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Autore: Spartaco    13/06/2016    0 recensioni
Qualcosa si mosse nell’ombra. “Hohoho” rise Jack, una risata abbondante come abbondante era il premio che si aspettava “Come sai che Jack è passato di qua?” aggiunse con la sua voce stridula. River ebbe solo il tempo di aprire la bocca per rispondere, ma venne preceduta da lui stesso: “perché sono tutti morti!”.
Con un gesto accese la sega e, ridendo, irruppe nella stanza successiva.

Un gruppo di ragazzi si butta in un'avventura ai confini del soprannaturale.
Imprigionati in una misteriosa casa dalla quale sembra impossibile uscire, si ritroveranno non solo a dover risolvere il mistero, ma anche a confrontarsi con se stessi e le proprie paure.
Riusciranno a sopravvivere alla notte e a trovare in loro il coraggio di cambiare?
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Episodio 4 – Presentable Liberty

 

 

 

River cercò immediatamente la mano di Jack, e stringendola si mise davanti a lui, in modo da avere le spalle protette. Jack le mise l’altra mano sulla spalla: “Cosa facciamo? Cosa facciamo?” disse guardando davanti a sé. In quella oscurità riuscirono ad individuare Evan solo quando  sussurrò “seguitemi” e, basandosi sul suo senso dell’orientamento acquisito in anni di esperienza, iniziò a dirigersi verso la stanza di Wes, addentrandosi nei corridoi. Era buio pesto, nessuna fonte di luce sembrava funzionare, e ci volle qualche minuto perché i loro occhi si abituassero all’oscurità. Eppure, appena prima di non vedere più niente, ad Evan era sembrato di intravedere qualcosa sul soffitto, come fosse un denso fumo nero, ma decise di non dire nulla. Non era sicuro di ciò che avesse visto, e non c’era alcun bisogno di peggiorare la già precaria situazione. River, anche in un momento del genere, si sentiva in qualche modo sollevata. Le era già capitato di trovarsi in situazioni di emergenza, come quando anni prima si era trovata in un deserto montuoso con un gruppo di amici, e avevano perso di vista la loro guida. Ognuno aveva messo a disposizione le proprie qualità, si erano divisi in gruppi ed avevano mantenuto la calma ritrovando poi la strada di casa. Camminando verso il pick up, River non aveva potuto fare a meno di dire ad alta voce: “sono contenta di essere qui con voi”. Aveva fatto un passo indietro, affidando a quelle persone la sua vita. Aveva avuto un’intuizione: fare finta di potersela cavare senza aiuto quando non era così può diventare pericoloso, così aveva accettato ed ammesso di non avere capacità che potessero essere d’aiuto in quel frangente, e si era sentita automaticamente protetta. Quel momento aveva risvegliato in lei la stessa sensazione familiare: aveva il cuore a mille, ma era con persone di cui si fidava. Jack non le aveva mai lasciato la mano, e avrebbe seguito Evan ovunque. Mentre camminavano, lentamente le torce ricominciarono a funzionare, ma le ricetrasmittenti e le telecamere portatili non davano ancora segni di vita.

“Sapete” disse Jack ad un certo punto, rompendo il silenzio “io..a casa non ho nessuno con cui parlare. Ed in effetti, neanche fuori sono molte le persone con cui vado d’accordo. Ho sempre questo maledetto mondo nella mia testa che si fa continuamente strada per uscire e finisce per sovrastare quello che c’è fuori. Per cui..non sembra il momento più adatto, ma..grazie per essere qui. Voi potreste pensare che io sia un tipo forte ma..non lo sono, sono un tipo come tutti gli altri. Non ho niente di speciale. Quindi..grazie.” River guardò Jack, non l’aveva mai visto così serio. Il suo tono di voce era sempre quello ed i suoi occhi sempre vivaci, ma c’era in quel momento qualcosa di diverso in lui. Doveva avergli richiesto un grande sforzo dire quelle poche frasi, così gli sorrise e strinse la sua mano più forte. “Non preoccuparti di questo, giovanotto” disse Evan girandosi verso di lui. Sorridendo, continuò a guidarli verso l’uscita, sentendosi più che mai responsabile dell’intero gruppo. Eppure questo per lui non era un peso. Certo era spaventato, come sempre quando certi vividi ricordi si affacciavano alla sua mente, ma questa confessione gli aveva dato energia, che cercava di mantenere ripetendosi “è il mio lavoro. Nessuno può toccarmi. Mi chiamano il pirata del paranormale. Questo è il mio campo”.

 Giunti al momento di attraversare una delle stanze interne della casa per raggiungere il lato opposto del piano, dove si trovavano le scale per scendere,  si fermarono tutti e tre sulla soglia. Doveva essere la stanza più grande della casa dopo l’atrio all’ingresso, e la quasi totale assenza di mobili la faceva sembrare enorme. I soffitti erano molto alti, e due lampadari di cristallo ondeggiavano silenziosamente sul soffitto. “Entrare qui sembra una pessima idea” disse Jack guardando in alto. Il pavimento, a differenza del resto della casa, era in legno e scricchiolava ad ogni loro passo: più cercavano di essere silenziosi più sembravano attirare l’attenzione su di loro. Erano ormai quasi arrivati alla porta di uscita quando sentirono dei rumori provenire dal piano di sopra, un alito di vento dal tono stranamente umano..“cos’è questo suono cos’è questo suono??” Jack afferrò River per la vita, impedendole di muoversi, mentre Evan continuava a camminare, allungando la mano per tirare la maniglia della porta. River non aveva la minima intenzione di lasciare l’abbraccio sicuro di Jack, ma Evan era il loro punto di riferimento, la loro guida, e senza di lui non sarebbero potuti andare da nessuna parte. Cercò di fermarlo - “Evan!” – ed in quel momento un frammento di legno cadde dal soffitto, a pochi centimetri da lui. Quando si avvicinarono il ragazzo si era seduto a terra, e videro che stava tremando, ed era sudato fradicio. Quasi a cercare conforto, la sua mano strinse la gamba di River. Era insanguinata. Una scheggia di legno appuntita l’aveva colpito al braccio, ed anche se la ferita non sembrava profonda sanguinava copiosamente. “Come ti senti?” disse River accovacciandosi e pensando a cosa poter usare per pulire il taglio “sto bene, sto bene..torniamo da Wes..” disse Evan con il filo di voce che gli restava.

 

Wes, nonostante ricevesse solo un fastidioso rumore elettrico dalla sua radio, non aveva smesso di cercare di comunicare con gli altri, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Seduto sulla sua sedia di fronte ad i monitor spenti, non aveva modo di sapere in che situazione fossero i suoi compagni. Per evitare di continuare a guardarsi le spalle ad ogni movimento d’aria si sedette per terra, spalle al muro, e si mise in ascolto alla ricerca di voci familiari. Non era prudente muoversi da lì da solo, nessuno avrebbe saputo dove era andato, ed oltre a cercare di fare ripartire i computer, stare seduto lì era tutto ciò che potesse fare. Sospirare ed aspettare, nel silenzio della notte.

 

 

Jack indossò di nuovo la sua felpa blu, ora sporca di sangue. “Questo è quello che possiamo fare per ora” disse River studiando il braccio sinistro di Evan. Le sue conoscenze di primo soccorso, acquisite osservando il lavoro dei suoi colleghi in ospedale, si erano rivelate utili. “Wesley indossa sempre una fascia di stoffa annodata al polso, per un qualche motivo estetico..” rispose Evan accennando un sorriso, “una ragione in più per andarlo a recuperare” aggiunse Jack sistemandosi il cappello. Avrebbero voluto rimanere in quella stanza qualche minuto per riprendere fiato, ma sapevano tutti che non sarebbe stata una buona idea. Si guardarono negli occhi: loro tre erano tutto quello che avevano in quel momento. Non ne erano certi, ma doveva ormai essere tarda serata e qualche stella faceva timidamente capolino, illuminando debolmente il pavimento scuro. “Credo sia meglio se proseguiamo” disse River. Jack aiutò Evan ad alzarsi ed uscirono dal salone trovandosi in un altro corridoio, apparentemente identico al precedente. Alla seconda svolta a destra capirono che qualcosa non andava: sembrava stessero girando in tondo o meglio, che il corridoio si stesse ripiegando su se stesso in un cerchio infinito. Dopo un tempo indefinibile raggiunsero la fine del passaggio, e Jack aprì la porta aspettandosi di aver raggiunto, finalmente, la rampa di scale. Quello che si trovarono davanti invece li fece fermare, ancora una volta senza parole. La porta dava su un altro corridoio, identico. La disperazione stava prendendo il sopravvento, ma non ebbero neanche il tempo di pensare che sentirono un rumore sordo alle loro spalle, come qualcosa fosse caduto dal soffitto. No, non caduto giù, saltato giù. “Mai guardarsi indietro” pensò istintivamente River, ma non poté fare a meno di buttare lo sguardo oltre la spalla di Jack. Una donna pallida, con un logoro abito azzurro, li fissava con la testa reclinata su un lato, gli occhi sbarrati erano tutto ciò che potevano vedere del suo viso, coperto da lunghi capelli neri e lisci. Jack urlò ed Evan spinse i compagni al di là della porta, chiudendola dietro di lui. Non riusciva a controllare il tremito delle sue mani, con cui cercava di tenere chiusa la porta, come se delle assi di legno potessero essere di ostacolo ad uno spirito. “Wes perché, perché mi hai portato qui” pensava “io ne ero uscito..perché..”. River questa volta non era riuscita a trattenere le lacrime e cercava inutilmente di riprendere fiato, mentre Jack le stava accanto, visibilmente scosso. Ansimava ed i suoi grandi occhi azzurri erano spalancati a fissare nel vuoto. Poco più avanti sulla destra, nel silenzio interrotto solo dai loro respiri, una porta si aprì da sola, lentamente. Non si era spalancata, solo aperta di una decina di centimetri, come non fosse stata chiusa adeguatamente e la serratura fosse saltata. Rivolsero tutti lo sguardo verso quella fenditura nera. Dall’interno proveniva il pianto di un neonato.

 

 

“Dove siamo?” chiese Mark. Stavano camminando da svariati minuti per corridoi che sembravano tutti uguali. Kit aveva preso il comando e stava cercando di guidare il gruppo verso l’uscita ricordandosi ogni svolta che avevano preso all’andata, anche non sembravano fare molti progressi. Era bastato qualche potente scossone di Mark alle torce perché riprendessero a funzionare, e se prima Kit non aveva una grande opinione di lui, dopo quanto era accaduto notò come il ragazzo fosse in grado di mantenere la concentrazione, e più di una volta le aveva suggerito la strada giusta. Ken, invece, non aveva detto una sola parola da quando si trovavano in quella situazione. “Beh? Certo che potresti anche aiutarci, ce l’hai tu la mappa, no?” sbottò Kit ad un certo punto, ma Ken ancora non rispose, tenendo lo sguardo basso. “Sto parlando con te!” proseguì, irritandosi per la sua mancanza di collaborazione. “Dammi tempo, ok?” rispose allora Ken alzando la voce “Io..potrò sembrare anche grande e grosso ma non sono forte, né coraggioso.. la mia fama, il mio lavoro..sono dove sono solo perché ho trovato le persone giuste con cui collaborare..ma ora tutti si aspettano grandi cose da me, e io non ho niente! Tutto questo non viene da me! Non so come fare, non so cosa vuole la gente da me!” Ken, con gli occhi spalancati e lucidi, rimase a fissare i due compagni. Kit non poteva accettare una cosa del genere. Ken era alto, forte, muscoloso. Come poteva non avere un briciolo di stima in se stesso? Cosa lo aveva condotto lì? Non aveva avuto nemmeno il coraggio di dire no ad un piccolo invadente quale era Mark, cosa pensava che avrebbe ottenuto in un posto del genere? Kit aveva fatto un passo verso di lui per costringerlo ad affrontare la realtà dei fatti quando Mark prese la parola. “Mi dispiace Ken.” disse dolcemente “non immaginavo..” “lascia stare” Ken aprì la mappa e dopo averle dato una rapida occhiata indicò la strada.

Mentre proseguivano il loro cammino in silenzio, Ken in testa e Kit che controllava ogni sua svolta, passarono accanto ad uno sgabuzzino da cui proveniva una fievole luce. Attirato da questa stranezza Mark si fermò per affacciarsi alla porta aperta, e vide una torcia abbandonata che giaceva sul pavimento. Pensò potesse essere utile, ed entrò velocemente nella stanza.

Ma la porta si chiuse dietro di lui.

 

 

Mark si girò e cercò di aprirla, ma la maniglia non si mosse di un millimetro, quasi fosse stata finta. Iniziò a battere i pugni sulla porta, con tutta la sua forza dei suoi muscoli, ma non successe nulla. Guardò fuori dalla finestrella che si apriva nella parte superiore della porta e vide solo un corridoio deserto. Eppure era certo che Kit e Ken lo stessero precedendo di qualche metro..  “Kit! Ken mi senti? Dove sei finito?!”. Pensò che fossero corsi via per cercare aiuto e si guardò intorno per la prima volta, ansimando. La stanza era minuscola, non più grande di un ascensore. Al suo interno c’erano un tavolo di legno scuro ed una brandina. Mark aveva non più di un paio di metri quadri per muoversi, ed una stretta apertura nell’angolo in alto a destra sembrava dare sull’esterno. Ma era troppo in alto per essere raggiunta e troppo piccola anche solo per farci passare una mano. Tutto era stranamente silenzioso. Mark aspettò per quelli che gli sembrarono minuti interminabili, finché improvvisamente sentì la voce di Ken, chiara e forte, che lo chiamava. “Io vi sento! Ken!” Mark non capiva. Sembrava che la voce provenisse da pochi centimetri di distanza, come se Ken fosse appena al di là della porta, ma non c’era. Mark poteva vedere chiaramente il corridoio dall’apertura, ma il suo amico non c’era.  “Mark..Mark io spero tu sia qui da qualche parte..Mark? Mi dispiace amico..” -la voce di Ken si allontanò. “NO! NON ANDARE VIA, KEN! KEN! TI SENTO!” “è inutile..non credo sia qui..anche se non so dove possa essersene andato da solo” commentò Kit. Nessuno l’aveva visto entrare in quello sgabuzzino.  “No! Sono qui, ma non posso parlare!! Ken! ....Siete lì?” improvvisamente, silenzio. “Tutto questo non ha senso.”

Mark, nella penombra, si sedette sulla brandina, tenendosi la testa tra le mani ed affondando le dita nei folti capelli corvini. Il senso di solitudine, complice il buio, si faceva sempre più forte, pesante, insopportabile. La sua mente iniziò a vagare, sfiorando tutto ciò che gli era capitato negli ultimi anni. Pensò a sua madre ed a suo fratello, che aveva dovuto lasciare per trasferirsi in un’altra città. Certo, il lavoro lì andava molto meglio, ma non era abituato a stare lontano da loro, specialmente da suo fratello minore. Erano sempre stati inseparabili, anche e specialmente dopo il divorzio dei loro genitori. I loro genitori.. “Papà..a volte vorrei che fossi qui per vedermi” mormorò tra sé e sé, una lacrima gli solcò il viso. Suo padre era morto anni prima, di tumore. Ricordava ancora quando gli aveva dato la notizia della sua malattia, Mark era solo un bambino all’epoca e suo padre, con il distacco tipico del suo passato da militare, gli fece semplicemente leggere il referto medico, senza dirgli una parola. Ora bastava che Mark abbassasse lo sguardo per ricordarsi di quella sofferenza. Una cicatrice verticale, lunga più di venti centimetri, segnava il suo corpo muscoloso, dal petto all’ombelico. Era stato operato per lo stesso male un paio di anni prima, e sembrava che lui, per ora, ce l’avesse fatta. Aveva dovuto vendere tutto ciò che possedeva, mobili compresi, per potersi permettere quell’operazione. Tutto ciò che gli era rimasto erano il suo fedele computer ed un divano. Ma ce l’aveva fatta. Fino a quel momento almeno. Mark si alzò, gli occhi annebbiati dalle lacrime, e si diresse verso la porta, per guardare fuori ancora una volta, verso il corridoio deserto dove aveva sentito per l’ultima volta la voce del suo amico.

 

 

 

 

EPISODIO 4

-FINE -

 

 

 

 

 

  
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