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Autore: Itsamess    07/06/2016    4 recensioni
Uno scrittore svizzero una volta disse che scrivere era come baciare, solo senza labbra.
Come la maggior parte degli scrittori svizzeri, probabilmente aveva ragione, ma non stava considerando le Lettere Mai Lette.
Sono baci anche quelli mai dati, sono amori anche quelli mai rivelati?
[One shot ispirata al plico di lettere mai aperte e subito accoltellate che ci mostrò Moffat nel lontano Special di Natale]
Storia vincitrice del premio di categoria al contest "Seconda edizione - Per ricordare i bei momenti" indetto da aturiel sul forum
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La corrispondenza non letta
 
 

 Per quanto assurdo possa sembrare, io spero ancora per il meglio,
anche se il meglio, come una lettera importante,
arriva raramente,
e anche quando arriva si può perdere molto facilmente

Lemony Snicket - The Beatrice Letters

 
 
 


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La serratura era scattata sotto le sue dita con estrema facilità, come se sapesse quanto gli costava tornare lì dopo così tanto tempo e facesse di tutto per rendergli le cose più semplici, tuttavia John se ne era a malapena accorto.
Dopo aver lanciato un disattento saluto alla signora Hudson senza nemmeno sapere se era davvero in casa, si era precipitato su per le scale.
Voleva solo farla finita, in fretta.
 
Era corso di sopra due gradini alla volta – pazienza se la gamba aveva ripreso a fargli male e pazienza se non aveva più il fisico da soldato ma solo quello da dottore – in pochi secondi si era ritrovato di nuovo nel suo salotto, salvo poi ricordare improvvisamente che non era più suo.
Si era trasferito, no?
 
Non aveva più il diritto di sentirsi a casa fra quelle quattro mura ricoperte da un’improbabile carta da parati damascata, così come non aveva più il diritto di usare la chiave dell’appartamento che Sherlock gli aveva lasciato in caso ne avesse avuto bisogno.
Non ne avrebbe avuto bisogno. Non avrebbe più avuto bisogno di lui, né del suo stupido soggiorno, né di nient’altro.
La sua vita era altrove, ora. Era un altro l’edificio da chiamare casa ed era un’altra la persona alla quale urlare distrattamente sono tornato mentre si toglieva il cappotto e la sciarpa.
Era andato avanti. La chiave che ancora stringeva nel pugno destro non faceva altro che tenerlo legato a Sherlock, come se fosse stata un segnalibro per il futuro che non avevano mai avuto.
L’avrebbe lasciata sotto lo zerbino o consegnata alla signora Hudson, uscendo.
 
Il motivo del suo ritorno al 221b lo attendeva paziente sotto alla finestra, immobile e appena impolverato: un grosso baule, pieno delle vecchie cose che aveva finto di dimenticare lì solo per avere una scusa per tornare. Con un sospiro di sconforto, John gli si avvicinò e ne accarezzò i profili di pelle scura, domandandosi se Sherlock si fosse ricordato di raccogliere i volumi dell’Enciclopedia Britannica che teneva sotto al letto. E il suo vecchio bastone da passeggio, quello che una volta la signora Hudson aveva usato per togliere le ragnatele dal soffitto e che John non aveva più rivisto. E la sua collezione di francobolli, che quasi quotidianamente era stata derisa di Sherlock perché chi mai vorrebbe conservare dei pezzetti di carta colorata?
Raccogliere quel baule significava tagliare l’ultimo legame materiale che ancora lo teneva unito a quell’appartamento e a tutto quello che aveva significato per lui e John non si sentiva ancora pronto a farlo.
 
Era buffo come un attimo prima avesse desiderato trattenersi in quel soggiorno il meno possibile, quando ora l’unico pensiero che riusciva a distinguere con chiarezza fra i mille che gli giravano in testa era che non se ne sarebbe mai dovuto andare.
Del resto, Sherlock era tornato.
Dopo due anni, d’accordo.
Senza aver mai dato sue notizie, d’accordo.
Lasciandogli credere di essere morto, d’accordo.
Però era tornato. Era tornato da lui, forse addirittura per lui. Non significava niente?
 
Distolse lo sguardo dal bagaglio per concentrare la propria attenzione sul resto della stanza, pressoché immutata dall’ultima volta che l’aveva vista. L’unica differenza rispetto a prima consisteva nell’enorme vuoto lasciato da quella che un tempo era stata la sua poltrona, che Sherlock aveva rimosso con la scusa che gli ostruisse la visione dello studio, improvvisamente interessante.
Il resto era esattamente come se lo ricordava, dal teschio da compagnia poggiato sulla mensola del caminetto alla pila di lettere mai aperte e trafitte dalla lama di un coltello a serramanico.
John sfiorò la superficie della prima busta e si sorprese di sentirla ruvida al tatto. Si chiese se anche la storia fra lui e Sherlock non fosse come una di quelle lettere, trafitte prima ancora di aver saputo dire quello che dovevano, stroncate sul nascere, senza che nessuno sapesse mai se valeva la pena aprirle.
 
Il focolare ai suoi piedi era spento – ecco spiegata la persistente sensazione di gelo. John passò l’indice sulla mensola, raccogliendo sul polpastrello un po’ di cenere color antracite sfuggita alle pulizie della signora Hudson e alle catalogazioni cromatiche di Sherlock. Lanciò un’occhiata al teschio all’estremità destra della mensola e sussurrò: «Prendetevi cura di lui per me, Amleto.»
 
«Di certo muore dalla voglia» commentò senza ironia qualcuno alle sue spalle.

Con un sobbalzo sorpreso, John si voltò di scatto, nonostante sapesse benissimo a chi apparteneva quella voce: Sherlock era in piedi sulla porta, immobile e intirizzito dal freddo.
Doveva essersi messo a piovere. I sottili capelli corvini gli ricadevano in piccole ciocche bagnate sulla fronte, conferendogli un aspetto talmente dimesso che  per un attimo l’altro non lo riconobbe. Forse però era quell’accenno di barba sulle guance a renderlo diverso, oppure quello sguardo vuoto e incolore. Qualunque fosse il motivo, Sherlock sembrava un estraneo.
Chissà se anche John ai suoi occhi appariva così.
«N-Non mi aspettavo di trovarvi in casa!» farfugliò in fretta il dottore senza avere il coraggio di guardarlo in faccia, mentre mentalmente si malediceva per non essere passato in un orario diverso.
 
Sherlock sollevò un sopracciglio con aria fintamente dubbiosa.
 «A differenza vostra, Watson, io abito ancora qui.»
 
John scelse di ignorare la frecciatina: ci stava già abbastanza male senza che l’altro desse il suo prezioso contributo.
Osservò Sherlock scostarsi i capelli umidi dalla fronte con un gesto irritato della mano e per un attimo fu tentato di fargli notare che c’era un motivo per il quale avevano inventato gli ombrelli, tuttavia non disse nulla. In parte perché sapeva che l’altro considerava gli ombrelli un segno di debolezza e discutere con lui sull’argomento era inutile, in parte perché non gli spettava più di preoccuparsi per le condizioni dell’amico, quindi se voleva prendersi un raffreddore era libero di farlo. Prese un profondo respiro e con la voce più ferma che riuscì a trovare spiegò: «Ero solo passato a recuperare il baule e lasciare la chiave, non credo che ne avrò più bisogno, in futuro… Vi ho spedito un telegramma, per avvertirvi del mio arrivo. Ve lo hanno recapitato?»
 
«No» rispose Sherlock togliendosi il cappotto e lanciandolo senza molta attenzione sul divano.

«Meglio per lui» replicò John, abbozzando un sorriso di sollievo e lanciando un’occhiata divertita alla mensola del caminetto, anche solo per non essere costretto a sostenere lo sguardo dell’altro.

«La corrispondenza in questa casa non fa una bella fine… Tanto per curiosità, cosa avevano fatto di male queste lettere per essere pugnalate così?»
 
Sherlock sembrò colto alla sprovvista dalla domanda: forse non si aspettava che la loro prima conversazione dopo mesi – la prima conversazione dopo il matrimonio, a voler essere precisi – vertesse sulla posta a cui non aveva avuto voglia di rispondere, tuttavia fece spallucce e rispose con voce disinvolta: «Erano noiose.»

«Ma se non le avete neanche aperte!»
Tipico di lui, saltare alle conclusioni basandosi sui pochi elementi a disposizione.
Tenendo ferme le lettere con una mano per evitare che si sparpagliassero per terra, John estrasse il coltello a serramanico conficcato nella mensola. La lama si sfilò dal legno senza difficoltà, producendo solo un leggero ma inquietante crepitio.
«Potevano essere lettere importanti, lettere da parte della banca, lettere da parte di amici…»
Si fermò, ricordando che Sherlock non aveva amici. Conoscenti, clienti, nemici. Nemmeno un amico. Non più almeno.
«Comunque lettere che richiedevano una vostra risposta…»
 
«Non lo erano» tagliò corto Sherlock, prima di chinarsi senza preavviso ai suoi piedi.
 
Per un attimo John si sentì avvampare, per poi rendersi conto della propria stupidità quando lo vide estrarre dalla tasca un pacchetto di fiammiferi. Ne accese uno con un brusco colpo di polso e lo gettò nel camino, pieno di fogli di giornale.
 
La stanza si colorò di toni ambrati e il moro riprese a parlare: «Non ho avuto bisogno di aprirle, bastava osservarle. Tutte le informazioni erano davanti ai miei occhi.»
Fece cenno a John di passargli una lettera, una qualsiasi, e quello lo accontentò, anche se non aveva bisogno di una prova. Sapeva che Sherlock era in grado di dedurre tutto da tutto.
 
 «Questa ad esempio viene chiaramente da Mycroft. Ha una calligrafia fastidiosamente regolare, vedete, le sue o sono cerchi perfetti. Inoltre la carta porta le effigi reali e io non sono abbastanza intimo del re perché mi scriva delle lettere.»
 
«Non abbiamo un re» gli fece notare John.

«Un altro motivo per cui non può essere lui a scrivermi.»

John scosse la testa, divertito più per le risposte taglienti di Sherlock che per sua completa ignoranza della situazione politica inglese. Dio, quanto gli sarebbe mancato tutto questo.
«E questa lettera?»
 
«Michael Stanford. La carta è scadente e sottile, se la mettete in controluce lascia intravedere un terribile disegno natalizio. Ne manda uno ogni anno. Non so perché ma è ancora convinto che viviate qui. Non mi sono preso il disturbo di avvisarlo che ve ne siete andato, dal momento che i suoi biglietti d’auguri bruciano benissimo e la mia scorta di ceppi per il camino sta finendo.»

«Giusto» commentò John, anche se ignorare un cortese biglietto d’auguri di un amico non corrispondeva esattamente alla sua idea di giustizia.
Prese in mano un’altra lettera e domandò: «E questa invece?»
 
Gli occhi color ghiaccio di Sherlock furono percorsi da un flash, ma la sua espressione non tradì alcuna emozione quando intimò: «Non volete saperlo»

«No, avete ragione, lasciami indovinare…» rispose John, stando al gioco.
Voleva dimostrargli di essere ancora bravo nelle indagini, non bravo quanto Sherlock Holmes, naturalmente, ma comunque bravo.
Tastò con attenzione la superficie della busta, alla ricerca di indizi utili.
«Carta spessa. Costosa. Si tratta di una circostanza ufficiale, giusto? O quantomeno formale… La busta contiene solo un cartoncino, rettangolare, profili in rilievo. Un invito probabilmente. A cui non avete risposto. Che strano»
 
«John.»

Sherlock aveva usato il suo nome di battesimo, come accadeva solo quando si trovavano in grave pericolo. Lo aveva chiamato così il giorno in cui avevano deciso di fare un picnic in un parco fuori Londra che si era rivelato essere un campo minato e lo aveva chiamato così prima di gridare Cammei Vaticani e sparare al sicario appostato su un tetto durante l’indagine sul furto degli smeraldi della Regina.
La situazione naturalmente era molto diversa, dal momento che si trovavano al sicuro, nel salotto di quella che una tempo era stata casa loro, eppure qualcosa nel tono di voce  di Sherlock lo spaventò.
Era la voce di chi sta lanciando un avvertimento. Quale grande pericolo si nascondeva dietro a quella semplice busta chiusa?
«Cosa c’è?»
 
«Smettetela. Lasciate stare quella lettera» ripeté il moro con la voce appena velata di nervosismo, cercando di strappargli la busta dalle mani.

John si ritrasse infastidito. Cosa c’era scritto in quella lettera che Sherlock voleva tenergli segreta? E a cosa serviva mentirsi ora, che era probabilmente l’ultima volta che si vedevano? Come sempre, Sherlock lo stava tagliando fuori. Quella stupida faccenda della corrispondenza non letta non ne era che l’ennesimo esempio, dato che ormai lo aveva completamente cancellato dalla sua vita,  rifiutando con cortesia tutti i suoi inviti di venire a prendere un the e non rispondendo ai suoi telegrammi, declassandolo al ruolo di estraneo.
Da quando era tornato a Londra lo aveva trattato con la stessa indifferenza che riservava al resto del genere umano, mentre John pensava di meritare almeno un trattamento di favore, in nome di tutto quello che avevano passato insieme. Evidentemente non era così.
«No, davvero chi ve la manda? Chi avete deliberatamente scelto di ignorare questa volta?»
 
John con impazienza aprì la busta aiutandosi con il coltello a serramanico.

 
Dottor             Miss
  John              Mary
  Hamish        Elisabeth
 Watson         Morstan

Richiedono il privilegio della vostra compagnia
al loro matrimonio
il quale avrà luogo nella
Chiesa di St Mary, Sutton Vallet
Sabato 18 maggio alle ore 12
 

«La –la mia partecipazione di nozze. Perché l’avete pugnalata?»

«Se l’era meritato.»
Sherlock amava ripetere questa frase, come se la maggior parte degli oggetti inanimati della casa congiurassero alle sue spalle e meritassero una orrenda fine. Il muro si era meritato di essere crivellato da una decina di proiettili, così come la stufa di peltro si era meritata di esplodere, dato che non scaldava più come prima.
«E poi, meglio la lettera che il mittente, no?»

Ma John non sorrise. Aveva lo sguardo ancora fisso sulla lettera che stringeva fra le dita con così tanta forza da increspare la superficie della busta.

Sherlock abbassò lo sguardo sul logoro tappeto del soggiorno e ammise: «Non volevo leggerla. Non volevo riceverla. Non so neanche perché me l’avete inviata dal momento che mi avevate già comunicato data e luogo delle nozze decine di volte»

L’altro rispose senza riflettere: «Pensavo vi facesse piacere»

«Davvero, John?»
La sua voce era triste, delusa, come se John avesse appena dedotto la cosa più sbagliata di sempre, come che il Sole gira intorno alla Terra.
 
John scosse lentamente la testa, perché non aveva senso continuare a discuterne. «Però forse avreste dovuto aprirla»
 
«Perché?» domandò Sherlock con stizza.

«Aprila e basta» ripeté l’altro, lanciandogli la lettera.

Sherlock la girò fra le mani: pesava come se l’inchiostro fosse stato piombo liquido. Strappò la busta con la stessa violenza con la quale avrebbe voluto strappare la partecipazione stessa.
Sul retro, una grafia quasi illeggibile – da dottore – recitava:
Non sono sicuro di voler andare fino in fondo. Forse è solo stress prematrimoniale, forse è qualcosa di più. Aiutami a capirlo, per favore raggiungimi in chiesa prima della cerimonia

Sherlock aveva aspettato quella lettera per tutta la vita e quando finalmente l’aveva ricevuta non l’aveva neanche aperta. Alzò lo sguardo e fece per dire qualcosa ma John lo precedette:
«Rossa o blu?»
 
Sherlock apre di colpo gli occhi. Deve essere stato tutto un sogno, come quella volta sull’aereo – in effetti l’atmosfera vittoriana piena di carrozze, bauli e telegrammi avrebbe dovuto essere un campanello di allarme, eppure nei sogni ogni dettaglio sembra sempre plausibile e solo al risveglio ci si rende conto che c’era qualcosa che non quadrava.
Sul resto del letto sono disordinatamente sparsi vari indumenti,  ma lui è ancora vestito. Qualcosa non torna. Il suo sguardo si posa sulla natura dei capi di abbigliamento che lo circondano: maglioni.
Dall’improbabile motivo geometrico devono appartenere a John.
Sherlock si dà una lieve pacca sulla fronte nel ricordare improvvisamente che ha trascorso il pomeriggio a dare consigli di stile al suo ex-coinquilino prima di piombare in un sonno profondo.

John richiude l’anta dell’armadio e si volta verso il letto.
«La cravatta, Sherlock. Per la cena dell’anniversario. Dici che con questa camicia sta meglio rossa o blu?»
 
«Blu.»
 
 

 
 
 Angolo dell'autrice
(nel quale è meglio che vada a nascondermi dopo questo finale)
Buongiorno a te lettore che forse ti aspettavi una storia allegra e vittoriana e ti sei trovato solo il secondo di questi aggettivi. Sappi che di solito scrivo storie meno deprimenti, dal momento che sono la sostenitrice numero uno dei Lieto Fine.
In ogni caso, scrissi questa fanfiction parecchi mesi orsono, dopo aver visto lo speciale natalizio (e nello specifico dopo aver visto il nostro Moffat mostrarci il plico di lettere sul caminetto), ma non essendo mai pienamente convinta del risultato, ho aspettato di rivederla e migliorarla e questo è il risultato.
Anche questa storia è dedicata a mia sorella, la quale passa il tempo su ao3 because americans do it better ma trova il tempo di leggere storie in italiano, solo per me.
(il magnifico banner all'inizio è opera di aturiel, che ringrazio infinitamente)
Spero che la storia vi sia piaciuta e per precisazioni/correzioni/pomodori vari scrivetemi pure =)
Itsamess

 
  
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