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Autore: harinezumi    10/06/2016    4 recensioni
Erik scese dall'auto, sentendo le ossa di un ginocchio scricchiolare e facendo una smorfia spazientita al riguardo, sistemandosi il lungo cappotto nero con eleganza, quando fu all'esterno. Era una giornata troppo soleggiata per i suoi gusti; fu un sollievo recuperare capello e occhiali da sole dal sedile, per proteggersi dalla luce che penetrava persino attraverso la coltre di alberi del parco dov'era sceso.
[in breve, vecchi mutanti che abbandonano cause e vanno in pensione. Cherik]
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Note: Ho scritto questa fic tre anni fa, in occasione del 74esimo compleanno di Sir Ian McKellen. Da qui la tematica principale. E poi, ho un debole per questa coppia in età avanzata, perché quando un rapporto del genere sopravvive per 50 anni è vero amore; ho scelto di ambientarla nel movieverse, per alcuni dettagli, ma in verità è abbastanza indifferente. Buona lettura, se vorrete lasciarmi un feedback vi ringrazio <3

harinezumi



 

Age

 

 

Erik scese dall'auto, sentendo le ossa di un ginocchio scricchiolare e facendo una smorfia spazientita al riguardo, sistemandosi il lungo cappotto nero con eleganza, quando fu all'esterno. Era una giornata troppo soleggiata per i suoi gusti; fu un sollievo recuperare capello e occhiali da sole dal sedile, per proteggersi dalla luce che penetrava persino attraverso la coltre di alberi del parco dov'era sceso.
Si chinò per guardare dentro l'auto dai vetri oscurati con cui era arrivato, lanciando un'occhiata e un sorriso alla persona alla guida; il sorriso e gli occhi dorati di Mystica gli risposero, mentre quella che sembrava ancora una ragazza gli allungava una valigetta e dei documenti, senza dire una parola.

“A presto, mia cara” mormorò Erik, prendendo entrambi e infilando i secondi dentro la tasca interna del cappotto. In quelle parole c'era tutto il peso della consapevolezza reciproca che non ci sarebbe stato un “presto”.

Non aspettò una risposta, e del resto Mystica non sembrava intenzionata a dargliela. Erik lanciò un ultimo sguardo all'elmetto ancora posato sul sedile accanto al proprio, dove l'aveva intenzionalmente lasciato. Non riusciva a capire quale fosse l'emozione che provava in quel momento, ma era probabile che fosse nostalgia; per uno stupido oggetto. Chiuse la portiera dell'auto, senza guardarlo due volte.
Dentro di sé, ne era consapevole: non era l'oggetto la causa, ma quello che aveva rappresentato.

Si incamminò lungo i sentieri di ghiaia del parco, evitando di voltarsi indietro per vedere l'auto scomparire in fondo alla strada. Poteva sentire il metallo allontanarsi, quasi quanto il verde e il sole avvolgerlo intorno a sé. Ovviamente, su quegli elementi non aveva alcun potere. E non intendeva cominciare ad averne.
Si sedette su una delle panchine di pietra, ignorando ogni sedile di ferro battuto che incontrò per la propria strada, e posando la valigetta sulla superficie accanto a sé; la aprì, rivelando al suo interno un antico set di scacchi perfettamente conservato, i pezzi in avorio e la base di stoffa scarlatta. A lato della scacchiera, erano ben visibili le iniziali CX.

Aveva appena sollevato il re nero, che percepì un campanello che conosceva bene nella propria testa. Non era una sensazione invasiva, e a volte non era sicuro di poter dire che fosse davvero influenzata da Charles; aveva promesso di non leggergli più nella testa. D'altra parte, quell'affermazione proveniva ormai da un tempo da molto intangibile, surreale, per quanto doloroso.
Erik si tranquillizzò, quando, alzando gli occhi dalla scacchiera, vide la familiare sedia a rotelle diretta verso di lui; il campanello smise di suonare in quell'istante, quando la sua voce tornò ad essere l'unica nella testa di Erik. Nessun pericolo che Charles provasse ad infilarsi nei suoi pensieri.

“Credevo fosse un incontro informale” lo salutò Charles, quando fu abbastanza vicino, sul viale, da poter essere sentito. Aveva un sorriso caldo sulle labbra, e, a dimostrare le sue parole, indossava un completo in tweed grigio scuro con una camicia azzurra, e nessuna cravatta. “Sarebbe stato educato avvertirmi di adeguare il mio abbigliamento a quello di un boss malavitoso”.
“Buon pomeriggio anche a te, Charles” rispose Erik, ignorando completamente la sua frecciata, e posando il re nero per alzarsi e coprire la distanza che lo separava da Charles in pochi passi. Si chinò sulla sua sedia, lasciandogli un bacio sulla guancia che, notò ritraendosi, lasciò l'altro sorpreso, per quanto, pareva, in modo piacevole.
“Sei sceso dal lato corretto del letto, ne posso dedurre?” gli domandò, con la sua solita aria di cortesia; i suoi occhi chiedevano piuttosto, “cosa hai in mente?”. Erik si ritrovò semplicemente ad essere felice che quella privacy gli fosse riservata.
“Accade anche quando non ci sei tu ad assicurartene”.
“Erik... è successo qualcosa?”

La curiosità in Charles era diventata palpabile, a quel punto, ed Erik poteva sentirla pur essendo tutt'altro che un empatico. Si limitò a spostarsi dalla strada di Charles, indicandogli con il palmo aperto la scacchiera ancora sulla panca. “Vuoi..?”
“Non dimentico facilmente le domande che ti faccio, Erik, dovresti saperlo. Ignorarmi non ti servirà... comunque, sono qui per questo”.
“Non ho intenzione di evadere le tue domande” lo rassicurò Erik, tornando a sedersi accanto alla scacchiera, che Charles aveva ricominciato a preparare, accostando la sedia. “Anzi, sono dell'umore giusto per riflettere, oggi” continuò, dopo una pausa di incertezza.

Charles gli lanciò un'occhiata penetrante, ma poi tornò alla scacchiera. Era evidente che aveva deciso di lasciarlo parlare rispettando i suoi tempi. Era il suo gesto per comunicargli che non aveva intenzione di spingerlo a spiegarsi, né di fare domande, nonostante morisse dalla voglia di cercarsi da solo le risposte; se c'era una cosa che Erik apprezzava di Charles, era la calma e il rispetto con cui affrontava ogni loro discussione, pur degenerata che fosse.
Sospettava che non ce ne sarebbe stato bisogno, adesso. Lo sospettava: ma, con una punta di insicurezza che lo infastidiva più di quanto non volesse ammettere, non era certo di ricevere una totale comprensione nemmeno questa volta.

“Non mi domandi su che cosa?” chiese comunque, senza riuscire a trattenersi; anche pur sapendo che Charles l'aveva fatto, per lui.
Difatti, fu accolto con una smorfia. Il suo tono era impaziente, adesso. “Su che cosa hai riflettuto finora?”

Erik lasciò che Charles finisse di sistemare i pezzi, prima di rispondere. Si tolse gli occhiali da sole, sistemandoli in una tasca del cappotto, che sbottonò, con calma. Il parco, intorno a loro, era deserto, e nel silenziò che seguì soltanto il canto degli uccelli e il vento tra le foglie riempirono lo spazio che li separava.
Soltanto quando i loro occhi si incontrarono, in quelli di Charles la silenziosa, usuale domanda (il colore dei pezzi con cui intendeva giocare), Erik decise di aprire bocca.

“Ho pensato al cambiamento” mormorò.
“A volte devo cercare nella mia memoria il motivo per cui non ti leggo nel pensiero, per trattenermi dal farlo. In questo caso, scelgo il nero”.
“Per ogni volta che siamo stati bene insieme ce ne sono state mille in cui cercavamo di distruggerci l'uno con l'altro” continuò Erik, impassibile; stavolta, però, attirò l'attenzione di Charles, che non rispose e lasciò perdere la scacchiera. “Questo perché ho passato la vita a cercare di cambiare l'uomo”.
“Tu non volevi cambiarlo. Volevi distruggerlo”. Charles cambiò posizione alla sedia con la piccola leva sul bracciolo destro, in modo distratto. Sembrava non essere più a proprio agio.
“Il mondo è destinato a cambiare. Si evolve in continuazione... puoi dire con certezza che il destino dell'uomo sia quello di sopravvivere assieme al gene mutante?”

“Posso affermare che non spetta a te deciderlo, e neppure a me. Abbiamo scelto di non parlarne mai, nelle nostre uscite... perché lo vuoi fare ora?”
“Perché mi sono scoperto... restio alla rassegnazione”.
Erik poté vedere il corpo di Charles irrigidirsi ancora a quell'affermazione. “Posso considerare quest'incontro concluso?” Era sempre stato fermo nelle loro regole: spezzandone una, Erik poteva venire allontanato per settimane, mesi, anni.
“Ho sempre pensato che la cosa migliore fosse stare lontano da te” cominciò a spiegarsi, allora; non che avesse il timore che Charles potesse andare via. Ma, se l'avesse fatto, non avrebbe mai cercato di fermarlo. Scegliere per Charles non era mai spettato a lui. “Non sono uno sciocco. So quello che ti ho fatto, e che continuo a farti, in un certo senso”. Erik si sforzò, ma la sua occhiata alle gambe di Charles non passò inosservata. “Sinceramente, pensavo che la tua forza ti avrebbe permesso di dimenticare. Eppure, ogni primo sabato del mese, ti presenti qui per la nostra partita. Ho riflettuto molto, Charles...” Erik allungò la mano; Charles la prese con gentilezza nella propria, lasciando che riposassero entrambe nel proprio grembo. “Forse cambiare l'umanità è davvero un compito che non mi spetta più. Ho settantaquattro anni. Se qualcosa mi è concesso, è scegliere come spendere quelli che mi restano... la strada che vorrei prendere probabilmente non è rivoluzionaria come la precedente. Si tratta di ritiro, di pace, di condivisione. Ma io penso... sono convinto, che abbia uguale importanza”.

Il volto di Charles rimase imperscrutabile. I suoi occhi azzurri brillavano più che mai, ma Erik non seppe dire se il discorso lo stesse effettivamente raggiungendo; c'erano volte in cui nemmeno lui era in grado di leggere un uomo come Charles Xavier. Si era fatto scudo da così tante emozioni da non sembrare neppure umano, quando si trattava di reagire a qualcosa da livello personale.

“Dal momento che sei l'oggetto, la persona, verso quale il mio nuovo scopo tende, Charles, vorrei capire... se per te è lo stesso”.

A quel punto, Erik poté quasi sentir crollare la facciata che Charles si era imposto di mantenere sempre quando erano insieme.
Vederlo impallidire non era una cosa che capitava tutti i giorni. Vederlo abbassare lo sguardo nel bel mezzo di una conversazione era ancora più improbabile. Erik attese, pur stringendogli la mano incoraggiante, rifiutandosi parlare subito per non sembrare impaziente in modo eccessivo, sebbene si trattasse solo di apparenza. Lasciò invece che le proprie parole si adagiassero, con tutto il loro peso, nella mente di Charles per più di un minuto.

“Sto andando in Inghilterra. Penso che mi sposterò in Germania a settembre, e poi... non sono ancora sicuro. È certo che continuerò a viaggiare, vista la mia... situazione” continuò poi, lasciando sottinteso come fosse ancora un criminale ricercato a livello nazionale. “Spero non serva dirti quanto sia stata preziosa la tua compagnia in questi anni, Charles. E quanto vorrei continuare a... mantenere questo contatto. O approfondirlo”.
“Hai scelto le tue parole con cura, eh?” domandò Charles, parlando per la prima volta e facendolo con un tono insicuro che Erik si aspettava, ma che non gli piacque comunque. “Proprio l'Inghilterra...”
“Sono disposto ad ogni compromesso”. Che si traduceva con: andremo ovunque tu voglia.

Il loro sguardo si incrociò di nuovo, e la mano di Charles perse la presa su quella di Erik, come se il suo disagio stesse aumentando. Adesso, la sua confusione era più che visibile.

“Ho aspettato questo... per cinquantanni. Ho immaginato la nostra conversazione mille volte” mormorò. “E adesso che me lo chiedi, non so cosa rispondere”.
“Se mi è concesso far pendere la bilancia in mio favore...”
“Prego, non ti stanchi mai di farlo” lo interruppe Charles, sorridendo senza allegria.
“... dovessi separarmi da te un'altra volta, vivrei il resto della mia vita a metà. E non potrei più perdonarmi”.
“Erik, la mia risposta non dipende da quello che hai fatto... o che non hai fatto. Non avresti nulla da perdonarti”.
“E da cos'altro dipenderebbe? Se così non fosse, tu non avresti dubbi” mormorò Erik, talmente stanco e malinconico che Charles non riuscì a rispondere.

Rimasero in silenzio a scrutarsi, fino a quando Erik non cominciò a fissare la scacchiera con aria assente, in attesa, convinto che spingere Charles ad una risposta avrebbe soltanto prodotto l'effetto contrario. L'atmosfera tra loro era pesante, adesso, e chi poteva biasimare Charles? Per più di metà della sua vita Erik l'aveva trattato come un nemico, l'aveva messo al di sotto di ogni principio che sosteneva, e l'altro era rimasto al suo fianco comunque, come nessuno avrebbe fatto.
Che Erik l'amasse, era fuori da ogni dubbio; ma nemmeno il suo amore lo scusava quanto aveva fatto Charles in tutti quegli anni.

Mi serve più tempo.

Quando Erik sentì quelle parole nella propria testa, sollevò gli occhi su di lui, e sorrise, nel vedere l'aria smarrita e dispiaciuta di Charles. Cercando di non dare a vedere la propria delusione, scosse il capo, sorridendo, lasciando con un'ultima stretta la mano di Charles.

“Non era mia intenzione spaventarti” commentò. “Hai tutto il tempo che desideri”.
“Tu stai partendo...” obbiettò Charles, con voce flebile; quindi c'era davvero una ragione se non si era fidato a parlare.
“Non vado in nessun posto che tu non possa raggiungere”.

Erik si sollevò dalla panca di pietra, prendendo gli occhiali che aveva posato e indossandoli nuovamente. Non era sua abitudine correre rischi quando si trovava con Charles; per quanto la mente del telepate potesse nasconderli alla vista degli altri, lui era pur sempre un criminale e detestava abbassare la guardia.
Stavolta, quando si chinò sulla sedia di Charles, fu per lasciargli un bacio sulle labbra. Sapeva che quello era barare, sapeva di essere spregevole mentre lo faceva. Ma, come aveva detto Charles, far pendere la bilancia a suo favore era una delle cose che meglio gli riuscivano; sebbene, dentro di sé, sapesse che la risposta dell'altro era definita fin dal principio, e che quella sarebbe stata l'ultima volta. Trovava comunque adorabile l'incapacità di Charles di negargli qualcosa in modo definitivo.

“Ti lascio i miei scacchi” concluse, rimanendo a pochi centimetri dal suo volto, godendosi il familiare guizzo vivace di quegli occhi così azzurri.
“Non sono mai stati tuoi” replicò Charles, ricambiando il suo sorriso. “Li hai portati via dalla mia scrivania durante una tua visita nell'85”.
“Non ti sei mai lamentato al riguardo”.
“Erik, tu... sai dove devi cercarmi”.
“Sempre”.

Erik accarezzò piano la guancia dell'altro, barricando i suoi pensieri nell'antro più oscuro della sua mente. Si separò da Charles, facendo un passo indietro e lanciandogli un'ultima occhiata, prima di avviarsi lungo il viale da dov'era arrivato, lasciando la scacchiera sopra alla panca e il suo compagno accanto ad essa. Non si voltò per vedere se lo stava osservando, né si concesse a lasciarsi andare alla realtà, al fatto che l'aveva appena toccato e guardato per l'ultima volta.

Mentre aspettava il suo taxi all'uscita del parco, infilò una mano nella tasca dove aveva tenuto i documenti, e controllò che il biglietto per Londra fosse tra questi, assieme al passaporto.
Nonostante tutto, sperava che la sua mossa sulla scacchiera non passasse inosservata.

 

*

 

Kitty ed Ororo gli fecero strada nell'aeroporto, entrambe portando una valigia differente e con un'espressione tutt'altro che allegra. Anzi, parevano sospettose e sulla difensiva; cosa che non poteva che divertire Charles, in un certo senso.
Quando aveva trovato il biglietto aereo dentro la scacchiera, loro erano con lui nel suo studio, e a nessuna delle due era sfuggita la sua espressione sorpresa. A quel punto, lo avevano in qualche modo costretto a raccontare tutta la storia.
Un biglietto per Londra, sola andata, prenotato in data fissata un mese più tardi. Come se Erik avesse già previsto la sua indecisione, e avesse avuto dal principio l'intenzione di lasciargli del tempo in più.

Ovviamente, né Kitty né Ororo credevano che quella fosse una buona idea. Non avevano mai conosciuto un tempo in cui Magneto non si schierava tra i loro nemici -e probabilmente le cose così sarebbero rimaste-. Nessuno dei ragazzi era voluto venire oltre loro, e tutti gli insegnanti della scuola erano più o meno irritati da quella decisione. Charles, d'altro canto, era stato categorico.
Nell'istante in cui Erik era scomparso di nuovo dalla sua vita, era stato sicuro di volerlo seguire.

“Qui è libero” commentò Ororo, dopo aver squadrato in lungo e in largo tutta la hall principale, facendo poi un cenno a Kitty. “Andiamo a controllare ai metal detector. Professore, ci vorrà un minuto... non si muova. Kitty, vai da quella parte”. Decise le direzioni, le ragazze sparirono, portando con sé le valigie.

Charles sorrise, rimasto solo, rimettendo in moto il tempo come desiderava, e in quel momento Erik apparve al suo fianco, quasi ci fosse sempre stato.
Si lanciarono una lunga occhiata, e Charles non poté fare a meno di farsi spuntare un gran sorriso sulla faccia, quando vide che Erik era vestito altrettanto accuratamente come quel giorno al parco, quasi la ritenesse un'occasione solenne. Non che non lo fosse, naturalmente.

“Credevo fossi andato in Inghilterra” commentò, seguendolo quando Erik gli fece strada con un cenno, allontanando entrambi sia da Ororo che da Kitty.
“Ed è quello che intendo fare. Dovevo sistemare delle cose qui in America, prima di partire”.
Charles rifletté per un momento, prima di chiederlo, ma capì che d'ora in poi non avrebbe potuto nascondere un granché ad Erik, pena la fine di una convivenza pacifica, conoscendoli. Perciò, parlò chiaro e tondo, anche se evitò di guardare il suo viso mentre lo faceva. “Hai ucciso qualcuno?”
“No” lo rassicurò Erik, non troppo in fretta, con la calma di qualcuno che era preparato a quella domanda. “Non sono così stupido da mettere a rischio tutto, ora che sono riuscito a farti salire su quell'aereo. Il cielo sa quanto puoi essere testardo”.
“Non sono affatto sull'aereo. Non ancora” osservò Charles, con una risatina, palesemente sollevato e cercando di scherzare; provocò in Erik soltanto un sussulto spaventato, con un spasmo della mano, come se volesse comandare alla sedia a rotelle di restare accanto a sé. “Sarà un viaggio lungo” continuò allora, schiarendosi la voce, mentre si mettevano in fila per il passaggio al gate.
“Oh sì. E tu hai portato la scacchiera per questa ragione, ma è con le tue allieve e, presumo, non vuoi rischiare per riprenderla, visto che le hai lasciate andare con... tutte le tue cose”.
“Ho tanto tempo per cercarne altre. Sono solo cose”.

Stavolta, Charles non si lasciò sfuggire il mezzo sorriso di Erik, che finalmente si rilassò al suo fianco. Pareva essere stato davvero convinto che sarebbe scappato da un momento all'altro, pensiero ridicolo quanto, in effetti, anche troppo realistico.
Stavolta, però, Charles era piuttosto sicuro che solo una catastrofe avrebbe potuto farlo spostare da lì, esattamente quel punto dove voleva trovarsi più di ogni altra cosa al mondo. Infilò la mano in quella di Erik, e lui la strinse forte nella sua quasi all'istante; forse fu quel contatto così appassionato, ma per un breve attimo a Charles parve di sentire i pensieri di Erik anche se non li aveva cercati, trovandoci quello che non si sarebbe mai aspettato di trovare nella sua mente: la pace.

 














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