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Autore: Holy Hippolyta    02/06/2016    5 recensioni
Ambientata durante: " X Men: Fist Class". Charles ed Erik giocano a scacchi una sera di pioggia. All'improvviso Erik decide di fare una domanda insolita a Charles...
Tratto dal testo:
: < Lascialo dire a me. Dai, non vorrai farti pregare! Sai che non sono solito farlo. >
La sua voce profonda e suadente non ammetteva un rifiuto perciò il giovane telepate decise di cedere, stretto da quell’insistenza curiosamente tenace su un argomento molto personale.
Genere: Angst, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I DON’T LIKE  RAIN

Erano giorni frenetici alla Villa Xavier: avevano solo una settimana prima di partire per Cuba ed impedire a quel demonio di Shaw di scatenare un terzo conflitto mondiale.

Sebbene fossero un gruppo composto da pochi mutanti avevano grandi potenzialità e Charles era un perfetto allenatore, attento a tutti i suoi allievi: li affiancava e li incoraggiava sinceramente, mettendosi alla prova insieme a loro. Aveva fatto talmente presa nei cuori che credevano più in lui che in sé stessi.

Perfino Erik, stoico ed impenetrabile, era stato sfiorato dalla gentilezza e dalla bontà di Charles con una delicatezza che sfidava il tocco di una piuma. Era rimasto allibito la prima volta che il giovane telepate gli aveva parlato nella mente e lo aveva calmato dalla sua furia cieca, salvandolo così da un sicuro annegamento. In seguito lo aveva persuaso con naturalezza a restare nella squadra per rintracciare altri mutanti per la loro missione. Proprio in riferimento a ciò gli era rimasto impresso quando aveva tentato di allontanarsi per portare avanti in solitaria la vendetta contro l’assassino di sua madre. Charles lo aveva colto sul fatto e aveva cercato di trattenerlo. Scontrosamente Lehnsherr gli aveva domandato: < Cosa sai di me ? >
Xavier allora aveva replicato fermo e tranquillo: < So tutto. >

Le sue capacità straordinarie e la forza della sua mente prodigiosa lo avevano incuriosito, la sua dolcezza e altruismo invece  lo avevano affasciato più di quanto non volesse ammettere. Ovviamente gli era impossibile condividere le sue idee pacifiste, il suo ottimismo verso il mondo e quel suo sogno di una convivenza in armonia con gli umani. Inoltre lo invidiava per la calma che riusciva a mantenere nonostante le varie situazioni di pericolo. Di certo aveva avuto una fanciullezza felice, circondato da giochi e affetto, dove ogni suo desiderio veniva esaudito e un abbraccio lo aspettava per consolarlo dalle paure.

Una sera di riposo, durante una partita a scacchi tra loro nel raffinato salottino, Erik volle indagare per verificare se le sue supposizioni erano esatte per potergli rinfacciare, quando discorrevano sulla bontà umana, che lui era stato felice e non conosceva il dolore. Almeno avrebbe smesso di giustificare gli umani e gli aveva dato così scacco matto nella discussione che più li divideva.

Il camino era acceso e le fiammelle s’intrecciavano tra loro con guizzi azzurri e rossi mentre Charles rifletteva sulla sua prossima mossa, concentrato sulla scacchiera.

: < Avrei una domanda da farti. > Proruppe ad un tratto, rompendo il silenzio.

: < Dimmi, Erik. > Disse distrattamente spostando una pedina. Erano a fine partita ma con il suo avversario anche l’ultima mossa poteva essere decisiva.

: < Tu hai visto il mio passato, la mia infanzia. Ma io non conosco la tua. >

Charles sollevò gli occhi ceruli e lo fissò attonito: non si aspettava una tale richiesta, non da lui e non in quel momento. Fu colto alla sprovvista e balbettò: < Oh, c’è davvero poco da dire. >

: < Meglio, in questo modo finirai prima. > Affermò imperterrito. Era determinato a voler sapere e non avrebbe mollato l’osso per nessuna ragione.

: < No, intendo… non accadde nulla di particolare. >

: < Lascialo dire  a me. Dai, non vorrai farti pregare!  Sai che non sono solito farlo. >

La sua voce profonda e suadente non ammetteva un rifiuto perciò il giovane telepate decise di cedere, stretto da quell’insistenza curiosamente tenace su un argomento molto personale. Erik non era uomo da affrontare discorsi che avrebbero potuto aprire il vaso dei sentimenti, ma non volle sottrarsi sebbene lo mettesse a disagio: magari poteva essere un’esperienza di confronto.

: < Ecco io… in verità… non ricordo molto. Mi sovviene di una stanza nera, di voci che iniziavano ad echeggiarmi nella testa. Pensavo di esser diventato pazzo. Solo io riuscivo a sentirle. Credetti perfino che i giocattoli mi parlassero. Ero davvero spaventato al tempo! I  miei genitori mi fecero visitare a causa di alcuni disturbi del sonno e della concentrazione però non riscontrarono nulla. Non mi davano retta quando dicevo delle voci, sostenendo che mi inventassi tutto. Cominciai ad allontanare le persone per paura di sentire i loro pensieri. Un giorno mi svegliai, chiamai ma non venne nessuno. Ero stato abbandonato. >

: < Così all’improvviso? > Domandò perplesso. La narrazione dell’amico era semplice ma efficace per cui si immedesimò facilmente.

: < In verità qualche ora dopo telefonò mia madre dall’ospedale per dirmi che mio padre era stato vittima di un incidente ed era appena morto. Lei si consolò in fretta del lutto: frequentava da tempo un altro uomo e dopo poco lo sposò. Infine fui adottato dal mio patrigno, il quale mi trattava con distacco nei giorni migliori, quando non si controllava… faceva cose peggiori. – Lasciò in sospeso la frase. Certe cose non era necessario spiegarle nel dettaglio e proseguì sentendo riaffiorare antiche immagini –  Mia madre non sapeva gestirlo. Lei mi voleva bene ma fui molto contrariato e volli sapere cosa l’avesse spinta alle nozze con quell’uomo detestabile. Non fu molto bello quello che lessi nella sua mente… però me ne feci una ragione. Li accomunava la passione per i viaggi: cambiavano spesso città stando via per diverse settimane. Quando avevo sedici anni, ad esempio, partirono verso l’Africa. >

: < Dove sono adesso? >

Charles tacque, sorridendo mentre delle lacrime gli luccicarono ai confini degli occhi. Erano pieni di dolore e di rassegnazione.

Ad Erik non servì altro. Quel silenzio era sufficiente per comprendere cosa fosse accaduto. Sentì pena per lui.

: < Capisco – Disse dopo un po’ – Abbiamo avuto vite diverse. >

Si pentì di avergli fatto quella richiesta: aveva scoperto una piaga che doveva ancora bruciare, anche se Charles celava i suoi dolori dietro ad un bellissimo sorriso rassicurante. Fu lì che si chiese quanto quella maschera fosse più per gli altri o per sé medesimo. Con diverse modalità il fato si era abbattuto su entrambi ed aveva ustionato le loro giovani carni con cicatrici impossibili da assorbire del tutto.

: < Lo so che la mia sofferenza  è minore della tua ma ti assicuro che non fu facile crescere da solo e prendersi cura di qualcun altro. >

: < Raven. > Concluse Erik bevendo un sorso di ambrato scotch dal bicchiere di cristallo che aveva lì accanto.

: < Sì. Pensai: posso proteggerla, posso essere una brava persona, fare qualcosa di buono. Dopotutto non ero più l’unico con dei poteri speciali. Ma anche se c’era lei sentivo la stessa solitudine che pareva tendermi agguati negli angoli delle stanze. A volte capita che mi sveglio e ho ancora paura di essere rimasto solo. > Charles non stava riflettendo sul discorso ma parlava spontaneamente, come in una confessione con il proprio memoriale, senza vergogna. Ammettere che spesso era attanagliato dai timori lo faceva sentire vulnerabile eppure non poteva farne a meno, non davanti allo sguardo attento e partecipato di Erik. Sapeva che con lui poteva spingersi dove non avrebbe osato con nessun altro.

: < Sei una persona amata e degna di stima, Charles. Non dovresti più provare queste cose. > Obbiettò sincero.

: < Non è facile. – Ridacchiò nervosamente, tamburellando sulla poltrona con la punta delle dita per trovare una distrazione, per poi seguitare trattenendo a stento il tremolio della voce – Io credo che si allontanassero perché non ero abbastanza buono. C’era qualcosa di sbagliato in me. >

: < Non dirlo, non è vero. – Si spose verso di lui curvando la schiena e fissandolo ancora più profondamente per fargli intendere la sua solidarietà in quel frangente –  Loro non seppero capirti perché erano limitati.  Sei perfetto esattamente come sei.>

Charles si sentì toccato da quelle parole di conforto inaspettate e si asciugò gli occhi prima che qualche lacrima potesse sfuggire al suo controllo. Pensava di aver superato quelle sensazioni negative sul suo passato, invece eccolo lì che cercava faticosamente di calmare il suo cuore che traboccava ricordi penosi. Si ricompose velocemente, si schiarì la voce e disse al suo interlocutore: < Scusami, Erik. Tu hai sofferto così tanto… che diritto ho io di lamentarmi? > Si sentì sciocco per i suoi trascorsi che, confrontati con le torture e gli orrori nazisti vissuti dal giovane mutante, erano irrisori.

: < Ognuno ha le sue ferite ma siamo più di questo. Lo dici sempre tu, ricordi? Forse mi stai insegnando qualcosa. – Per il ragazzo le proprie parole pronunciate dalla bocca di un altro avevano un suono familiare e al contempo insolito, come una medicina nota però dal sapore differente. Erik rise e soggiunse – Guarda un po’, mi hai fatto tornare uno scolaro! >

Lehnsherr  s’alzò in piedi per sgranchire le gambe e per stemperare la tensione che s’era creata. L’aria era immobile ed era diventata difficile da respirare, specialmente alla vista di Charles così addolorato. Gli faceva uno strano effetto vederlo così fragile, indifeso e non sapeva bene come fare per aiutarlo. Il suo istinto protettivo cominciò a pizzicargli le vene e fu tentato di inginocchiarsi davanti a lui ed abbracciarlo, salvo poi reprimere quel gesto puerile. Fece quattro passi e si avvicinò alla finestra che stava poco distante, vi guardò oltre per vedere il paesaggio verdeggiante ora ricoperto da una coltre plumbea e stette ritto. La pioggia cadeva copiosa all’esterno e in quel momento di assoluto silenzio si poté sentire come picchiettasse sul tetto e producesse una malinconia melodia.

:< Sta piovendo là fuori? > Gli domandò il professore.

: < Sì. >

: < Non mi piace la pioggia. >

: < Perché? >

: < Mi ricorda i giorni più tristi della mia solitudine. Questa casa è sempre stata troppo grande per me. >

: < Non sei da solo, Charles. Guarda quanti mutanti ci sono qui e quanti là fuori. Sei la migliore persona che abbia mai conosciuto. Troppo ottimista magari, ma la migliore. È solo per te che penso che forse in questo mondo c’è qualcosa di buono… per me. >

Erik si accostò allo schienale della poltrona sulla quale stava Charles, ammutolito, e fu tentato di appoggiare una mano sulla sua spalla per consolarlo: ah, come conosceva bene il gusto dell’ isolamento e quali spaventi portava spesso con esso, primo fra tutti il restare inermi davanti ai propri ricordi. Stava per allungare il braccio ma interruppe il gesto, incapace di portarlo a compimento.

: < A chi tocca? >

: < A te, Erik. >

Tornò a sedersi davanti all’altro per concludere una partita che in realtà era appena cominciata.

 

   
 
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