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Autore: Layla    04/06/2016    2 recensioni
Fay è una ragazza particolare, da piccola è stata rapita dalle fate, o così dicono e ha un potere particolare: sa prevedere il futuro grazie a delle visioni.
Non sa la ragione del suo potere, ma la scoprirà: salvare la vita di Lee Malia.
Riuscirà Fay a salvare la vita di Lee?
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La bambina delle fate.

Nella mia famiglia gira una strana leggenda: dice che da piccola sono stata rapita dalle fate, che mi hanno tenuto con loro una settimana e poi fatta ritrovare sotto un fiore di giglio nero.
Questo è quello che racconta mia nonna materna, che è – da sempre – una grande ammiratrice del paranormale e che crede nell’esistenza di un mondo nascosto che solo persone dotate di una sensibilità particolare possono vedere.
Mia madre dice più prosaicamente che il giorno dopo la mia nascita qualcuno mi rapì dalla nursery dell’ospedale londinese in cui lei mi aveva partorito, mi tenne con sé una settimana e poi mi fece ritrovare ad Hyde Park vicino a dei gigli.
Erano davvero gigli neri, ho visto le foto dell’epoca, e la cosa è davvero strana, visto che sono solitamente fiori bianchi e una mutazione del genere non si era mai vista.
Prima ancora di sapere di essere me stessa ero già famosa, una storia del genere finì sui giornali, perché ovviamente venne coinvolta la polizia. Non era possibile che qualcuno potesse rapire a suo piacimento una neonata in un grande ospedale e farla franca, non essere ripreso da nemmeno una telecamera del servizio di sorveglianza.
All’epoca fecero tutti le loro ipotesi e quella prevalente fu che qualche malata di mente o una persona in preda a un forte shock mi avesse rapita – ad esempio una donna che avesse subito un aborto o che avesse partorito un neonato morto da poco –  e poi una volta tornata in sé o valutate le difficoltà oggettive di crescermi braccata dalla polizia avesse deciso di disfarsi di me.
La donna che mi ha rapito non venne mai identificata e se volete la mia opinione non lo fu perché non era umana. Mi chiamo Fay, ho ventotto anni e come mia nonna credo al paranormale e non potrei non farlo, sarebbe come negare la mia natura.
Credo quindi che alla fine mi abbiano davvero rapito le fate, tenuta una settimana nel loro regno nascosto e poi ridata ai miei genitori un filino cambiata.
Dicono che i figli rapiti dalle fate siano strani e io lo sono sotto molti punti di vista. I miei capelli sono sempre stati viola, fin dal giorno in cui hanno iniziato a spuntare, non un nero con sfumature viola, ma un viola carico che gettava nel panico mia madre.
Mia madre è sempre stata una donna razionale, per lei un rapimento da parte delle fate non era altro che una favola, non una spiegazione che si potesse accettare, eppure i miei capelli erano viola.
Fin da piccola li ho sempre con l’henné nero per evitare che qualcuno lo notasse, se fosse successo avrebbero pensato che mia madre tingesse i  miei capelli di un colore assurdo fin dalla più tenera età e rischiava che qualche assistente sociale mi assegnasse a un’altra famiglia.
Mia madre non poteva permetterselo, non dopo quello che aveva passato per ritrovarmi, non dopo almeno un anno di terapia psicologica per guarire dai sensi di colpa.
In ogni caso a quindici anni ho smesso di tingerli e ho lasciato che crescessero del loro colore naturale, sarebbe passato per la ribellione di un’adolescente. Ho fatto qualche piercing – un septum e uno snake bites – e qualche tatuaggio ed ero una ragazza alternativa come tante.
All’apparenza.
Il mio piccolo segreto è che so predire il futuro da sempre, non con le carte – sarebbe troppo facile – ma con delle specie di visioni che mi sorprendono sia da sveglia che da addormentata.
Ho sempre saputo prima degli altri gli argomenti delle verifiche e delle interrogazioni, quindi studiavo affidandomi a quel piccolo potere e mi andava sempre bene.
Ho sempre saputo quando qualcosa di bello o brutto sarebbe successo e come: il divorzio dei miei per via della scoperta di mia madre che mio padre aveva una tresca con una segretaria un po’psicopatica (che mamma crede mi possa aver rapito e restituito in cambio di soldi), la morte della nonna, i tradimenti degli amici e dei ragazzi che avevo.
La gente ha iniziato a considerarmi strana quando ho iniziato a non mostrare sorpresa per i vari eventi, come potevo? Io lo sapevo già!
Era come se Dio mi avesse permesso di sbirciare di tanto in tanto al copione della mia vita e se conosci già i colpi di scena è difficile mostrarsi sorpresa.
Per questo motivo penso che mia nonna avesse ragione con la storia delle fate, loro mi hanno donato un potere, anche se non capisco ancora perché. Ogni dono ha una ragione di essere, qual è quella del mio?
Sicuramente non avere bei voti a scuola o non stupirsi delle cose che accadono in molte famiglie, ci deve essere uno scopo superiore per questo potere, solo che non lo so ancora.
Nel frattempo la mia vita va avanti senza amici, dopo l’università ho iniziato a lavorare in una biblioteca del centro di Sheffield e mi piace di più mettere ordine nella miriade di libri come quelli restituiti che vanno  ricollocati al posto giusto o rimandati alla biblioteca da cui sono stati fatti arrivare oppure cercare i libri che la gente ti chiede.
Va bene così.
Con il mio aspetto, il mio potere e le mie idee non è facile avere amici e me ne sono fatta una ragione.
Probabilmente non avrò mai nemmeno un ragazzo, forse sono i primi segni della depressione, ma inizio a sentirmi inutile e sconsolata.
Una ragazza con un grande potere imprigionata in una vita che la va stretta, che comunque le delusioni non se le è evitate, anzi se le è lasciate precipitare addosso e che non sarebbe qui se non fosse per la musica, soprattutto per quella dei Bring Me The Horizon e per la voce di Lee Malia. Lee è il chitarrista, non canta e sembra una persona abbastanza timida e riservata nelle interviste, ma mi piace il suono della voce. È molto calma e rilassante, profonda il giusto, piena, persino migliore di quella di Oli e che le altre fans mi perdonino per questa affermazione.
Forse sono i deliri di una che normale non lo è mai stata, nemmeno da piccola.
Mi piaceva di più leggere e disegnare che giocare o praticare qualsiasi sport, anche perché sono scoordinata da far paura, inciampo nei miei stessi piedi, e soffro di una specie di fobia nei confronti della folla.
Sono riuscita a vincerla solo una volta per andare a un concerto dei Bring Me The Horizon che è tuttora la notte migliore della mia vita, anche perché sono riuscita a rimediare un plettro di Lee.
Un miracolo, praticamente.
L’unico della mia vita probabilmente, una cosa che non si ripeterà. 
Sospirando mi metto a letto pensando che un altro giorno della mia inutile vita è trascorso senza eventi particolari. Roba che ti stronca giorno dopo giorno dopo giorno.
Lentamente e con pazienza, come un cancro.
La mia allegria e la mia voglia di ridere sono sparite da tanto tempo che ormai non so nemmeno cosa si provi ad averli.
Il sonno cade su di me pesante come un macigno.

 

Sono in una strada appena fuori dal centro di Sheffield, tutto è infuso da una luce dorata che dà rifessi interessanti a questo mondo.
È uno di quei sogni, uno di quelli che predicono eventi, ne sono quasi certa, ma per non sbagliarmi attraverso una persona come un fantasma.
Guardo i miei piedi calzati in un paio di scarpe da gothic lolita e le mie gambe fasciate da un paio di calze a strisce bianche e nere, lo strano vestito simile a una sottoveste e le mani avvolte in bende macchiate di sangue.
Sono in uno di quei sogni.
Cammino e mi avvicino a un incrocio, il semaforo pedonale segna diligentemente il rosso e nessuno attraversa. Mi chiedo cosa ci faccio qui.
All’improvviso sento delle chiacchiere dietro di me, un ragazzo non molto alto, dai capelli un po’ lunghi di un bel castano coperti da un berretto grigio sta chiacchierando con un altro ragazzo. Il secondo è più alto di lui, ha i capelli corti alzati leggermente in una cresta e gli occhi di un azzurro penetrante.
Lee Malia e Jordan Fish.
Loro mi ignorano e io mi sposto, non mi va di essere attraversata da due dei miei idoli.
Ma che giorno è?
Prendo uno dei giornali che ci sono nel portagiornali vicino al semaforo e la data è quella di domenica prossima, leggo anche il nome della via.
Ho l’impressione che più dettagli riuscirò a raccogliere meglio sarà, non credo affatto che sia un caso che stia sognando Lee, anche se spesso appare nelle mie fantasie oniriche normali. Questo non lo è, è una cazzo di premonizione e mi inquieta la presenza dei due ragazzi.
Rimango in piedi accanto a loro mentre parlano di musica e del fatto che Jordan presto sarà padre, creando il primo mini Bring Me The Horizon.  Sembrano felici, soprattutto il tastierista che non può fare a meno di illuminarsi ogni volta che si nomina la gravidanza della moglie Emma.
Ma cosa ci faccio qui?
Perché c’è questa luce dorata e un pulviscolo danzante come se fosse cenere?
Perché mi è stato concesso di spiare un piccolo spaccato di vita di Lee e Jordan?
Il semaforo scatta, da rosso diventa verde e i due ragazzi iniziano ad attraversare la strada, Jordan è qualche passo più in là rispetto a Lee, che si è fermato per controllare un messaggio sul cellulare. Il chitarrista procede a testa bassa e non si accorge della macchina in arrivo.
Macchina che non ha rispettato il rosso perché la donna che la guida sta parlando al cellulare, totalmente concentrata sulla conversazione e dimentica della strada.
Urlo qualcosa per far voltare Lee, ma lui non mi sente ed è abbastanza ovvio. In una premonizione sono come un fantasma, uno spettatore di eventi che non posso cambiare.
Con il cuore che batte a mille vedo la macchina avvicinarsi sempre di più a Lee, che non alza lo sguardo se non all’ultimo minuto quando è troppo tardi.
Lui lascia cadere il cellulare e spalanca gli occhi, urla anche e la donna prova a frenare, ma il suo suv non le dà retta e si abbatte senza pietà su Lee che viene sbalzato in aria.
Jordan si volta e spalanca gli occhi anche lui, grida anche lui.
Il suo amico si libbra nell’aria con il terrore dipinto sul viso paffuto, poi inizia a cadere, marionetta a cui hanno tagliato i fili.
Cade con una certa grazia anche se si dibatte e assume pose scomposte, l’impatto con il terreno gli è fatale. Si è probabilmente rotto un braccio o una gamba, ma questo è niente rispetto a quello che succede alla sua testa. Picchia violentemente contro l’asfalto e una macchia di sangue rosso si allarga sempre di più, lui non dice nulla, ha gli occhi spalancati.
Jordan chiama subito un’ambulanza, io mi avvicino al ferito con il cuore stretto in una morsa che mi impedisce quasi di respirare. Gli accarezzo il volto con una mano, sporcandomi le bende, e poi appoggio due dita sul collo in attesa di sentire le pulsazioni deboli del suo cuore.
Non sento nulla.
Lee Malia è morto.
Gli lascio un leggero bacio sulle labbra e poi prendo un po’ del suo sangue e traccio una croce sull’interno del mio braccio.
“La mia vita per la sua.”
Dico con un sussurro.
La cenere smette di girare, la luce dorata diventa abbagliante per un attimo.
Quando tutto torna normale la croce è sparita, segno che il patto è stato accettato: Dio o chi per lui si prenderà la mia vita al posto di quella di Lee.
Dopo non so quanto tempo arrivano le ambulanze con le loro luci blu e rosse, Jordan intanto ha preso il telefono della donna incolume e lo ha buttato a terra e pestato con il piede, poi ha cominciato a inveire contro di lei.
Non so che torto dargli, è colpa della sua disattenzione se il suo amico è morto.
I paramedici scendono e capiscono al volo la situazione come me, non c’è più nulla da fare.
Io mi sento risucchiata indietro e l’ultima immagina che ho è quella di una comune strada di Sheffield senza la luce dorata e la cenere che danza.
Mi sveglio nel mio letto, in un bagno di sudore, con i capelli appiccicati alla testa in una massa viola disordinata. Me li tocco e cerco di riprendere a respirare normalmente, sento il volto bagnato, devo avere pianto quindi.
La luce dorata è sparita, ora c’è quella fredda della luna che entra dalla finestra e crea strani effetti sul soffitto. Continuo ad ansimare per un quarto d’ora fin a che finalmente il mio respiro torna normale.
È stato solo un sogno?
No, conosco bene le mie premonizioni e so che si tratta di una di quelle e poi anche alla scarsa luce della luna è possibile vedere una pallida croce sull’avambraccio dove nel sogno l’ho tracciata con il sangue di Lee.
Dunque è questo lo scopo della mia vita.
Morire per far sì che qualcun altro viva e se il giornale non mentiva mi resta solo una settimana di vita.
Ripenso ai giorni che sono seguiti alla fine dell’università, a come si siano trascinati lenti e pesanti – tanti piccoli macigni da spingere ogni giorno – e penso che forse valga la pena morire per Lee che di sicuro ha più cose da dare al mondo rispetto a me.
Mi alzo dal letto e vado in cucina, metto sul gas un pentolino pieno di latte e mi siedo al minuscolo tavolino con la testa tra le mani.
E così è così che ci si sente ad avere una scadenza improrogabile, un appuntamento con la morte a cui non puoi dire di no?
Beh, potrei, ma il ricordo di quella macchia di sangue che si allarga sempre più mi perseguiterebbe a vita nei miei sogni e da sveglia.
No, a conti fatti, non posso permettere che succeda.
Devo affrontare il mio destino a testa alta e lasciare che sia io a morire e non lui.
Bevo la mia tazza di latte e torno a letto, domani ho il turno di mattina e non posso permettermi di arrivare in ritardo o forse sì?
In fondo tra una settimana morirò, anche se mi licenziassero non avrei l’affanno di pagare l’affitto il mese successivo, la bara la pagherebbero i miei.
In ogni caso mi riaddormento e mi sveglio alle sette come ogni lunedì, indosso una camicia immacolata che copre i tatuaggi, un paio di pantaloni neri e degli anfibi dello stesso colore, lego i capelli in una coda anonima e mi trucco di nero.
Metto la mia solita giacca di pelle nera e prendo la borsa, chiudo a chiave l’appartamento. Prendo il tram e arrivo in centro, apro il locale e mi metto dietro la mia postazione, accendo il computer, ritiro i quotidiani e li metto nel solito posto. Dopo pochi minuti arrivano un paio di anziani che arraffano una copia ciascuno e si mettono a leggere. Li conosco, sono Fred e Daniel, amici da una vita e con opinioni politiche opposte e infatti – come ogni mattina – si mettono a litigare e io vado a farli smettere.
Preparo una tazza di the per ciascuno e poi mi metto a lavorare, controllo i libri in scadenza e che non sono stati riconsegnati e mando una mail a chi li tiene, poi aspetto che arrivi gente.
Arriva qualche mamma che vuole dei libri dei bambini, universitari che cercano libri o si siedono nella sala lettura per studiare, altri anziani, qualche ragazzino che ha saltato la scuola e vuole leggersi in pace il nuovo numero di Kerrang! o qualche altra rivista musicale.
Una mattina come tante, a mezzogiorno la biblioteca chiude e al pomeriggio sarò sostituita dal mio collega più anziano. Cosa faccio?
Mi chedo.
Tornare a casa o mangiare fuori?
Decido di trattarmi bene e vado dal mio kabbabaro preferito e mangio una porzione abbondante di kebab, poi esco a fare una passeggiata, i miei piedi però decidono che non sarà il parco la mia meta, ma la stazione. Decido di prendere un treno per Londra e in tre ore sono nella mia città natale, diretta ad Hyde Park. Il parco è sempre bellissimo soprattutto adesso che è primavera e gli alberi sono in fiore e le aiuole sono una profusione di colori vivacissimi. L’aiuola che interessa a me è diversa, è un’aiuola di gigli neri, che si godono pigri il sole di metà pomeriggio, ne tocco uno e mi sembra quasi di vedere una creatura eterea con lunghe ali cangianti e capelli viola.
Una fata come me.
La donna che mi ha rapito.
Finisco di attraversare il parco con uno strano ghigno sul volto, la fata che mi ha dato questo potere deve essere l’angelo custode di Lee Malia se grazie a me si salverà dalla morte. Mi sembra quasi di sentire la risata cristallina di questa creatura, come quella di una ragazzina scoperta a fantasticare eccessivamente sulla band preferita.
Dall’altra pare di Hyde Park c’è casa mia, ma non vado subito lì, prima faccio una tappa al mio liceo, constatando che non è cambiato affatto. È sempre lo stesso cupo edificio vittoriano in cui risuonano le risate dei ragazzi che fanno i corsi pomeridiani, piccoli raggi di sole nell’esistenza scura dell’edificio.
Ricordo l’uniforme e di come il primo anno mia madre mi avesse comprato una serie di gonne che mi davano un prurito davvero fastidioso.
Mi viene da ridere, pensando che doveva averle prese in un negozio di articoli a poco prezzo e che avrei potuto prevederlo e fermarla, ma il mio potere è sempre stato un po’ incontrollabile.
Ridacchio divertita e vado verso l’università, non è troppo lontana, ma non ci indugio più di tanto. Non ho molta voglia di ricordare gli anni passati lì, mi sono sembrati troppo spesso una preparazione alla mia futura vita di solitudine.
Adesso è arrivato il momento di visitare mia madre, glielo devo perché si è fatta in quattro per crescermi e non farmi odiare o sentire la mancanza di mio padre mettendo da parte i suoi rancori personali.
Arrivo davanti a casa mia, la tipica casa a schiera londinese senza giardino davanti, ma con tre gradini che conducono alla porta, io li percorro e suono il campanello. Sono sicura che sia a casa e infatti poco dopo mi apre e mi guarda sorpresa.
“Cosa ci fai qui?”
Di solito la vengo a trovare ogni due settimane la domenica.
“Avevo voglia di vederti.”
Dico semplicemente.
“Entra, sei giusto arrivata in tempo per il the.”
La seguo e mi tolgo la giacca appendendola al gancio nell’ingresso, lei va in cucina.
“Vuoi una mano?”
“No, siediti in sala e aspetta.”
Io eseguo e mi siedo al tavolo del soggiorno in una stanza a bovindo, poco dopo lei arriva con tue tazze di the fumante, zucchero, bricco del latte e i miei pasticcini preferiti, gli scones, con marmellata di fragole e panna solida.
Iniziamo a mangiare in silenzio, lei sembra leggermente invecchiata da quando l’ho vista l’ultima volta, ha qualche filo grigio in più nella chioma corvina.
“Come va la vita da pensionata?”
Mia madre è stata insegnante di matematica per tutta la sua vita e da un mese è in pensione.
“Noiosa, mi mancano i miei allievi. Qualcuno mi viene a trovare, ma non è la stessa cosa.
Tu come te la cavi?”
“Oh, bene. Mi piace stare in biblioteca.”
Chiacchieriamo ancora un po’ del più e del meno e mi accorgo che qualcosa la turba profondamente.
“Mamma, cosa è successo?”
Lei sospira e mi porge un cartoncino di fragile pergamena con delle scritte in un elegante nero: una partecipazione di nozze.
Mio padre si risposa con la segretaria con cui ha tradito mia madre e ha distrutto la nostra famiglia, io rimango senza parole, il fiato mozzo e un paio di lacrime che solcano le mie guance.
Nemmeno se fossi viva ci andrei e per mia madre deve essere ancora peggio che per me, all’improvviso mi scopro arrabbiata con mio padre e sbatto la tazza sul tavolo lasciando che qualche gocciolina di the macchi la tovaglia candida.
Non è giusto!
“Non ci andare!”
Dico decisa.
“Quell’uomo ti ha rovinato la vita abbastanza, io non ci andrò.”
Perché l’erba crescerà già sulla mia tomba quando il lieto evento accadrà.
“Tu dici?”
Io annuisco decisa
“Sì, mamma. Non c’è bisogno che tu vada.”
Sarai impegnata a piangere la mia morte immagino.
Chiacchieriamo un altro po’, poi me ne vado.
Sento che ho detto addio a tutto quello che potevo, adesso è arrivato il momento di affrontare il mio destino.

 

Domenica è arrivata e sono appoggiata al muro di una casa vicino al fatidico semaforo fumando una sigaretta, l’ultima della mia vita probabilmente. Non sarà il cancro a togliermi il piacere di fumare.
Giusto il tempo di buttare il mozzicone per terra e Jordan e Lee fanno la loro apparizione, sono tropo impegnati a parlare per notare me.
Si fermano e aspettano pazientemente che il semaforo pedonale da rosso diventi verde, Jordan parla della gravidanza di Emma come nel mio sogno e la cosa non ha il potere di sorprendermi.
Come ci si sente a sapere che tra poco si morirà?
Con la mente che ticchetta come un orologio e il corpo che fa sentire le sue funzioni vitali più forte del solito, un meraviglioso canto del cigno fatto di cuore che rimbomba contro la cassa toracica, sentire ogni respiro salire dai miei polmoni, la tensione dei muscoli, le luci e i colori del mondo.
Non importa.
Il semaforo scatta da rosso a verde e i due iniziano ad attraversare con me dietro, Jordan cammina più svelto, Lee rimane indietro. Io guardo verso la direzione della macchina e vedo che non si ferma al semaforo, prendo un profondo respiro.
Tutto si svolge come a rallentatore: alzo le mie braccia, mentre il suv è sempre più vicino.
Entro in contatto con la maglietta di Lee Malia, che sobbalza.
Lo spingo con tutta la forza che ho, tanto da piegare in avanti il corpo.
Lee viene sbalzato via e si scontra con la schiena di Jordan.
Il sudore cola a goccioline sulla mia schiena – rugiada sui fiori della mia tomba –  il cuore rischia di esplodermi nella cassa toracica – marcia funebre, terra che cade su una bara, fiori rossi – i miei occhi sono fissi sui fari della macchina – occhi aperti di un cadavere pietosamente chiusi, mentre una macchia di sangue si allarga.
Poi l’impatto, il suo paraurti mi lancia in alto e sento un dolore lancinante al fianco, probabilmente qualche organo interno se ne è andato a quel paese.
Vedo i due ragazzi guardarmi sorpresi, ma è solo un attimo, poi inizia la discesa e il mio corpo assume pose scomposte, disarticolate.
Il mio cuore batte ancora più forte, ogni respiro è un gemito, ma nonostante tutto sorrido.
È finalmente finita, nel bene e nel male.
Non mi sposerò mai, non avrò mai figli o nipoti, ma almeno avrò salvato qualcuno che vale molto più di me.
Finalmente tocco terra, la mia testa si scontra con il duro asfalto e fa male.
Sento un dolore pulsante sopra le orecchie e qualcosa di caldo e vischioso che cola lungo il collo e le urla dei due ragazzi.
Alzo leggermente gli occhi finché sono cosciente e vedo Jordan parlare al cellulare e la donna urlare frasi senza senso, il traffico è bloccato.
Ho scelto una morte in grande stile.
Lee invece è chino su di me e i miei occhi scuri si scontrano con i suoi blu, spalancati a dismisura per il terrore e il dolore. Non mi tocca perché tutti sanno che non è consigliabile spostare un ferito, si potrebbero peggiorare le sue condizioni, ormai però per me è troppo tardi.
Sono già messa male di mio e spostarmi non cambierebbe di un millimetro la mia sorte.
“Ehi, vedi di non morire! Abbiamo chiamato l’ambulanza!”
Come se servisse a qualcosa!
Con le mie ultime forze mi tolgo la collana con il simbolo del fiore della vita e gliela porgo sporca di sangue com’è.
“Addio… e…grazie.”
Dico con una voce così roca che non sembra nemmeno la mia.
Le mie forze mi abbandonano del tutto, il mio campo visivo si restringe sempre di più, il nero avanza e alla fine vince.
Sono nelle braccia della morte e mi sembra un enorme sollievo, niente più giorni grigi.

 

Il primo rumore che sento ritmico del bip-bip che segna il battito del mio cuore.
Sono ancora viva dopotutto, ma le mie palpebre sono troppo pesanti per alzarsi.
Torno nel nero.
Dopo non so quanto tempo il bip-bip torna a farsi sentire e questa volta riesco a muovere un po’ una mano e ad aprire un po’gli occhi, questo basta a creare un certo caos nella mia stanza.
Medici entrano ed escono, mi controllano e mi comunicano che ho un braccio e una gamba rotta, che mi hanno trapiantato un nuovo stomaco e un pancreas e che il mio trauma cranico si sta riassorbendo.
La mia testa era conciata male, ma ce l’hanno fatta a salvarmela.
Sono stata in coma per un mese e mezzo e ormai iniziavano a perdere le speranze per un mio possibile risveglio.
“Però, ha fatto un gesto davvero eroico, signorina Williams.”
Io sorrido.
Dopo che tutti i medici se ne sono andati, la porta si apre e un Lee dalla barba un po’ lunga entra nella stanza, noto che ha ancora al collo la mia collana insanguinata e delle brutte occhiaie.
“Ciao…”
“Fay.”
Si toglie il berretto di lana grigia e se lo rimette, poi mi fissa negli occhi.
È bello vedere di nuovo quegli occhi blu.
“Grazie per avermi salvato la vita, non so come facessi a sapere che rischiavo di essere investito, ma grazie.
È grazie a te se sono vivo.”
“Non c’è di che. Sono io che ti devo ringraziare di esserti preoccupato per me.”
Lui muove la mani come a dire che è poco importante, senza sapere che per me lo è e molto.
“So che ti ci vorrà un po’ per uscire di qui, ma quando succederà ti andrebbe di venire a cena con me?”
“E Deni cosa dice?”
“Io e lei non stiamo più insieme, non le piaceva che venissi da te tutti i giorni.”
“Mi dispiace, non avresti dovuto rompere con le per causa mia, non è giusto.”
Lui scuote le spalle.
“Allora, vieni a cena con me?”
“Sì.”
Io sorrido, lui sorride.
Forse lo scopo del mio potere non era solo salvare la vita di Lee, ma anche la mia.
Questa interpretazione mi piace di più, sa di futuro.
E per la prima volta in anni il futuro ha un buon sapore.
Bentornata in vita, Fay.

Angolo di  Layla

Esco dal mio antro oscuro solo per il compleanno di Lee, tantissimi auguri a lui!
Spero che questa storia possa piacere a qualcuno.
Torno nel mio antro.
   
 
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