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Autore: Joyce Anastasi    07/06/2016    2 recensioni
Sono trascorsi cinque anni dall’ultima volta in cui l’ho visto. La scuola era appena finita, avevamo vinto il secondo campionato nazionale consecutivo, io ero stato ammesso in un’università con un’ottima squadra di basket, avevamo una relazione stabile e felice. Tutto perfetto. Sennonché lui ebbe la brillante idea di andarsene. E non di andarsene in una villa più grande dietro l’angolo. Non di trasferirsi in un bell’attico in pieno centro. No! Scelse di attraversare l’oceano senza di me.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa, Yohei Mito
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Fanfiction Slam Dunk

POINT OF YOU
di Joyce


(r // Yahoi)


Eccomi di nuovo con un'altra fic, scritta anche questa qualche anno fa. Per la precisione è stata la prima a essermi passata tra le mani e l'ultima a esserne uscita, visto che ha subito varie modifiche di recente. La storia è quella a cui sono maggiormente affezionata forse perché ritengo sia la più realistica: Hanamichi e Kaede, io li immagino proprio così (ovviamante, trattasi di Hanaru). Seguiranno nei capitoli successivi i punti di vista di altri tre protagonisti. Comincio col rosso che ovviamente non è mio, come tutti gli altri personaggi, altrimenti avrebbero fatto tutti la fine che leggerete. Come per la scorsa volta, ecco l'indirizzo email a cui potermi insultare: joyce.anastasi85@gmail.com. 
Ora non vi resta che leggere e recensire (smile).

 
 
Hanamichi Sakuragi


Sono trascorsi cinque anni dall’ultima volta in cui l’ho visto.

La scuola era appena finita, avevamo vinto il secondo campionato nazionale consecutivo, io ero stato ammesso in un’università con un’ottima squadra di basket, avevamo una relazione stabile e felice.

Tutto perfetto.

Sennonché lui ebbe la brillante idea di andarsene. E non di andarsene in una villa più grande dietro l’angolo. Non di trasferirsi in un bell’attico in pieno centro.

No!

Scelse di attraversare l’oceano senza di me.

Se ne andò in America dove aveva deciso di andare prima di conoscermi, prima di capire quanto profondamente lo amassi.

Un bel pomeriggio di primavera, una volta tornati dagli allenamenti, lui andò a farsi una doccia. Nell’attesa, sbirciai un po’ in camera sua. Mi misi a fissare la foto che lo ritraeva in compagnia di sua madre – ero solito guardarla quando lui non era nei paraggi – e subito dopo notai i documenti del trasferimento sulla scrivania.

Di quella scrivania non rimasero che pochi brandelli.

La distrussi a suon di calci e pugni, per evitare che quei colpi fossero diretti contro di lui.

Non mi sarei mai perdonato se avessi rovinato il volto più bello mai visto.

Per un mese non gli rivolsi la parola.

E non rivolgere la parola a Kaede Rukawa può rivelarsi semplicissimo.

Soprattutto se la persona che non parla è Hanamichi Sakuragi.

Kaede non fece un singolo passo, nemmeno un cenno del capo nella mia direzione per trenta lunghi giorni.

Lo rividi solo la sera prima della sua partenza.

Stava passeggiando sul bagnasciuga a piedi nudi, con le scarpe, tenute per le stringhe, dietro la schiena.

Ricordo che lo guardai fare avanti e indietro per più di un’ora, con i suoi capelli neri mossi dal vento, con il suo sguardo dritto, oltre il confine del mare.

Quando decise che era arrivato il momento di lasciare la banchina, i suoi occhi incontrarono i miei.

Per la prima volta vidi la sorpresa sul suo volto.

Non fu così sbigottito nemmeno quando due anni prima, nello spogliatoio, invece di dargli una testata, lo baciai come un forsennato.

Mi avvicinai lentamente e rimanemmo a guardarci per qualche secondo. Con la brezza che accarezzava entrambi sulla spiaggia.

–  Aspettami, prometti che mi aspetterai. –  disse con lo sguardo nascosto dalla frangia.

Lo abbracciai. Non riuscii a fare altro.

Lo strinsi così forte da non avere più la percezione del mio e del suo corpo.

Quella strana sensazione mi rimase addosso per tutta la notte. La fantastica notte in cui ci amammo come se fosse l’ultima.

–  Ti aspetterò, anche per sempre. – gli sussurrai nell’orecchio all’aeroporto.

Lo strinsi ancora una volta lì, davanti a Mitsui, Kogure, Ayako, Akagi e Miyagi che restarono ammutoliti.

Se solo avessero saputo che stavo morendo per lui!

Quella fu l’ultima volta in cui lo vidi.

C’è da precisare che fu l’ultima volta in cui lo vidi dal vivo.

Oggi Kaede Rukawa è il giocatore di basket giapponese più forte del mondo. In realtà, è tra i giocatori più forti del mondo, indipendentemente dall’essere giapponese.

Gioca nei Chicago Bulls da due anni e nell’ultima stagione non ha mai iniziato una partita dalla panchina.

Attualmente credo sia così in forma che riuscirebbe a segnare persino di spalle al canestro.

D’altronde cosa c’è da aspettarsi dal vincitore della gara da tre punti all’All Star Game?

Non mi perdo nemmeno una sua partita.

Le guardo a casa, solitamente da solo, altre volte con Yohei che mi lancia occhiatacce di sottecchi.

Lui è l’unico a sapere cosa c’è stato tra me e Kaede. L’unico che di conseguenza ha potuto starmi accanto negli anni bui della sua assenza.

Devo essere sincero: pensavo che sarei stato male ma non male come sono stato davvero.

Kaede si è portato via il mio cuore e vivere senza un cuore può essere molto complicato.

L’estate della sua partenza non sono uscito nemmeno una volta di casa.

Quell’anno può aver avuto un’estate torrida o piovosa, non lo so. Non ho mai voluto saperlo.

Per me quell’estate non è mai arrivata.

Yohei veniva a trovarmi spesso. Qualche volta mi portava dei fumetti, altre volte la cena comprata in strada così che potessimo mangiare insieme.

Non c’è nemmeno bisogno di aggiungere che persi dieci chili. Mangiavo il minimo indispensabile. Esattamente come Kaede. Se solo mi avesse visto – pensavo – mi avrebbe ripetuto le ramanzine che io gli avevo rifilato per due anni di fila: “Sei uno sportivo”, “devi mangiare di più”, “volpe anoressica”.

L’autunno successivo fu la mia primavera. Decisi di dedicare la mia vita a ciò che mi restava: il basket. E mi ci buttai a capofitto.

La mattina seguivo i corsi, studiavo fisioterapia, il pomeriggio andavo ad allenarmi con la squadra dell’università e la sera, finché non crollavo a terra distrutto, mi allenavo nel campetto in cui andava sempre lui.

Era pregno del suo profumo, come lo è tuttora.

Quell’anno fui l’MVP del campionato universitario. Arrivarono in successione la panchina dello Shohoku, quando il signor Anzai smise di allenare, e la convocazione in nazionale per le Olimpiadi.

Ciò che non arrivò mai fu una sua chiamata.

Al tempo, di Rukawa, non si avevano notizie. Da quel che sapevamo, l’aereo con cui si era diretto negli Stati Uniti poteva pure essere precipitato nell’Oceano.

Scoprii che fine aveva fatto, o meglio che non aveva fatto una fine, l’anno successivo quando lessi, passando di fronte a un’edicola, del debutto in NBA di un giocatore giapponese.

Non ebbi bisogno di comprare il quotidiano per sapere che fosse lui.

La sua prima partita la vidi a casa di Yohei.

Gli altri ex componenti dello Shohoku mi avevano proposto di vederla da Akagi ma declinai l’invito buttando lì un “Non ho voglia di vedere la volpe spelacchiata e spocchiosa in diretta nazionale”.

In realtà, morivo dalla voglia di rivederlo e temevo che rivedendolo sarei morto sul serio.

Entrò in campo nel terzo quarto e, tempo due minuti, segnò su schiacciata.

Era bellissimo, forse più di quanto ricordassi, più di quanto il mio corpo e il mio cuore volessero celare.

Volò in alto come non aveva mai fatto in vita sua e schiacciò forte come aveva fatto altre volte, a un passo dalla mia vita.

Le lacrime sgorgarono via da sole.

Yohei non disse nulla, mi appoggiò semplicemente una mano sulla spalla.
 
Ora sono abituato a vedere Kaede in tv. Rispetto agli anni del liceo non è cambiato molto, è semplicemente maturato. Invece, il carattere è anche peggiorato. È burbero come non mai. Lo si nota dal rapporto con gli altri compagni di squadra e con i giornalisti. Non ha mai ringraziato per un passaggio o battuto un cinque, mai rilasciato un’intervista o una singola dichiarazione.

Ciò che però ho subito notato e non ho mai detto a nessuno è che continua a indossare il braccialetto che indosso anche io sul braccio sinistro.

Li comprammo durante la gita scolastica a Tokyo, il secondo anno delle superiori.

Lui lo acquistò per sé e così decisi di comprarlo anche io.

Poche ore dopo glielo tolsi dal braccio destro e glielo chiusi sul sinistro: «Va sul braccio dov’è il cuore» gli dissi.

Non so se per lui quel bracciale ha lo stesso significato che ha per me. Non so nemmeno se durante questo periodo lui abbia avuto una relazione.

Quel che conta è che quel semplice pezzo di cotone che porta al braccio gli ricorda me.

Certo, non mi dispiacerebbe se lui non avesse avuto altre persone dopo di me. Però, non potrei pretenderlo, visto che nemmeno io l’ho aspettato come gli avevo promesso.
 
Da un anno sono sposato con Sakura Ishikawa e abbiamo un bambino.

Lei non è bellissima, diciamo che può passare inosservata, ma ha un bel corpo e un carattere gioviale.

Mio figlio, non so da chi abbia preso: è stupendo. Capelli neri a caschetto, occhi sottili e vispi, naso all’insù.

Quando lo vidi la prima volta nella culla, per poco non mi venne un colpo. Non riuscivo a spiegarmi come potesse somigliargli tanto.

Mi dissi che probabilmente era solo frutto della mia immaginazione deviata. Ma, incrociando lo sguardo nascente di mio figlio, non potei che pronunciare il nome di lui: «Kaede».

Mia moglie, che ha sempre avuto la particolare capacità di sentire soprattutto ciò che non dovrebbe, colse la palla al balzo: «Kaede? Ma che bel nome! Dai chiamiamolo così!».

Non vi dico nemmeno che faccia fece Yohei quando gli dissi che avevo chiamato mio figlio come l’unico amore della mia vita.
In effetti, non aveva tutti i torti. Tuttora faccio una certa fatica nel chiamare il mio bambino con un nome che ho ansimato in situazioni tutt’altro che platoniche.

Difficoltà e nostalgie a parte, riesco a essere un bravo padre e anche un buon marito.

Non sarò dei più perfetti, visto che mia moglie ignora completamente i miei trascorsi sentimentali, ma cerco di impegnarmi ogni giorno affinché lei e il piccolo Kaede abbiano una vita tranquilla.

Se devo fare un termine di paragone, Sakura mi dà quella stabilità che con Rukawa non avevo nemmeno nei momenti di pace più assoluta che erano, per giunta, rari.

A volte mi dico che quando ho vissuto la mia relazione con lui, ero solo un diciottenne e a diciotto anni non si può vivere il sentimento della vita! Però poi penso alla passione e all’impeto che ci legavano e che non sono mai più riuscito a rivivere.

Altre volte, invece, cerco di essere più razionale: la relazione con Rukawa forse mi sembra tanto bella solo perché la guardo con una distanza nostalgica, come un qualcosa di non compiuto e di cui sono rimaste solo le cose belle.

Altre volte ancora, ci sono le notti insonni.

Quelle notti in cui la mia paura non è che mia moglie scopra che andavo a letto con un campione dell’NBA ma che Kaede scopra che mi sono sposato, che lui abbia fatto altrettanto o che il mio matrimonio lo spinga a fare altrettanto.

Ma non ho potuto fare altrimenti!

Ho conosciuto Sakura in un locale in cui mi trascinò Yohei in uno dei miei tanti momenti di acuta depressione. La stessa sera – ero completamente ubriaco – ci andai a letto.

Lei si presentò tre mesi dopo da me per dirmi che era incinta.

Avrei potuto fottermene, visto che lei per tre mesi se ne era fottuta della mia opinione, o avrei potuto fotterla… ed è così che ho fatto.

Uso il termine “fotterla” anche come sinonimo di “fregare” perché, in fondo, sì. La situazione ha fatto comodo anche a me.

Casa mia non è più silenziosa come un tempo, la sua presenza riesce a distrarmi e lei è così amorevole nei modi che a volte dimentico come davvero si debba essere amorevoli.

“Fotterla”, nel senso sessuale, invece, capita poco.

Le poche volte in cui succede è come un meccanismo collaudato. So quando sarà, dove sarà e come sarà.

Quel che so è soprattutto come non sarà. E non credo che ciò dipenda dal fatto che lei è una donna e io invece sono omosessuale.
Innanzitutto, non credo nemmeno di essere omosessuale.

Semplicemente lei non è lui.

Lei non mi lascerebbe mai per coltivare un sogno.

Lei non andrebbe mai dall’altra parte del mondo, lasciandomi solo.

Lei non mi strapperebbe mai una promessa che saprebbe di non poter mantenere.

Lei non romperebbe mai i rapporti per cinque anni consecutivi.

Lei non sarà mai stronza, misantropa, saccente, indisponente, bellissima, passionale, perfetta come lo era lui.

I miei pensieri vengono interrotti dal telefono che squilla incessante.

– Sakura, rispondi tu? – Le urlo, mentre sono sul divano a riflettere con il viso rivolto al soffitto.

– È per te, è Mitsui! – urla lei di rimando dal piano di sopra.

Raggiungo la cornetta, borbottando e lanciandogli improperi di qualsiasi tipo.

– A quest’ora si chiama? Ti ricordo che qui c’è un bambino piccolo! – gli dico per giustificare il mio nervosismo.

– Guarda che non sei più tanto piccolo! – mi prende in giro.

– Pochi scherzi, sdentato! Si può sapere che succede?

– Accendi la tv. Sto avvisando tutti. Rukawa ha rilasciato un’intervista alla tv giapponese!

La cornetta mi cade dalle mani con un tonfo.

Sakura continua a urlare dal piano di sopra. Devo aver svegliato il piccolo ma non m’importa.

Nella cecità del momento, cerco il telecomando a tentoni sulla cassettiera, poi sul divano.

Quando lo trovo, premo pulsanti a caso e, dopo un paio di canali a vuoto, lo vedo.

– È la prima intervista che concede dal suo debutto. Come mai proprio ora? – gli chiede la giornalista di origine asiatica che mi deve aver letto nel pensiero.

– Finora sono stato legato con un contratto fortemente restrittivo alla mia squadra e ho cercato di non compromettere il mio futuro da giocatore. – dice lui tutto d’un fiato. Leggo a distanza il suo disagio. La situazione non gli è per niente congeniale.

– È per questo che non è più tornato in Giappone, nonostante la convocazione in nazionale?

– Sì ma ho già parlato con il coach. Settimana prossima rientrerò per un colloquio in Federazione.

Comincio a mordermi il labbro, poi passo alle mani. Settimana-prossima-rientrerà-per-un-colloquio-in-Federazione. Dunque, a Tokyo, in Giappone, da me!

Fortuna che suona il campanello, altrimenti mi mangerei a morsi persino le braccia!

So già che è Yohei e che ho bisogno di lui.

– Stai vedendo? – mi chiede sulla porta.

Non gli rispondo nemmeno. La televisione lo fa per me.

Ci accomodiamo sul divano e continuiamo a guardare.

– All’estero ha raggiunto tutti i traguardi possibili. Ora qual è il suo prossimo obiettivo? – gli chiede ancora la giornalista.

– Ho avuto fin troppi obiettivi e nonostante ciò li ho realizzati tutti. Ora mi preme solo di tornare a casa e di pensare un po’ alla mia vita.

– Sta dicendo che lascerà l’America?

– No, sono grato a chi mi ha dato questa possibilità e cercherò di giocare al meglio fin quando potrò. Ora però devo recuperare tutto ciò che ho lasciato indietro per la mia carriera.

Yohei si volta verso di me. Percepisco il suo sguardo fisso e preoccupato. Io me ne fotto altamente, rimango concentrato sullo schermo e sul mio cuore che fa le capriole.

Non so se sto sognando, se sono morto, se lui stia parlando di me. Vedo solo il mio petto allargarsi e la mia speranza riaccendersi in modo così prepotente da mandarmi le guance in fiamme.

– Hey, stai bene? – mi chiede Yohei.

– Non lo so, non so più niente. – gli rispondo.

Sono davanti all’armadio indeciso su cosa indossare mentre Sakura va avanti e indietro per la nostra camera, tenendo in braccia un Kaede recalcitrante.

– Credo gli stia venendo l’influenza. – mi dice lei.

Io nemmeno l’ascolto. Penso solo a cosa poter mettere di blu, il colore preferito di Rukawa.

Stasera, dopo cinque anni, lo rivedrò.

È tornato ieri sera in Giappone e praticamente l’ho cercato in ogni angolo pur di riuscire a incontrarlo. Fortunatamente Mitsui l’ha rintracciato e gli ha dato un appuntamento stasera a casa sua.

Ci sarà il quintetto del primo anno dello Shohoku più Ayako, le persone a cui Kaede teneva di più.

Mi decido per una camicia blu e mentre chiudo i bottoni, noto che mi tremano le mani.

Provo a distrarmi parlando a Sakura. Le dico che domani chiameremo il medico e che stasera farò tardi.

– Rivedrete quel vostro compagno famoso? – mi chiede lei.

E io non posso che dirle solo «Hn» e mordermi un labbro.

Mi lego i capelli rossi, ormai cresciuti, in un codino ed esco prima. Ho bisogno di parlare con Yohei.

Lo raggiungo al Pachinko dove so sicuramente di trovarlo. Lui già sa che stasera lo rivedrò.

– Ma come siamo belli! – mi dice, infatti, non appena mi scorge da lontano.

– Non ne parliamo, mi sento imbalsamato. – non gli nascondo il mio nervosismo.

Lui mi dà una pacca sulla spalla e poi, dopo un po’, aggiunge con la faccia seria: «Non fare cazzate».

– Che tipo di cazzate? – lo guardo sorpreso, non capisco dove voglia andare a parare.

– Andarci a letto.

Prima lo guardo con la faccia sbigottita, poi abbasso il capo colpevole. So bene di non desiderare altro che portarmelo a letto.

In fondo, cosa mi aspettavo? Che il mio migliore amico mi incoraggiasse? “Dai Hanamichi, dacci dentro”? Ma per favore!

Lui conosce mia moglie, mio figlio e soprattutto conosce il tipo di rapporto che avevo con Rukawa.

Nemmeno il mio peggior nemico mi augurerebbe di caderci di nuovo!

– Ricorda come hai sofferto questi cinque anni e chi ti è stato davvero vicino, ricorda chi è ora la tua famiglia e la tua felicità. – aggiunge – Lui andrà via, come è già andato via e a te resteranno solo gli strascichi.

Non mi aveva mai parlato così schiettamente ma questo discorso lo conosco alla perfezione. Me lo sono ripetuto, da solo, nella mia testa, per cinque anni.

Appunto, per questo, so che non riuscirò a farne tesoro.

Gli sorrido, non avendo il coraggio di aggiungere altro e vado via, più teso di prima.

Ora ho paura sia che non succeda niente, sia che succeda tutto!

Raggiungo la casa di Mitsui che fuori è ancora giorno.

Lui sta preparando insieme ad Ayako la serata.

Ci saranno semplicemente dei panini, qualche birra e le nostre vecchie foto per ricordare i momenti più belli passati insieme.

Mi siedo sul divano all’ingresso perché sono troppo pensieroso per dare una mano. Comincio a sfogliare le foto e la prima che mi capita tra le mani è il cinque che ci scambiammo io e Kaede durante il primo campionato nazionale.

Al tempo eravamo solo nemici.

Con lo stomaco in subbuglio mi trovo a desiderare con tutte le forze di tornare a quel tempo, quando tutto era più semplice.

Io odiavo lui e lui odiava me. Lineare.

Nel giro di un’ora la sala da pranzo è piena. Miyagi va subito a salutare Ayako, Akagi per fortuna non ha deciso di portarsi dietro Haruko – Kaede non è mai riuscito a sopportarla – e poi ci sono Mitsui e Kogure che confabulano vicini.

Dopo un po’ sentiamo dal giardino il rumore di un’auto e velocemente quello del campanello.

Ecco, ci siamo.

Kaede è a un passo da me. Stupidamente mi trovo a pensare: “Sta respirando la mia stessa aria!”.

Mitsui va ad aprire la porta e, senza che mi permettano di vederlo o semplicemente di percepirne il profumo, tutti gli sono addosso, lo abbracciano calorosamente, Ayako piange nel rivederlo.

Io sento solo l’eco del mio cuore che batte e smetto totalmente di respirare.

Rimango in disparte con la bocca spalancata. Non so nemmeno come faccia a trattenere le lacrime.

Quando tutti si decidono a lasciargli un piccolo spiraglio, finalmente lo vedo.

È vestito sportivo, con una felpa il cui cappuccio gli ha arruffato i capelli. Credo che l’avesse tirato su per non farsi riconoscere. Indossa anche degli occhiali da vista.

Mi sorprendo nel vederlo esattamente come un tempo, stupendo come allora.

Si volta e mi scorge. Per un istante tentenna su cosa fare poi si decide nell’alzare semplicemente la mano.

Io non riesco nemmeno a fargli un cenno del capo. Sono completamente immobilizzato.

– Freddi come al solito, eh ragazzi? – ci prende in giro Akagi e io per poco non faccio cadere la bottiglia di birra che ho tra le mani.

– Hanamichi non vuole darlo a vedere ma è in ansia da giorni! – rincara la dose Mitsui, punzecchiandomi con sguardo malizioso.

– Ma che dici? – mi ritrovo a urlare e ad arrossire miseramente.

Abbasso lo sguardo colpevole e mi chiedo da dove gli sia uscito quel riferimento.

Rukawa sembra non farci caso. Ridacchia sotto i baffi e aggiunge «Cavolo, non siete cambiati di una virgola!».

Sorride. Sorride come non aveva mai fatto nemmeno con me.

Rimango immobile ancora per qualche altro minuto e solo dopo mi accorgo che si sono tutti accomodati sul divano per chiacchierare.

Io non riesco a calmare la mia ansia, così decido di catapultarmi sui panini per distrarmi.

– Allora Rukawa, come va la vita in America? – gli chiede Ayako.

– Non molto diversa dal Giappone, allenamenti, allenamenti e allenamenti. – risponde, sorridendo ancora.

– Eh, ma se prima avevi qualche centinaio di fan, ora ne avrai milioni. Sai che bella vita che fai! – aggiunge Miyagi che si becca una mia occhiataccia.

– In realtà, non ho molto tempo libero. Ma è arrivato il momento di prendermelo. – dice in tutta tranquillità.

– Cavolo, da come parli, deve essere dura giocare a Chicago. – gli chiede Mitsui.

– Non è stato semplice, soprattutto all’inizio. I primi giorni ho praticamente dormito con i barboni. Per fortuna poi ho trovato un lavoretto e ho messo su qualche soldo per iscrivermi in un’università mediocre ma con una squadra di basket.

– E tuo padre, scusa? – chiede ancora Ayako – Pensavo pagasse lui i tuoi studi.

– Mio padre non era d’accordo sul fatto che mi trasferissi. Voleva che lavorassi nell’azienda di famiglia.

– Ma come mai non sei più tornato in Giappone? Potevi farci almeno una chiamata. – esorta Kogure.

Finalmente una domanda interessante. Bravo Quattr’occhi!

– In effetti… – dice grattandosi dietro la testa – ma all’inizio veramente ho pensato solo a “sopravvivere”. Poi quando il talent scout dei Bulls mi ha notato, ho firmato un contratto fortemente restrittivo. Non ho potuto spostarmi fino a oggi.

– Che storie! – esclama sbigottito Mitsui.

– Già, per noi giapponesi non è facile sfondare lì. Ma ditemi di voi? Novità?

– Io e Ayako siamo fidanzati – risponde Miyagi arrossendo, poi continua – tutti giochiamo in squadre di Lega 1, molti di noi sono anche avversari. Kogure, invece, è diventato medico. E… ah, certo. Hanamichi è diventato papà!

E ora è arrivato davvero il momento di sputare la birra che stavo sorseggiando!

– Si può sapere perché devi dire i fatti miei, Ryota? – e lo dico a lui ma il mio sguardo è rivolto a Kaede che continua a sorridere imperturbabile.

– Non pensavo fosse un segreto di stato. Ti sei pure sposato!

– Ryotaaaa! – gli urlo contro ma, in realtà, vorrei gridare contro Kaede.

Perché non ha fatto una grinza? Veramente non gli importa più niente di me?

Se avessi saputo una cosa del genere di lui, come minimo, avrei dato di matto.

Invece, eccolo lì, sorridente manco fosse Sendoh!

È completamente diverso caratterialmente. Sembra affabile, amichevole, alla mano. Che il successo l’abbia addirittura calmato? Eppure in televisione dava una percezione diversa!

– So che stai allenando lo Shohoku. – aggiunge Rukawa, dopo qualche secondo di silenzio.

– Chi te l’ha detto? – gli chiedo, stordito.

– Ho i miei informatori. – e mi strizza l’occhio.

Chi sono questi informatori? E cosa sa di me?

Che sapesse anche del mio matrimonio?

Ma poi, invece di chiamare me per informarsi, chiedeva informazioni ad altri?

Questa serata sta prendendo decisamente una brutta piega.

Ero venuto qui con le migliori intenzioni (sarebbe più corretto dire con le “peggiori” intenzioni!), invece dentro di me sento montare solo tanta rabbia.

Se prima avevo voglia di sbatterlo al muro per scoparlo, ora vorrei solo suonargli così tanti pugni da stordirlo, da farlo tornare in sé, da farlo tornare mio.

Dopo un po’ che li sento chiacchierare amabilmente alle mie spalle, decido di andare via. Non riesco più a celare il mio nervosismo trafficando con il buffet.

– Ragazzi, io vado. Il bambino stasera aveva un principio di febbre. – dico e prendo la giacca, senza nemmeno aspettare le loro risposte.

– Sì, vado anche io. – aggiunge inaspettatamente Rukawa. – Domani ho vari impegni.

Tremo leggermente nel sentire la sua risposta ma guardandolo non fa alcun cenno al mio indirizzo. Forse vuole andare via insieme a me per una
semplice coincidenza…

– Hanamichi, accompagnalo tu. Rukawa soggiorna all’Hotel Palace! – subito esorta Mitsui con un sorrisetto che non si toglie dall’inizio della serata.

– Ma è dall’altra parte della città! – esclamo io, pentendomene un secondo dopo.

Era l’occasione per stare solo con lui, cavolo! Mai una volta che imparo a stare zitto.

– Dai, non importa. Chiamo il mio autista!

– No, no – intervengo io, mentre Rukawa già sta smessaggiando con un cellulare di ultima generazione – farò il giro più lungo.

Lui fa di sì con la testa. Vedo i suoi capelli morbidi muoversi e la mia tensione scomparire in un attimo.

Nella mia testa c’è un solo pensiero: è bellissimo.

Salutiamo tutti e faccio salire Kaede nella mia utilitaria. “Chissà a quale tipo di auto sarà abituato!” mi ritrovo a pensare e mi innervosisco ancora una volta.

Nessuno di noi due parla. Io avrei tante cose da dire che non ne dico nessuna. Lui, invece, di cose da dire agli altri ne aveva a bizzeffe e ora sta zitto.

Risultato? Vado completamente in palla.

Lo guardo torvo di tanto in tanto. E di tanto in tanto mi calmo e mi eccito solo respirando il suo profumo.

Vedo le mie mani tremare visibilmente sul volante.

È a cinquanta centimetri da me eppure mi sembra di sentire il calore della sua pelle sulla mia.

Arriviamo presto in hotel – credo di aver superato ogni limite di velocità – e lui parla solo quando fermo la vettura.

Mi dice di accostare sul retro perché non lo vedano i giornalisti.

Parcheggio e spengo il motore.

Tentenno un po’, poi lo guardo negli occhi.

Inutile dire che tutte le paure, le parole dette e non si sciolgono come neve al sole.

Lo scruto in ogni particolare, ogni lineamento che ho accarezzato, baciato e leccato.

Lui prima abbassa lo sguardo imbarazzato, poi lo rialza d’improvviso e parla.

– Stanotte resta con me. –

Ha uno sguardo speranzoso che con me non ha mai avuto bisogno di indossare.

Io, invece, ho un principio di infarto.

Mi sta davvero proponendo ciò che desidero da cinque anni a questa parte con tutto me stesso?

Non so che dire. Mi ritrovo eccitato e balbettante: «io… io…» continuo a dire.

Il mio corpo e il mio cuore non desiderano altro ma poi penso a Sakura e al piccolo Kaede che sono a casa ad aspettarmi.

– Resterà fra noi, te lo prometto. – cerca di rassicurarmi. Ma più che rassicurarmi, mi spaventa all’inverosimile!

Dovrei andare a letto con lui e poi “chi s’è visto, s’è visto”? Lui su di me ha un potere assurdo. In una sola notte potrebbe legarmi a sé per anni. E
cosa vorrebbe fare? Scopare e lasciarmi di nuovo da solo in balia dell’amore più totale?

– Non dirmi di no. – sussurra, abbassando nuovamente il volto, e io mi rendo conto che non potrei mai farlo, nemmeno in un’altra vita.

– Non potrei mai, lo sai bene. – gli dico. E lui capisce. Capisce non solo che gli ho detto di sì ma che il mio sarà un sì per sempre.

Scendo dall’auto e saliamo dalla porta sul retro. Lui si tira su il cappuccio per coprirsi il volto e io non so se fare altrettanto. Non capisco più niente.

Sono eccitato e impaurito. Il mio corpo trema tutto.

Una guardia del corpo ci accoglie all’ingresso. Kaede gli dice che salirò con lui e l’energumeno, dopo un segno di assenso, ci accompagna fin dentro la camera. Poi fa un inchino e va via.

Durante il tragitto mi chiedo se Rukawa abbia ospitato allo stesso modo altri uomini in questi anni. Non nascondo sentire uno spillo trafiggermi il petto.

Una volta attraversata l’anticamera, vedo il letto a baldacchino, la piscina idromassaggio, la tv di ultima generazione e piscine e tendaggi orientali.

Lui subito si mette sulla difensiva:

– Non farci caso. Non ho chiesto io tutte queste cose.

Ma a me non importa. Ora penso solo a lui.

Kaede capisce in un lampo.

Si avvicina a me con passo felino e mette il suo volto a un palmo dal mio.

Mi toglie l’elastico dai capelli, facendomeli ricadere sulle spalle, e mi soffia sulle labbra una semplice parola: «Perdonami».

Colmo in un lampo la distanza che ci separa. Lo bacio come un forsennato.

Non riesco a fare altro che baciarlo.

Perdonarlo? Ma di cosa?

In un attimo ci ritroviamo nudi sul letto.

Ricordo ogni singolo particolare del suo corpo e lo ripasso percorrendolo emozionato con le mani.

Ogni neo, ogni piega, ogni muscolo, è tutto impresso a fuoco nella mia mente e tutto talmente bello da non sembrarmi vero.

Mi ritrovo a pensare scioccamente a tutte le volte in cui l’ho sognato in questi cinque anni. L’ho fatto così tanto da credere che quanto accaduto tra noi fosse una mia immaginazione, che io non l’avessi mai stretto davvero a me.

Ma la memoria non ha alterato niente: lui è qui, sotto di me, più bello che mai.

Entro dentro di lui il prima possibile, dopo essermi attardato anche troppo in baci e carezze.

Voglio solo essere unito a lui e non dovermi allontanare mai più.

Rallento i movimenti perché possa durare a lungo e lo guardo negli occhi.

Vorrei dirgli che lo amo, che l’ho sempre amato, che vorrei che non ci fosse nessuno nella mia vita, nemmeno mio figlio, solo lui, nient’altro che lui.

Ma non glielo dico, lui lo capisce da sé guardando i miei occhi adoranti.

Mi sorride e avvicina il volto al mio per baciarmi con dolcezza.

Inciampiamo in un piacere talmente intenso che esistono solo grida, spasmi e il suo nome. Vorrei trattenermi ancora nelle parole, nei gesti, negli sguardi ma la sola idea di poterlo sentire così vicino a me, mi manda a fuoco.

Dopo poco vengo dentro di lui e il mio corpo sembra librarsi nell’aria, come se avesse spezzato una catena stretta forte, sempre più forte per cinque lunghissimi anni.

– Finalmente Kaede! – gli mormoro e lui mi stringe a sé.

Sono talmente felice che potrei morire all’istante e continuare a essere felice.

Lo stringo forte di rimando e mi sembra di non averlo mai sentito così piccolo tra le mie braccia, nemmeno quando aveva 16 anni. Già allora si incaponiva a ostentare una sicurezza e un distacco che non gli appartenevano.

Ora, non mi nasconde più niente. Non nasconde più nemmeno il sorriso che mi riserva.

Mi dà piccoli baci sulle spalle e sul collo e mi sussurra «Vorrei fosse sempre così».

So che è arrivato il momento di parlare. Rifletto un po’ su cosa dire ma alla fine decido di far parlare soprattutto lui. Ho bisogno di sapere qual è il vero motivo per cui è tornato.

Non appena comincio a dire «Kaede, senti…», lui mi interrompe.

– Shh, non stanotte. – nel dirlo mi prende la mano sinistra – Stanotte sei solo mio – e mi sfila la fede dal dito per appoggiarla sul comodino.

Riprendiamo a baciarci e facciamo l’amore ancora e ancora, proprio come l’ultima volta in cui lo facemmo, proprio come se questa fosse la nostra prima notte.

Ci appisoliamo anche un po’ e io riesco a riprendermi solo alle prime luci dell’alba.

Scivolo dall’abbraccio con cui mi ha tenuto stretto tutta la notte e comincio a rivestirmi.

Purtroppo non riesco a non svegliarlo.

– Già vai via? – mi chiede, stropicciandosi gli occhi.

Mentre abbottono la camicia, non riesco a trattenermi e mi abbasso nuovamente a baciarlo.

– Dovevo andare via già qualche ora fa. – gli mormoro con un sorriso.

Nel recuperare il cellulare mi accorgo che ci sono delle chiamate di mia moglie. Deve essere preoccupatissima…

– Quando ci vediamo? – mi chiede ancora, mentre traffico con il cellulare. Dovrei mandare a Sakura almeno un messaggio.

– Tu quanto ti trattieni?

– Una settimana.

– Per me possiamo vederci anche oggi. Nel pomeriggio sono allo Shohoku.

– Ok, vedrò di esserci. – risponde contento, quasi come se fosse sorpreso che ho ancora intenzione di vederlo.

– Ma non venire tutto coperto da cappucci e occhiali. I miei ragazzi sarebbero felici di ri-conoscerti. – gli chiedo e glielo chiedo davvero per i miei
ragazzi. Sprizzeranno gioia da ogni poro sudaticcio e brufoloso del loro corpo.

Quando ho indossato il giubbotto di pelle, lui mi ferma ancora: «Hana…».

– Hn?

– Io non sono tornato per la nazionale. – dice di getto.

– E per cosa? – gli chiedo, tornando a sedermi sul letto.

– Secondo te? – mi chiede a sua volta fissando lo sguardo nel mio.

Non posso non sgranare gli occhi. Stanotte è stato talmente dolce e diretto che stento a riconoscerlo. Che si sia accorto davvero del sentimento che ci lega? Che se ne sia accorto solo ora?

Quest’ultimo pensiero riesce persino a intristirmi.

Io e lui siamo palesemente la perfezione. Avrebbe dovuto capirlo cinque anni fa!

Kaede scende dal letto, indossa i boxer gettati sul pavimento e prende dalla cassettiera una busta che mi mette tra le mani.

La apro, praticamente stracciandola, e subito noto che dentro c’è un biglietto per Chicago a mio nome!

– Kaede, ma io… – Non so che dire, davvero non so... Anche perché temo di non potergli dire l’unica cosa che andrebbe detta: Sì!

– Non ti nascondo che vorrei partissi con me… – dice e prende fiato – ma capisco la tua situazione. Puoi anche prendere questo volo e io uno
diverso, se è questo che desideri, ma ti prego di venire a Chicago…

Non capisco…

– Perché dovrei venire a Chicago da solo?

– Ho mostrato la finale del campionato nazionale dello scorso anno al coach dei Bulls. Vuole provinarti.

– Cosa? – Per poco non cado dal letto. È più di quanto pensassi, più di quanto la mia immaginazione potesse farneticare.

– Puoi trasferirti a Chicago con la tua famiglia, vi troverò una casa. Farò tutto ciò che vorrai ma promettimi di fare il provino! – mi guarda con gli stessi
occhi di ieri sera, con la stessa speranza.

– Davvero, non so. Ne devo parlare prima con Sakura… – tentenno, non so davvero cos’altro aggiungere, e a lui sembra bastare.

– Hai una settimana per decidere.

Lo trascino verso di me, sulle mie gambe. Appoggio la fronte sulla sua e gli mormoro «Grazie». Nient’altro che grazie.

Torno a casa con un sorriso che non avevo sulla faccia da cinque anni, forse ancora più grande di quelli che indossavo al tempo.

Il rientro però non è dei migliori.

Quando apro la porta di casa, trovo Sakura e Yohei che mi guardano come fossi il peggiore degli assassini.

– Cosa sono quelle facce? – chiedo, non riuscendo a togliermi la felicità dal volto.

Avevo intenzione di mandare un messaggio a Sakura ma Kaede mi ha detto di Chicago e mi è sfuggito di mente.

– Ti ho provato a chiamare decine di volte, si può sapere che fine hai fatto? – mi grida contro una Sakura arrabbiatissima.

– Ti avevo detto che avrei fatto tardi… – provo a giustificarmi ma probabilmente sul viso, insieme al sorriso, mi si legge pure la vergogna.

Yohei nemmeno mi guarda, già immagina tutto.

– Kaede ha avuto la febbre altissima tutta la notte! Fortuna che Yohei mi ha accompagnato in ospedale. – grida non riuscendo a placarsi.

Il mio senso di colpa raggiunge in un lampo le stelle.

– Come sta adesso? – riesco a sussurrare a malapena.

– Gli hanno somministrato del cortisone, ora sta meglio. – interviene Yohei, guardando fisso davanti a sé – Ora non è il momento per le discussioni. Va’ a riposare Sakura, parlerò io con Hanamichi.

Lei fa di sì con la testa e mentre sale le scale per andare in camera le sento mormorare vari “sconsiderato” al mio indirizzo.

Io mi siedo di fianco al mio, ormai ex, migliore amico, preparandomi alla ramanzina del secolo.

– Andiamo fuori, non possiamo parlare qua. – si decide dopo averci pensato un po’.

Ci ritroviamo uno di fronte all’altro nel giardino sul retro, mentre il mio sguardo si abbassa ancora di più.

– L’hai rivisto? – mi chiede, accendendosi una sigaretta e tirando subito una boccata. Non fumava da un po’, non devo avergli fatto passare una bella nottata.

Gli faccio di sì con la testa. Non ho nemmeno la forza di parlare.

– Sei stato con lui fino a ora?

Mi taccio completamente. Sapevo cosa ne pensasse ma ho fatto tutt’altro. Il suo consiglio non mi è nemmeno passato per la testa nelle ultime ore.

Ho voltato la faccia a lui, a mia moglie e a mio figlio per due sole parole, due parole in fila della persona che mi ha abbandonato, della persona che non ho mai dimenticato.

– Hanamichi, cazzo! Sei stato con lui? – grida Yohei, perdendo il controllo.

– Sì… – mormoro.

Lui riflette su cosa dire, butta la sigaretta a terra, la schiaccia con il piede e poi mi sputa addosso tutto ciò che pensa.

– Ti ha illuso per due anni, gli sei stato dietro scodinzolando come un cagnolino, ti ha mollato manco fossi un pacco postale, non si è fatto vivo per cinque anni, nemmeno quando ti sei sposato… e sappiamo benissimo che se si fosse presentato quel giorno, tu non ti saresti mai sposato! E ora? Fa due moine e tu mandi a puttane un matrimonio e un figlio?

 Le parole di Yohei mi trafiggono il cuore come una lama affilata. Parla quasi strisciando la voce, con lo sguardo carico di disprezzo.

– È tornato per me! Vuole che vada via con lui! – gli dico baldanzoso, ma subito dopo mi pento di avergli rivelato quest’altra bella novità.

– E mi pare giusto. Non solo ci vai a letto due ore dopo averlo visto, ora pensi pure di abbandonare Kaede e Sakura per andar via con lui. Grandioso!

– Io lo amo, Yohei. L’ho sempre amato e tu l’hai sempre saputo! – mi ritrovo a dirgli l’unica profonda verità che finora ha mosso tutto.

– Io ho sempre saputo che tu sei una persona leale, seria, di valori. E questo non sei tu! È lui, solo e soltanto lui. Prima di commettere ulteriori cazzate, rifletti! – e va via nell’alba, aggiungendo un «Sai dove trovarmi».

 Ed ecco trasformata la mia notte più luminosa nel mio giorno più buio.

Rientro in casa e salgo al piano di sopra. Sakura sta dormendo di fianco a Kaede sul nostro letto.

Ieri notte sono arrivato al punto di sperare che non esistessero. Eppure sono legato da un affetto sconfinato alle due creature che giacciono placide tra le coperte.

Rukawa è in grado di eclissare anche quest’ultimo?

Negli ultimi due anni loro sono stati la mia unica gioia, il mio unico obiettivo raggiunto. Ero riuscito a creare una famiglia solida nonostante la mia intemperanza e il mio cuore altrove.

Mi avvicino a Kaede e gli accarezzo il viso. È fresco, la febbre deve essere scesa.

È così diverso il sentimento che provo per mio figlio. È un sentimento naturale, viscerale e assolutamente positivo.

Quello che mi lega a Rukawa, invece, si colora sempre di colori foschi. Ogni volta che ce l’ho vicino.

È come se una forza che non conosce limiti e ragioni mi spingesse ad andare verso di lui. Quasi come fossi un kamikaze, visto che con Rukawa ho sognato di vivere ma sono soprattutto morto.

Scrivo a Sakura un semplice “mi dispiace” su un fogliettino e vado in ospedale. Oggi avevo alcuni pazienti alle sedute di fisioterapia.

A pranzo, mangio un panino veloce e corro verso la palestra dello Shohoku. A dispetto della terribile mattinata e dei pensieri contrastanti, ho già il cuore che batte all’impazzata nell’attesa di rivedere Rukawa.

Quando i ragazzi mi raggiungono dopo le lezioni per allenarsi, li faccio dedicare ai fondamentali e poi ai tiri da tre. Dopo poco, vedo Kaede spuntare oltre la porta.

Si è presentato senza nemmeno un cappello e per giunta con la divisa dei Bulls! Lo trascino con la mano dietro una siepe per far sì che non lo vedano.

– Volpe, potevi coprirti almeno il viso. Si vede da un chilometro che sei tu! – gli dico, sgridandolo sotto voce.

– Ma sei mi avevi detto di non camuffarmi! – ovviamente ha subito da ridire.

– In palestra no. Ma fuori di qui, certo! – gli faccio notare l’ovvietà del mio ragionamento.

– Sì, sì, vabè. Andiamo?

– No, prima devo annunciarti! – come fa non capire certe cose?

– E chi sono? Il Papa?

– Volpe, smettila di fare facili ironie. E, sotto hai la divisa per giocare?

– Sì, ce l’ho nella sacca. Conosco troppo bene la tua mente megalomane. – aggiunge sorridendomi sarcastico. Deve aver capito che voglio organizzare una partitella.

Non posso fare altro che sghignazzare per il nostro battibecco. Sono rimasti uguali identici a quelli del passato.

Gli dico di andare a cambiarsi nello spogliatoio e intanto raggiungo nuovamente i miei ragazzi.

– Oggi ho una sorpresa per voi! – annuncio con aria trionfale, dopo averli radunati intorno a me.

– No coach, non altri fondamentali! – sbuffa il nostro rimbalzista Miyazaki, in tutto simile a me. Ha persino i capelli rossi!

– Niente fondamentali, Miya! Dopo l’allenamento giocherete una partita e io sarò dei vostri insieme a un mio ex compagno di squadra.

– Non di nuovo Akagi, coach! Quello ci mena. – aggiungono in coro.

– Tranquilli, è un po’ più bravo di Akagi ma non bravo quanto me! – ridacchio… se solo mi sentisse!

– Idiota! – e ovviamente non poteva non sentirmi.

Oh, in questo è spiccicato a mia moglie!

Entra in palestra e le mandibole dei ragazzi per poco non raggiungono il parquet.

Dopo un momento di indecisione iniziale, gli saltano tutti addosso. Chi per chiedergli una foto, chi un autografo, chi semplicemente lo tocca.

Quest’ultimo è Miyazaki. Proprio in tutto uguale a me!

– Non c’è bisogno che vi dica che siete di fronte a Kaede Rukawa. – continuo, praticamente inascoltato – ora però mollatelo, sciò, sciò! – aggiungo, alquanto geloso.

Chiedo a Kaede se vuole dire qualcosa al gruppo e stranamente acconsente.

– Spero che questo campo vi porti fortuna come ha portato fortuna a me. – dice, pensandoci un po’ su – Qui ho conosciuto l’amore per lo sport e l’amore della vita e mi auguro che succeda anche a voi. –

Mi guarda e gli sorrido. È bastato di nuovo un suo sguardo per cancellare ogni mio dubbio.

– Allora, cominciamo? – urlo e in un lampo siamo tutti in campo.

Giochiamo la partita più bella della mia vita, probabilmente seconda solo a quella giocata contro il Sannoh, il primo anno di liceo. Finalmente torno in campo con Kaede, posso rivedere l’aura che emana, la luce accecante dei suoi occhi.

Anche i miei ragazzi ne rimangono incantati, a malapena gli si avvicinano per timore.

Io invece lo placco, come ai vecchi tempi, quando prima di stare insieme, mi eccitavo al minimo contatto.

Una volta riesco anche a togliergli la palla e a segnare da tre e lui mi guarda orgoglioso. So a cosa pensa, già sta immaginando di giocare insieme, a Chicago. E io mi rendo conto che sarebbe meraviglioso, fin troppo meraviglioso.

La sua squadra segna punti su punti e lui non è egoista. Passa la palla a tutti e fa concludere le azioni soprattutto ai ragazzi.

La partita ovviamente la vince lui ma di poco, di soli cinque punti.

Quando finisce, i ragazzi lo salutano cordiali, gli dicono che lo seguiranno in tv e che vogliono un saluto in diretta nazionale. Kaede li ringrazia e dice di sì a ogni singola richiesta.

È un campione, non saprei definirlo in altri termini.

Non appena vanno via tutti, raggiungiamo insieme gli spogliatoi per cambiarci. Nel tragitto non riesco a trattenermi dal mettergli un braccio dietro la schiena e ad accarezzargliela.

Risalgo con le mani fino alla sua nuca e avvicino il suo capo al mio per poggiargli un bacio tra i capelli.

Un gesto carico d’affetto, un affetto che forse ora viene fuori per la prima volta.

Dopo che ci siamo cambiati, lo abbraccio da dietro. Non riesco in nessun modo a stargli lontano.

Lui mette le sue mani sulle mie e si appoggia a me con il capo.

Lo dondolo tra le mie braccia e gli parlo all’orecchio.

– Quanti ricordi abbiamo in questo posto? – gli chiedo.

– Te bagnato di pioggia quando perdemmo contro il Kainan, il nostro primo bacio, la seconda, la quarta, la nostra millemillesima volta…

Si gira nel mio abbraccio e ci baciamo dolcemente.

– Voglio portarti in un posto! – mi dice, poi, allontanandosi da me.

Mi trascina prendendomi per mano fuori dalla palestra e, senza mai staccarci, arriviamo davanti alla sua vecchia casa.

Non nascondo di essere venuto qui qualche decina di volte negli ultimi cinque anni, solo per rivederla, solo per vedere se lui fosse tornato.

La casa è circondata dalle erbacce e la tinta alle pareti esterne si è leggermente scurita ma, nonostante sia stata trascurata, si è mantenuta bene. È solo meno luminosa di un tempo.

Lui mi mette le chiavi sotto al naso e poi si decide ad aprire la porta.

L’interno è esattamente identico a come l’avevamo lasciato: lenzuola coprono i mobili e i divani. Solo su uno di questi ultimi sono leggermente scostate.

Lì facemmo l’amore l’ultima volta che ci siamo visti.

Kaede non dice una parola, semplicemente sorride.

– Le nostre cene, le nostre litigate, la nostra prima e ultima volta… – sussurra poi, ricordando quanti momenti racchiuda anche questo posto.

Tra noi scocca una scintilla totalmente diversa da ieri. Se la sera prima ci aveva mosso la passione, ora è il tempo dell’amore più totale.

Ci spogliamo lentamente raggiungendo il divano.

Assaporo ogni millimetro della sua pelle, ogni suo singolo bacio.

Quando entro dentro di lui, coperto solo dal lenzuolo che prima copriva il divano, riesco a pensare che sia la creatura più bella che io abbia mai visto, che vorrei che nessun altro l’abbia avuto.

– Dimmi che non ti ha mai visto nessuno così! – gli dico, ansimando e toccandolo.

Lui mi guarda negli occhi con lo sguardo contratto dal piacere ma non mi risponde.

– Dimmelo, Kaede, dimmi che sono l’unico per te… – insisto. La sua bocca, purtroppo, non proferisce parola.

Aumento il ritmo delle spinte in preda a un raptus di gelosia completamente assurdo.

Che tipo di pretese potrei avere? Sono passati cinque anni e io, per giunta, sono sposato!

La mia testa, però, con Kaede, è completamente fuorigioco.

La sola idea che qualcuno abbia potuto godere dello stesso calore che ora sto sentendo intorno a me mi fa andare in bestia.

Spingo con una prepotenza che non mi sono mai permesso di avere con lui. So che gli sto facendo male ma Kaede non fa niente per allontanarmi,
continua a mugolare e a guardarmi.

Quando vengo dentro di lui, ho l’istinto di staccarmi immediatamente e lo faccio sul serio, sedendomi sul divano.

Kaede mi viene subito dietro e mi abbraccia le spalle, incrociando le braccia intorno al mio collo.

– Che c’è? – mi chiede.

– Perché non mi hai risposto? – gli domando a mia volta.

– Perché fai domande stupide. – risponde, baciandomi dietro l’orecchio. Sa bene che quello è il mio punto debole.

– Non lo sono per niente! – gli dico, allontanandolo da me – È normale che io voglia sapere…

– Sarebbe stato normale se tu non avessi una moglie e un figlio. Ora non lo è più. – Rukawa assume un’espressione fredda e seria che non gli vedevo da cinque anni sul volto.

– Ero ubriaco ed è rimasta incinta, non ho avuto nessun altro! – gli grido addosso. Quella volta che andai a letto con Sakura, io non volevo nient’altro che lui, per me lei non era nessun altro che lui.

– L’hai sposata, dannazione! – mi risponde, alzando anche lui la voce – Non venirmi a raccontare storie sulla vostra inesistente attività sessuale!

– Se non nulla, quasi. – gli dico, sorridendo spavaldo, buttandogli in faccia una verità che a lui non piace per niente.

– E allora anche la mia vita sessuale è stata nulla o… quasi.

Gli suono un ceffone. La sua faccia indisponente non meritava nient’altro.

Mi rivesto in fretta e vado via, evitando di guardarlo.

Mentre torno a casa, penso che casa sua è stata il nostro nido d’amore ma anche la cornice delle liti più feroci.

Il pomeriggio successivo quando rientro dagli allenamenti, trovo Kaede a casa mia.

– Hanamichi, nel salotto c’è quel tuo amico famoso! – mi annuncia Sakura, tutta allegra, completamente ignara di trovarsi davanti all’uomo per cui sarei disposto a cancellare lei e mio figlio.

Entro in salotto e lo vedo seduto sul divano con il suo omonimo più piccolo che gli passa tra le mani una macchinina.

– Che ci fai qui? – gli chiedo con il volto contratto. In realtà, è più una parvenza di freddezza. Mi sono pentito della sfuriata che gli ho fatto un attimo
dopo essere uscito da casa sua.

Ho capito che non posso avere alcun tipo di pretesa, anche se vorrei.

– Sono passato a salutarti. – dice lui semplicemente, guardando me e poi il bambino ai suoi piedi.

– Posso offrirvi qualcosa? – interviene Sakura.

– No grazie, sono solo di passaggio. – risponde cordialmente Kaede.

– Sì, anche io sto bene così. – le dico e Sakura si allontana, lasciandoci soli con il piccolo che gioca sul tappeto.

Mio figlio si alza in piedi e mi raggiunge, cercando di trascinarmi sul pavimento per giocare insieme.

– Kaede, giochiamo dopo, adesso ci sono ospiti, vedi? – gli dico, accarezzandogli i capelli.

Rukawa rimane esterrefatto per qualche secondo poi mi chiede «Come lo hai chiamato?».

Non ci avevo fatto caso. Non ricordavo nemmeno di non averglielo mai detto.

– Si chiama come te. – gli rispondo guardandolo negli occhi.

Dopo qualche minuto di silenzio, sussurra un: «Non ho avuto nessun altro» a testa bassa.

Inizialmente non capisco a cosa si riferisca, poi comprendo che è la sua risposta alla mia richiesta di ieri.

– Scusami, non avrei dovuto chiedertelo! – gli dico un po’ imbarazzato ma in realtà dentro di me esulto manco fossi stato nominato di nuovo MVP.

Credo che il sorriso si accenda anche fuori di me.

– Non importa. – mi dice – Ora torno in hotel. Quando avrai preso una decisione, sai dove trovarmi. – e si alza con l’intenzione di andare via.

Sakura però entra in sala da pranzo giusto per sentire le ultime battute mie e di Kaede.

– Che decisione dovresti prendere? – chiede alla mia direzione.

– Niente di… – cerco di rispondere, preso dal panico, ma Kaede ne approfitta per intervenire.

– La mia squadra vorrebbe provinare Hanamichi. – dice Rukawa lentamente, quasi a voler far intendere a Sakura la reale portata della sua proposta.

– Hanamichi, e non mi hai detto niente? – mi chiede subito lei – Questo è il tuo sogno, devi assolutamente andare!

– Ma si tratta di Chicago. Stiamo parlando di America, Sakura! Hai capito questo cosa comporterebbe? – le chiedo per farle capire davvero cosa si
sta delinenando.

– Qui si tratta della tua carriera, Hanamichi. Noi verremmo ovunque per te! – mi risponde, prendendo in braccio il piccolo Kaede che le si è avvicinato.

– Allora, affare fatto. – chiude subito il caso, Rukawa – Sabato si parte!

– Già sabato? – chiede Sakura, spaventata.

– Verrà solo Hanamichi per il provino – interviene Kaede – In caso di esito positivo, dovrete trasferirvi entro il prossimo settembre.

– Cavolo! – aggiunge lei un po’ spaventata – Beh, almeno c’è il tempo per abituarsi all’idea.

Ho come l’impressione che qualcun altro abbia deciso per me. E che soprattutto Kaede, prima di venire a casa mia, avesse meditato quest’ultima conversazione.

Mi sfiora anche un’altra impressione: quella di stare vivendo con un piede in due scarpe.

– Tu sei pazzo! – mimo a Rukawa con la bocca.

– Ci vediamo stasera… – sussurra, strizzandomi l’occhio. Poi saluta mia moglie e va via.

Non avevamo un appuntamento ma già so che non potrò fare a meno di rispettarlo.

Il giorno successivo vedo Yohei. Non è un incontro casuale, diciamo che mi son trovato a passeggiare nei posti in cui passeggia lui.

Quando si accorge di me, noto la sua espressione pensierosa. Probabilmente non sa se avvicinarmi o se voltarsi dall’altro lato della strada e andar via.

Ignorando la sua indecisione, decido di raggiungerlo.

– Ehi, come stai? – gli chiedo per rompere il ghiaccio.

– Preoccupato. Tu? – chiede a sua volta, continuando a camminare a passo spedito.

– Anche io. – e decido di fermare questa corsa con le parole più forti che potessi dirgli – Sabato parto per Chicago.

– Cosa stai dicendo? – urla in preda alla rabbia ma non deve aver capito!

– Ho il provino con i Bulls! Non sto lasciando Sakura e Kaede.

– Di quale Kaede stai parlando? – mi chiede lui ironico, riprendendo a camminare ma con un passo più lento.

– Di mio figlio, ovviamente. Non sono così irresponsabile.

– E dell’altro Kaede, che mi dici?

– Non lo so ancora… – ammetto.

– Prima o poi, anche lui vorrà una risposta. – mormora ma non mi illudo che con queste parole stia prendendo le sue difese. So bene cosa Yohei vorrebbe per me.

– Il mio cuore ha già scelto. – gli dico, con lui voglio essere sincero fino in fondo.

Lui mi guarda le mani e rimane perplesso, non capisco perché.

– Ti sei tolto la fede? – mi chiede e rimango stupito anche io. Possibile che non me ne sia accorto in questi giorni?

Provo a fare mente locale e mi viene in mente che Rukawa me l’ha sfilata la prima notte che abbiamo passato insieme!

– L’ho solo dimenticata… – rispondo e penso che non solo l’avevo dimenticata ma anche completamente rimossa.

– Ascolta, non voglio ripetere la ramanzina dell’altra volta. Già sai come la penso. – aggiunge, poi prende fiato – Ti chiedo solo di non fidarti completamente di Rukawa.

– Yohei, Rukawa sa di aver sbagliato nel non essersi fatto sentire in questi anni… – sbuffo io.

– Non è questo. – mi dice – Ieri ho incontrato Mitsui. Mi ha fatto qualche domanda di troppo su te e Rukawa e ho capito che sa di voi.

– Impossibile! Io non gli ho mai detto niente. – gli rispondo con sicurezza.

– Tu, ma potrebbe averlo fatto Rukawa. Credo lo abbia sentito in questi ultimi cinque anni.

Mi mordo il labbro nervoso. So che Yohei non è lucido nel giudicare Kaede ma anche io, la sera della festa, ho notato che Mitsui ci guardava con un’espressione maliziosa, come se sapesse.

Di certo non mi darebbe fastidio se Rukawa si sfogasse con qualcuno su di noi. Io lo faccio con Yohei!

Non sopporterei, però, se lui l’avesse sentito in questi cinque anni.

Voglio dire, perché chiamare Mitsui, di cui non gli è mai importato nulla, e non me?

Per giunta, se davvero Mitsui gli ha parlato del mio malessere dopo la sua partenza, se davvero gli ha parlato del mio matrimonio… perché Kaede non si è fatto sentire? Perché non mi ha impedito di sposarmi?

– Ne parlerò con lui. – dico a Yohei e vado dritto lungo la strada che porta all’hotel di Rukawa.

Via il dente, via il dolore.

Entro nella hall e raggiungo il portiere che ormai mi conosce.

Rukawa gli ha detto di farmi salire ogni qualvolta fossi stato di passaggio.

Mi avvicino giusto per palesargli la mia presenza e mi dice che lui è in camera.

Quando busso alla porta, Kaede immagina che sia io. Infatti viene ad aprirmi solo con un’asciugamani in vita.

In testa mi rimane un unico neurone attivo che non fa altro che sbavare.

Entro in camera e lo saluto. Cerco di stargli lontano, onde evitare di mandare a fuoco anche il neurone sbavante.

– Ti devo parlare. – gli dico subito.

Lui capisce che è una cosa seria così si asciuga un po’ i capelli con un’altra asciugamani e comincia a vestirsi.

– La prima sera che ci siamo visti, hai fatto riferimento a un “informatore”, a qualcuno che ti parlava di me. Posso sapere chi è? – gli chiedo. Meglio
prendere il discorso alla lontana.

– Perché questa domanda? – si mette subito sulla difensiva.

– Yohei mi ha detto che sei rimasto in contatto con Mitsui in questi anni. È la verità? – decido di andare dritto al sodo. Se aspetto che Rukawa parli, facciamo notte…

– Ah giusto, Yohei. L’uomo che non vede l’ora di mettere zizzania tra noi!

– Sai bene che non mi importa niente di quello che pensa Yohei! – mi infurio io – Dimmi solo se è la verità.

– L’ho sentito ma solo qualche volta. – ammette lui, candido – Contento?

– Per niente! Invece di perdere tempo al telefono con Mitsui, potevi chiamare me. – mi alzo in piedi, ormai completamente fuori di me – Avrei dato la mia vita pur di sentire la tua voce!

– Se avessi chiamato te, mi avresti chiesto di tornare! – aumenta il tono di voce anche lui.

– E certo, era quello che volevo!

– E io, invece, non potevo tornare! Ho chiesto a Mitsui di farmi sapere qualsiasi cosa ti accadesse e gli ho chiesto ovviamente di starti accanto…

– Allora, sapevi anche del mio matrimonio? – se mi risponde di sì, lo ammazzo.

– Sì… – ammette lui.

Lo prendo per la maglia e comincio a urlargli contro: «Si può sapere perché non mi hai fermato?». Avvicino pericolosamente il suo volto al mio. E stavolta non per un bacio.

Sono dispiaciuto e amareggiato: non capisco perché tra me e lui debba sempre finire così.

– Tu forse non ricordi – mi dice sottovoce – ma io ti ho chiamato la sera prima delle tue nozze.

– Ma cosa dici? – lo lascio andare, facendolo cadere sul letto – Non dirmi cazzate!

La sera prima delle mie nozze ci fu l’addio al celibato organizzato da Yohei. Ero completamente ubriaco, è vero, ma una chiamata di Kaede me la sarei ricordata!

– Ti chiamai e mi rispondesti tutto allegro al telefono. Così preferii non dire nulla. – e fa pure un smorfia di disgusto, da finto geloso!

– Tu sei tutto matto! – gli rispondo per le rime – E questa ti sembrerebbe una chiamata? Quella sera ero completamente ubriaco. Più che felice, ero sbronzo!

Effettivamente ricordo una chiamata a cui non rispose nessuno ma mai avrei pensato che dall’altra parte del telefono ci fosse lui.

Poi, io ero tutt’altro che felice. Quella sera piansi come una fontana! Yohei praticamente starà ancora strizzando la camicia zuppa delle mie lacrime.

– Mi perdoni? – chiede lui, quasi ironico.

Non ha capito che sono serissimo su questa questione.

– Guarda che ci sono rimasto davvero male. Poi, con tanta gente, proprio Mitsui?

– Era l’unica persona che poteva capire… – e credo si riferisca alla relazione che lo lega a Kogure.

– Basta segreti, Kaede… – sbuffo, riducendo i toni. So che ha sbagliato ma non riesco a litigare con lui o almeno non più. Sarà che sono cresciuto, sarà che sono stanco, sarà che ho paura di perderlo di nuovo.

Mi fa di sì con la testa e comincia a togliersi la biancheria da poco indossata.

– Che fai? – gli chiedo.

– Mi spoglio. Non avevi detto che non volevi più segreti tra noi?

Parlavo di segreti, non di vestiti, ma, ora, poco mi importa. Lo sbatto sul letto.

Più che punirlo, finisco per amarlo...
   
 
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