathan ad assumere una voce più decisa ed irosa della precedente, accantonando per qualche istante la piccola paura di essere tampinato in casa propria.

«Helen? Noah?» nessuna risposta. Quella situazione era davvero surreale!
Improvvisamente, una serie di passi si udirono dalla cucina, attirando il ragazzo che, una volta sopraggiunto, sobbalzò leggermente scosso dalla visione di ciò che gli si era prospettato dinnanzi.
C'era una finestra sulla parete di fronte alla porta, il problema era l'aver trovato le antine aperte, quando dall'esterno le aveva viste ovviamente chiuse. Deglutì un cumulo di saliva, facendo un passo in quella direzione, intento a volerla chiudere, quando un lampo provocato dal temporale fece apparire la figura scura di un bambino ad essa di fronte, dall'altra parte del vetro; quella visione fu raccapricciante, degna di un film dell'orrore. Un altro rombo di tuono, quindi un secondo lampo, presentò quella figura ora all'interno della stanza, facendo schizzare il cuore in gola al povero Nathan che cadde al pavimento di schiena, terrorizzato. Prima che il suo balbettare potesse formulare qualcosa di sensato, la figura, ora fissa, alzò il bracco destro puntando verso di lui l'indice; Nathan si sarebbe aspettato delle parole, ma in realtà ciò che vi ottenne fu un sadico sogghigno. Non avrebbe atteso mosse, si scrollò anzi di dosso quella paralisi improvvisa e si rialzò, uscendo dalla cucina e chiudendola a chiave. Era troppo... impossibile!

Cosa cazzo sta succedendo?! Sono diventato pazzo?!, si chiese con vistoso terrore negli occhi. Indietreggiò di qualche altro passo, quando la luce in tutta la stanza iniziò a venir meno, lasciandolo piombare nell'oscurità. Prima che potesse farsi prendere da un infarto metaforico (o forse letterale), Nathan piazzò la mano nella tasca della giacca nera che indossava ancora da quand'era rientrato, estraendo il cellulare per cercare di farsi luce. Ancora una volta, il sangue nelle vene sembrò raggelarsi di colpo: l'ennesima risata si era fatta spazio alle sue spalle, ma voltandosi, nessuna presenza. Portò una mano al petto, avvertendo il cuore battere all'impazzata. Con le mani, cercò di raggiungere una delle pareti, ma quando la toccò, una sensazione viscida al tatto lo avvolse, portandolo a retrarsi dal muro: avvicinando il piccolo telefono scoprì che il muro aveva iniziato a corrodersi, ma anziché mostrare quel che normalmente ci si aspetterebbe, sembrò... pelle. La carne che veniva corrosa dall'acido lasciava solo spazio ad un odore pestilenziale, segno d'evidente decomposizione che ne appestava l'aria. Gli occhi, dilaniati dalla paura, mutarono in un forte senso di nausea che Nathan non riuscì a trattenere, si ritrovò a rimettere sul pavimento, inginocchiato. Pulì un lato della bocca con l'avambraccio destro, ma restò con lo sguardo basso: non aveva vomitato della bile. Era sangue. 
Gemette, balzando indietro e finendo contro quella che era la gamba della scrivania; si aggrappò con tutta la forza che possedeva in corpo, rialzandosi tremolante. Nella sua mente stava cercando di dare un senso a tutto quel che stava capitandogli, ma la soluzione... non si faceva trovare. Scosse la testa più e più volte da destra a sinistra. Ricordava alla perfezione le posizioni di ogni singolo mobile nella propria casa, così decise di fare un tentativo per raggiungere la porta e buttarsi all'esterno di quel posto maledetto. Disdetta: la porta, ora, era senza pomello. L'ansia di Nathan rasentava il picco massimo, quand'ecco tornare la luce per qualche istante da poter fargli vedere dove si trovasse. L'intera mobilia era praticamente mutata, così come le pareti e le porte. Quest'ultime in particolare erano state cementificate ed i pomelli erano stati completamente rimossi.
L'ennesimo sbalzo di corrente folgorò le lampade ed il cellulare di Nathan improvvisamente suonò, cogliendolo talmente di sorpresa che l'aggeggio gli scivolò dalle mani. Nathan non avrebbe mai avuto il coraggio di rispondere; sul display, parzialmente crepato, era apparso il nome del mittente: "Noah". Allo stremo della propria convinzione di salute mentale, Nathan cercò qualsiasi cosa potesse essergli utile per generarsi una via di fuga, senza riuscire tuttavia nell'intento. Il telefono smise di suonare dopo cinque minuti, lasciando che il ragazzo si accasciasse sul bordo della scrivania, attaccato con la schiena in preda ad una crisi di panico, tremante come una foglia. Ci fu un minuto in cui si sentì solamente l'intenso scorrere della pioggia all'esterno; Nathan si rannicchiò tenendosi le gambe al petto.

Beep. Beep beep. Beep.

Il telefono iniziò a vibrare, avvicinandosi al ragazzo che, ormai in preda all'accettazione di tutta quella serie di eventi terrificanti, allungò il collo per vedere cosa avesse ora quell'affare quasi posseduto dal demonio. Indicava un messaggio da un numero privato. Ancora una volta, in cerca di un barlume di speranza, Nathan cercò in tutti i modi di afferrarlo per leggerne il contenuto. Quel che vi trovò non fu per niente rassicurante, com'era facilmente intuibile dal suo sguardo agghiacciato.
PAPA'. TE L'AVEVO DETTO DI NON SEGUIRMI. PERCHÈ L'HAI FATTO? LASCIACI ANDARE. NON VOGLIAMO RESTARE ANCORA QUI.
Con le lacrime agli occhi, Nathan sussurrò «N-Noah...» strinse quindi il telefonino tra le dita fragili ed insicure, portandolo successivamente al petto, cacciando infine un urlo straziante in cui chiamava quel che era il figlio.
Un altro bagliore che sembrò durare molto di più, proiettò l'immagine di Noah che se ne stava in piedi con quell'espressione nuovamente sinistra che, non si sa in che modo, finì in pochi attimi di fronte al padre che lo fissava completamente impallidito.
«Ti avevo avvisato Papà.» un ghigno sadico, uno scuotere della testa da parte di Nathan che iniziò a supplicarlo, quindi uno scatto indietro del braccio e la presentazione di un pugnale che veniva ripetutamente conficcato nell'addome. Una, due, tre... dieci, quindici... venti volte. Ad ogni pugnalata, Nathan sentiva la vita uscire dal corpo. In quell'istante, alle spalle del demonietto, apparve una donna dai capelli biondi, lunghi e riccioluti, vestita con una gonna in jeans a pieghe, pantacollant e camicetta scollata con qualche balza che lo fissava a mani congiunte di fronte al proprio ventre.
«Ti avevamo avvisato Nathan, ma tu non hai voluto darci ascolto...» fece una pausa, nonostante si sentisse morto, sembrò che l'agonia si stesse dilungando nel tempo, cercando quasi di fargli comprendere tutto quanto e ricomporre il proprio puzzle che l'aveva condotto fino a quel punto di non ritorno.

22 ottobre.

I giornali comunicano una notizia sconvolgente: Nathan Williams, noto artista, scrittore e compositore musicale, è morto dissanguato nel proprio appartamento. Nella casa vagavano poliziotti. In particolare, un uomo di quarant'anni si chinò sul cadavere del ventinovenne, osservandolo attentamente; accanto a lui, una donna dai capelli lisci a caschetto rossi stava ispezionando il corpo.

«Povero ragazzo.» esordì l'ispettore, suscitando curiosità nella collega. «Era bravo nel suo mestiere. Un bravo ragazzo.»
«Ispettore.» s'intromise la donna, chiedendo delucidazioni, «Secondo lei si tratta di omicidio?»
L'uomo scosse la testa, spiegandone anche il motivo. «Purtroppo no, questo è un suicidio. Devi sapere che quest'uomo era molto legato alla propria famiglia: viveva per loro. Helen, la moglie, e Noah, il figlio di sette anni erano la sua vita.»
«Cos'è successo?»
«Un... incidente, Annie. Il 27 agosto scorso, durante un temporale estivo, ci fu un terribile incidente all'incrocio vicino le elementari, ricordi?» la collega annuì, facendo suggerire all'uomo di continuare;
«Un camion che trasportava materiale corrosivo finì per schiantarsi contro un'utilitaria blu, coinvolgendo una donna ed il figlio: Helen e Noah Williams. Il marito, Nathan Williams, affermò che fu tutta colpa sua, che non aveva fatto in tempo ad avvisare la moglie a non fermarsi a quell'incrocio.»
«Ma come faceva a sapere...»
«l'aveva sognato.» a quel punto, l'ispettore afferrò il diario lasciato appoggiato sul mobiletto, leggendo per intero il sogno del 26 agosto:

Diario dei sogni di Nathan Williams, data 26/08/2013.

Mi trovo immerso in un paesaggio di campagna, il solito sognato altre volte, ma stavolta la pioggia battente ha ricoperto di diversi centimetri il pavimento. Senza rendermene conto, corro verso le case e gli abitanti, solitamente allegri, in cerca di riparo, ma nessuno sembra intenzionato a volermi aiutare, inoltre i loro volti non sono chiari ma confusi. Proseguendo il percorso, rifiutato dai vari abitanti, giungo in strada stavolta dissestata, come se qualcosa l'avesse corrosa in precedenza.

Improvvisamente una macchina di cui non ricordo il modello, mi sfreccia davanti, oltrepassando un incrocio. Non capisco il perché, ma un'angoscia inizia ad avvolgermi e mi decido ad inseguire il mezzo. L'automobile svanisce girato l'angolo e si presenta una galleria nella quale mi addentro. Una volta varcata la soglia però, questa alle mie spalle si chiude, lasciandomi completamente al buio, in preda a una leggera paura ed un grosso ed opprimente senso di pesantezza che si presenta a livello del petto. A quel punto avverto delle confusionarie urla e voci, fin quando, girandomi, non mi ritrovo dei fari proiettati in mia direzione, svegliandomi.

Appunti:

- nonostante la pioggia, faceva comunque caldo;
- la macchina aveva due passeggeri, al volante una donna;
- l'incrocio, intorno, sembra quello vicino alle elementari;
- le sensazioni provate sono principalmente paura, angoscia e ansia;
- ricordo un clacson simile a quello dei camion prima di svegliarmi.

«Capisco...»
«Nathan era un fissato sul mondo dei sogni, ma a quanto pare, ha iniziato a sognare troppo ad occhi aperti e quella falsa realtà, beh... l'ha portato a compiere questo... gesto.»
«Un vero peccato...» sospirò Annie, fino a quando non si rialzò annunciando il suo momentaneo congedo per rilevare altre informazioni con i colleghi; l'ispettore invece, rimase lì a fissare il corpo dell'artista esanime.

«Io ti avevo avvertito di non seguirlo più quel sogno... Nathan.»
L'ispettore fece cenno a due della scientifica di coprire il cadavere e di portarlo in obitorio, il suo turno era attualmente in pausa, poteva benissimo rilassarsi, sapendo cos'era già successo. Decise di entrare in un pub vuoto, iniziando a fare un giro, soffermandosi su un tavolo e raggiungendo il retro del bar, afferrò una bottiglia di birra.
«Una vera tragedia, eh?» proferì qualcuno che si rivelò essere il barista dall'altro capo della stanza a braccia conserte.
«Eh sì, muoiono sempre i migliori a questo mondo.»
«Prima o poi tocca a tutti, no?»
«Noi siamo i messaggeri però. Tocca a noi dare l'ultimatum.» il barista annuì, chiedendo: «Il prossimo sulla lista?»
Un sottile ghigno si piazzò sul volto dell'uomo... una donna entrò nel bar, parlottando al cellulare con fare infastidito. Una volta chiusa la chiamata, l'ispettore si tolse la giacca e si presentò varcando l'entrata della porta come se nulla fosse, avvicinandosi alla biondina.
«Sei Stephanie Harrison?»
La ragazza, una ventitreenne, lo guardò con fare indagatore, quindi si accinse a rispondere a quell'apatia della persona di fronte: «Sì, perché? Lei chi è?», ma quando sentì le seguenti parole, Stephanie sgranò gli occhi.

«... Mi manda Anthony, ed ho un messaggio per lei...»

  
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