LA CITTA' DEI GIOCATTOLI
Liberamente ispirato al capolavoro di Benoît Sokal, Syberia
_____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________Madeilene
Dal diario di Karen Spall. Pagina quattordici.
“...
E' incredibile come la fabbrica sia ormai del tutto abbandonata. I
pochi abitanti del posto che ho avuto modo di incontrare non mi hanno
saputo dire nient'altro ... Sono riuscita a vederla da più
vicino
entrando da un piccolo varco seminascosto dalla vegetazione (…)
La
città di Madeilene è così triste...
Alloggio
presso un piccolo albergo. Ci sono solo io, e l'oste, a quanto pare.
Ho conosciuto solo lui. Paul si chiama, o forse così si fa
chiamare. Non m'ha voluto dire niente riguardo la fabbrica dei
giocattoli. Quando gli ho chiesto del proprietario, il signor
Halberg, sul suo viso sono scese le tenebre. Devo capire meglio
cos'è
successo. Domani parlerò con il sindaco. Ho preso
appuntamento al
telefono. Spero che si ricordi di me.(…)”
L'arrivo di una
giornalista americana era stato preannunciato da Oscar, il piccolo
giocattolo parlante che fungeva da strillone.
Pioveva a Madeilene,
di una strana pioggia scura, quasi cenere, mischiata con gocce
d'acqua grigie.
Tutta la città era
immersa in un silenzio tombale; l'inverno era alle porte.
Gli alberi erano
spogli di vita, e le strade deserte.
Madeilene era una
piccola città della Baviera orientale, dipinta tutt'attorno
da
montagne e boschi, sperduta e difficile da trovare, se non si era del
posto. Il cartello della città era ormai scolorito e
sbiadito, come
un fiore guardato per troppo tempo, e lasciato in balia dell'inverno.
Una piccola via portava alla piazza della città: la fabbrica
dei
giocattoli, maestosa, con muri possenti e cancelli d'ottone, era
ormai lasciata al più solitario abbandono. Il cancello
d'ingresso,
un tempo bianco, era ormai diventato verdognolo dalla ruggine. Due
soldatini d'ottone regolavano con una serie di ingranaggi, l'apertura
della fabbrica. Due chiavi d'oro, inserite all'interno delle due
bocche, avrebbero aperto l'ingresso, dando la possibilità a
chiunque
di entrare ed ammirare la splendida aquila che troneggiava davanti al
possente portone della fabbrica. Ma del rapace non rimaneva che uno
stampo nero, coperto forse dalla fuliggine, e mai più
pulito; dei
soldati invece, il tempo e la non più manutenzione avevano
bloccato
gli ingranaggi, e una delle due bocche sembrava non più
funzionare.
Il ciottolato che
conduceva fin alla fabbrica era ormai ricoperto di foglie secche ed
erbacce che spuntavano dagli interstizi delle pietre. I cespugli,
prima rigogliosi e aventi sembianze di animali esotici, erano solo
dei cumuli di rami secchi, senza alcuna acqua che potesse tramite le
radici degli arbusti ridar loro vita.
Le poche case
situate dirimpetto alla fabbrica erano lunghe e slanciate, di un
tocco Liberty, con i muri di solido mattone rosso spento, i tetti di
rame, e le finestre dalle più molteplici forme. Erano tutte
una
affiancata all'altra, e in molte si potevano leggere parecchie
insegne come “Pasticceria”,
“Panificio”, “Fabbro”. In
altre, quelle più lasciate all'abbandono, avevano un
cartello
affisso all'entrata con scritto “Vendesi”.
Nessuna luce
proveniva dalle finestre delle case. La pioggia era l'unica a
stroncare quel silenzio che regnava sovrano in tutta la
città di
Madeilene.
Anche l'albergo dove
alloggiava Karen era stranamente immerso nell'oscurità. Due
sole le
luci che fioche davano un qualche segno di vita attraverso i vetri
spessi e colorati dell'edificio: al secondo piano, in una stanzetta
piccola e fatta di legno, la camera di Karen; la hall, dove un
vecchio uomo, Paul, così si era presentato alla
giornalista, era
ritto davanti al bancone, a controllar prenotazioni su un libro dalle
pagine bianche e sgualcite. L'unica cliente era proprio l'americana,
e forse era l'unica da chissà quanti anni.
La sera era giunta
quasi subito nella piccola città di Madeilene. La pioggia
continuava
inesorabilmente a scendere, senza sosta, allargando le pozzanghere
che si erano formate lungo la strada che portava alla fabbrica. Il
cielo era sempre più cupo e grigio.
Karen era scesa
lungo le scale che conducevano all'ingresso. Subito a destra il
bancone, con dietro un enorme scaffale pieno di chiavi. Ora di cena;
forse Paul le avrebbe preparato qualcosa da mangiare.
«Ehm...
Chiedo scusa...» Karen si
era leggermente protesa verso il bancone. Paul sembrava assorto nei
suoi pensieri.
«Si?
Cosa succede?» sembrava quasi essersi svegliato
«Ah, è lei
signorina Spall... In cosa posso esserle utile?»
«Forse
l'ora non è delle più felici, ma sarebbe ora di
cena, e mi stavo
chiedendo se...»
«Oh,
ma certo!» si era dato una pacca sulla fronte con il palmo
della
mano. «Chiedo scusa signorina, a quanto pare questa testa
vuota
senza più ingranaggi non conosce più cosa vuol
dire gestire un
albergo... Prego mi segua...»
Condusse
la giornalista fino ad una porta a vetri, piccola, ma dove sembrava
provenire una strana luce. Il rumore della pioggia si faceva sempre
più presente.
Aprì
la porta, e davanti agli occhi di Karen, si estendeva una sala da
pranzo immensa, enorme. Tavoli ovunque, in abbondanza rispetto alla
capienza dell'albergo. Maestosi lampadari, spenti, pendevano dal
soffitto. Grandi finestre trasparenti davano a un piccolo giardino,
immerso nella più totale oscurità. A sinistra una
porticina
conduceva alle cucine. A destra invece un piano rialzato, dove un
velo bianco copriva un qualcosa che sembrava essere un pianoforte o
un qualcosa di veramente ingombrante.
«Mi
scusi, cosa c'è sotto quel velo?» aveva chiesto
Karen, incuriosita.
«Oh,
niente di che... Ma prego si accomodi pure dove vuole. Io intanto
vedo di portarle il menu.»
I
tavoli erano tutti apparecchiati e decorati. Piatti e posate,
bicchieri per il vino e per l'acqua. Solo un velo di polvere li
ricopriva, a causa forse di una cura che mai c'era stata.
Karen
si era accomodata al centro della sala, in un piccolo tavolo per due
persone. Si sentiva quasi a disagio, dentro quella enorme sala
completamente vuota.
Non
aveva fatto in tempo a guardarsi attorno, che Paul gli aveva
consegnato il menu.
C'erano
un sacco di pagine, che spaziavano dagli antipasti ai primi; secondi
e piatti di carne e pesce, dessert e una carta di vini immensa.
La
giornalista aveva iniziato a sfogliarlo, interessata da alcune
pietanze che dai nomi sembravano nascondere qualcosa di invitante.
«Allora,
se possibile prenderei questa zuppa di legumi, per primo; come
secondo questi involtini di carne, e dell'acqua se
c'è.»
Paul
sembrava annotare tutto su un pezzo di carta, in maniera frettolosa
quasi per stare al passo con la voce della donna. Aveva poi
riguardato il foglietto, ma aveva scosso la testa con far sconsolato.
«Mi
dispiace, ma penso che la zuppa non ci sia. E neanche gli involtini
di carne...»
«Ah...
Allora questo antipasto di formaggi andrà più che
bene. E per
secondo, vediamo un po'... Cosa mi consiglia?»
Paul
continuava a scrivere, certe volte alzando la testa a guardare che
magari non ci fosse qualcuno che desiderasse di lui.
«Purtroppo
l'antipasto di formaggi l'abbiamo finito proprio ieri. Diciamo che
per secondo potrei consigliarle questo...» con la punta della
matita, sprovvista di mina, aveva indicato una pietanza in fondo alla
pagina del menu, alla voce “Contorni”. Karen
l'aveva guardato
quasi sorpresa.
«Pane?»
«Fresco
o abbrustolito, come desidera»
«E
oltre al pane, cosa avete?»
«Vediamo...»
Paul si era messo a sfogliarle il menu. Poi, trovato quello che
cercava, le aveva di nuovo indicato la pietanza con la punta della
matita.
«Acqua?»
«Bollita,
o fresca di ruscello, come desidera»
«Allora
del pane abbrustolito, e dell'acqua fresca. Grazie.» Karen
rimase
ancora più sbalordita quando vide Paul tirare fuori dalla
tasca una
penna, e iniziare a scrivere sul foglio.
L'uomo
poi le aveva preso con un sorriso il menu, e l'aveva riposto sul
tavolo, assieme agli altri, per poi dirigersi verso la cucina, che
per quell'attimo che le porte si aprirono, sembrava completamente
buia.
Passarono
diversi minuti, ma di Paul nessuna traccia. Karen si era messa a
guardare il piatto, coperto da quello spesso velo di polvere. L'aveva
poi preso con le mani, per poi soffiarvici sopra, sperando di
toglierne un po'.
In
quel momento Paul fece ritorno dalle cucine. Reggeva con la mano un
grande vassoio, dove sopra vi erano due piatti coperti da due
coperchi rotondi. Con un far elegante, gli aveva poi posati sul
tavolo, per poi assumere un'espressione un po' desolata.
«Purtroppo
il forno mi ha dato qualche problema. Le ho portato del pane fresco,
spero che non sia un problema...»
Sul
primo piatto vi era posta una fetta di pane, tagliata con cura,
completamene ammuffita. Sul secondo un bicchiere con dentro un
liquido trasparente, forse veramente acqua.
Dal diario di Karen Spall. Pagina quindici.
“ La
sala da pranzo dell'albergo è stata qualcosa di
indescrivibile (…)
Paul
stava annotando la mia ordinazione con una matita completamente senza
punta. Solo quando ho fatto l'ordinazione del pane e dell'acqua,
allora ha tirato fuori una penna, che probabilmente questa volta
scriveva. Il pane ho provato ad assaggiarlo: Paul mi guardava,
speranzoso che quello che mi avesse preparato sarebbe stato di mio
gradimento. Era disgustoso. L'acqua invece era buona, normale e
semplice acqua da rubinetto, credo. (…)
Prima
di tornare in camera, ho provato per un attimo a sollevare il velo
bianco che copriva quella strana cosa. Ho intravisto dei piedi, ma
erano di plastica, quasi di qualche giocattolo, ma non ho avuto altro
tempo per vedere meglio. Paul mi stava quasi per scoprire. E'
veramente così strana la città, e tutto il resto.
Chissà domani
come andrà con il sindaco... ”