Episodio
4 – Presentable Liberty
River
cercò immediatamente la mano di Jack, e stringendola si mise
davanti a lui, in modo da avere le spalle protette. Jack le mise
l’altra mano
sulla spalla: “Cosa facciamo? Cosa facciamo?” disse
guardando davanti a sé. In
quella oscurità riuscirono ad individuare Evan solo quando sussurrò
“seguitemi” e, basandosi sul suo
senso dell’orientamento acquisito in anni di esperienza,
iniziò a dirigersi
verso la stanza di Wes, addentrandosi nei corridoi. Era buio pesto,
nessuna
fonte di luce sembrava funzionare, e ci volle qualche minuto
perché i loro
occhi si abituassero all’oscurità. Eppure, appena
prima di non vedere più
niente, ad Evan era sembrato di intravedere qualcosa sul soffitto, come
fosse
un denso fumo nero, ma decise di non dire nulla. Non era sicuro di
ciò che
avesse visto, e non c’era alcun bisogno di peggiorare la
già precaria
situazione. River, anche in un momento del genere, si sentiva in
qualche modo
sollevata. Le era già capitato di trovarsi in situazioni di
emergenza, come
quando anni prima si era trovata in un deserto montuoso con un gruppo
di amici,
e avevano perso di vista la loro guida. Ognuno aveva messo a
disposizione le
proprie qualità, si erano divisi in gruppi ed avevano
mantenuto la calma
ritrovando poi la strada di casa. Camminando verso il pick up, River
non aveva
potuto fare a meno di dire ad alta voce: “sono contenta di
essere qui con voi”.
Aveva fatto un passo indietro,
affidando a quelle persone la sua vita. Aveva avuto
un’intuizione: fare finta
di potersela cavare senza aiuto quando non era così
può diventare pericoloso,
così aveva accettato ed ammesso di non avere
capacità che potessero essere
d’aiuto in quel frangente, e si era sentita automaticamente
protetta. Quel
momento aveva risvegliato in lei la stessa sensazione familiare: aveva
il cuore
a mille, ma era con persone di cui si fidava. Jack non le aveva mai
lasciato la
mano, e avrebbe seguito Evan ovunque. Mentre camminavano, lentamente le
torce
ricominciarono a funzionare, ma le ricetrasmittenti e le telecamere
portatili
non davano ancora segni di vita.
“Sapete”
disse Jack ad un certo punto, rompendo il silenzio “io..a
casa non ho nessuno con cui parlare. Ed in effetti, neanche fuori sono
molte le
persone con cui vado d’accordo. Ho sempre questo maledetto
mondo nella mia
testa che si fa continuamente strada per uscire e finisce per
sovrastare quello
che c’è fuori. Per cui..non sembra il momento
più adatto, ma..grazie per essere
qui. Voi potreste pensare che io sia un tipo forte ma..non lo sono,
sono un
tipo come tutti gli altri. Non ho niente di speciale.
Quindi..grazie.” River
guardò Jack, non l’aveva mai visto così
serio. Il suo tono di voce era sempre
quello ed i suoi occhi sempre vivaci, ma c’era in quel
momento qualcosa di
diverso in lui. Doveva avergli richiesto un grande sforzo dire quelle
poche
frasi, così gli sorrise e strinse la sua mano più
forte. “Non preoccuparti di
questo, giovanotto” disse Evan girandosi verso di lui.
Sorridendo, continuò a
guidarli verso l’uscita, sentendosi più che mai
responsabile dell’intero
gruppo. Eppure questo per lui non era un peso. Certo era spaventato,
come
sempre quando certi vividi ricordi si affacciavano alla sua mente, ma
questa
confessione gli aveva dato energia, che cercava di mantenere
ripetendosi “è il
mio lavoro. Nessuno può toccarmi. Mi chiamano il pirata del
paranormale. Questo
è il mio campo”.
Giunti al momento di
attraversare una delle stanze interne della casa per raggiungere il
lato
opposto del piano, dove si trovavano le scale per scendere, si fermarono tutti e tre
sulla soglia. Doveva
essere la stanza più grande della casa dopo
l’atrio all’ingresso, e la quasi
totale assenza di mobili la faceva sembrare enorme. I soffitti erano
molto
alti, e due lampadari di cristallo ondeggiavano silenziosamente sul
soffitto. “Entrare
qui sembra una pessima idea” disse Jack guardando in alto. Il
pavimento, a
differenza del resto della casa, era in legno e scricchiolava ad ogni
loro
passo: più cercavano di essere silenziosi più
sembravano attirare l’attenzione
su di loro. Erano ormai quasi arrivati alla porta di uscita quando
sentirono
dei rumori provenire dal piano di sopra, un alito di vento dal tono
stranamente
umano..“cos’è questo suono
cos’è questo suono??” Jack
afferrò River per la
vita, impedendole di muoversi, mentre Evan continuava a camminare,
allungando la
mano per tirare la maniglia della porta. River non aveva la minima
intenzione
di lasciare l’abbraccio sicuro di Jack, ma Evan era il loro
punto di
riferimento, la loro guida, e senza di lui non sarebbero potuti andare
da
nessuna parte. Cercò di fermarlo -
“Evan!” – ed in quel momento un frammento
di
legno cadde dal soffitto, a pochi centimetri da lui. Quando si
avvicinarono il
ragazzo si era seduto a terra, e videro che stava tremando, ed era
sudato
fradicio. Quasi a cercare conforto, la sua mano strinse la gamba di
River. Era
insanguinata. Una scheggia di legno appuntita l’aveva colpito
al braccio, ed
anche se la ferita non sembrava profonda sanguinava copiosamente.
“Come ti
senti?” disse River accovacciandosi e pensando a cosa poter
usare per pulire il
taglio “sto bene, sto bene..torniamo da Wes..”
disse Evan con il filo di voce
che gli restava.
Wes,
nonostante ricevesse solo un
fastidioso rumore elettrico dalla sua radio, non aveva smesso di
cercare di
comunicare con gli altri, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Seduto
sulla
sua sedia di fronte ad i monitor spenti, non aveva modo di sapere in
che
situazione fossero i suoi compagni. Per evitare di continuare a
guardarsi le
spalle ad ogni movimento d’aria si sedette per terra, spalle
al muro, e si mise
in ascolto alla ricerca di voci familiari. Non era prudente muoversi da
lì da
solo, nessuno avrebbe saputo dove era andato, ed oltre a cercare di
fare
ripartire i computer, stare seduto lì era tutto
ciò che potesse fare. Sospirare
ed aspettare, nel silenzio della notte.
Jack
indossò di nuovo la sua felpa blu, ora sporca di sangue.
“Questo è quello che
possiamo fare per ora” disse River studiando il braccio
sinistro di Evan. Le
sue conoscenze di primo soccorso, acquisite osservando il lavoro dei
suoi
colleghi in ospedale, si erano rivelate utili. “Wesley
indossa sempre una
fascia di stoffa annodata al polso, per un qualche motivo
estetico..” rispose
Evan accennando un sorriso, “una ragione in più
per andarlo a recuperare”
aggiunse Jack sistemandosi il cappello. Avrebbero voluto rimanere in
quella
stanza qualche minuto per riprendere fiato, ma sapevano tutti che non
sarebbe
stata una buona idea. Si guardarono negli occhi: loro tre erano tutto
quello
che avevano in quel momento. Non ne erano certi, ma doveva ormai essere
tarda
serata e qualche stella faceva timidamente capolino, illuminando
debolmente il
pavimento scuro. “Credo sia meglio se proseguiamo”
disse River. Jack aiutò Evan
ad alzarsi ed uscirono dal salone trovandosi in un altro corridoio,
apparentemente identico al precedente. Alla seconda svolta a destra
capirono
che qualcosa non andava: sembrava stessero girando in tondo o meglio,
che il corridoio si stesse
ripiegando su se
stesso in un cerchio infinito. Dopo un tempo indefinibile raggiunsero
la fine
del passaggio, e Jack aprì la porta aspettandosi di aver
raggiunto, finalmente,
la rampa di scale. Quello che si trovarono davanti invece li fece
fermare,
ancora una volta senza parole. La porta dava su un altro corridoio,
identico.
La disperazione stava prendendo il sopravvento, ma non ebbero neanche
il tempo
di pensare che sentirono un rumore sordo alle loro spalle, come
qualcosa fosse
caduto dal soffitto. No, non caduto giù, saltato
giù. “Mai guardarsi indietro”
pensò istintivamente River, ma non poté fare a
meno di buttare lo sguardo oltre la spalla di Jack. Una donna pallida,
con un
logoro abito azzurro, li fissava con la testa reclinata su un lato, gli
occhi
sbarrati erano tutto ciò che potevano vedere del suo viso,
coperto da lunghi
capelli neri e lisci. Jack urlò ed Evan spinse i compagni al
di là della porta,
chiudendola dietro di lui. Non riusciva a controllare il tremito delle
sue
mani, con cui cercava di tenere chiusa la porta, come se delle assi di
legno
potessero essere di ostacolo ad uno spirito. “Wes
perché, perché mi hai portato
qui” pensava “io ne ero
uscito..perché..”. River questa volta non era
riuscita
a trattenere le lacrime e cercava inutilmente di riprendere fiato,
mentre Jack
le stava accanto, visibilmente scosso. Ansimava ed i suoi grandi occhi
azzurri
erano spalancati a fissare nel vuoto. Poco più avanti sulla
destra, nel
silenzio interrotto solo dai loro respiri, una porta si aprì
da sola,
lentamente. Non si era spalancata, solo aperta di una decina di
centimetri,
come non fosse stata chiusa adeguatamente e la serratura fosse saltata.
Rivolsero tutti lo sguardo verso quella fenditura nera.
Dall’interno proveniva
il pianto di un neonato.
“Dove
siamo?” chiese Mark. Stavano camminando da svariati minuti
per
corridoi che sembravano tutti uguali. Kit aveva preso il comando e
stava
cercando di guidare il gruppo verso l’uscita ricordandosi
ogni svolta che
avevano preso all’andata, anche non sembravano fare molti
progressi. Era
bastato qualche potente scossone di Mark alle torce perché
riprendessero a
funzionare, e se prima Kit non aveva una grande opinione di lui, dopo
quanto
era accaduto notò come il ragazzo fosse in grado di
mantenere la
concentrazione, e più di una volta le aveva suggerito la
strada giusta. Ken, invece,
non aveva detto una sola parola da quando si trovavano in quella
situazione. “Beh?
Certo che potresti anche aiutarci, ce l’hai tu la mappa,
no?” sbottò Kit ad un
certo punto, ma Ken ancora non rispose, tenendo lo sguardo basso.
“Sto parlando
con te!” proseguì, irritandosi per la sua mancanza
di collaborazione. “Dammi
tempo, ok?” rispose allora Ken alzando la voce
“Io..potrò sembrare anche grande
e grosso ma non sono forte, né coraggioso.. la mia fama, il
mio lavoro..sono
dove sono solo perché ho trovato le persone giuste con cui
collaborare..ma ora
tutti si aspettano grandi cose da me, e io non ho niente! Tutto questo
non
viene da me! Non so come fare, non so cosa vuole la gente da
me!” Ken, con gli
occhi spalancati e lucidi, rimase a fissare i due compagni. Kit non
poteva
accettare una cosa del genere. Ken era alto, forte, muscoloso. Come
poteva non
avere un briciolo di stima in se stesso? Cosa lo aveva condotto
lì? Non aveva
avuto nemmeno il coraggio di dire no ad un piccolo invadente quale era
Mark,
cosa pensava che avrebbe ottenuto in un posto del genere? Kit aveva
fatto un
passo verso di lui per costringerlo ad affrontare la realtà
dei fatti quando
Mark prese la parola. “Mi dispiace Ken.” disse
dolcemente “non immaginavo..”
“lascia stare” Ken aprì la mappa e dopo
averle dato una rapida occhiata indicò
la strada.
Mentre
proseguivano il loro cammino in silenzio, Ken in testa e Kit
che controllava ogni sua svolta, passarono accanto ad uno sgabuzzino da
cui
proveniva una fievole luce. Attirato da questa stranezza Mark si
fermò per
affacciarsi alla porta aperta, e vide una torcia abbandonata che
giaceva sul
pavimento. Pensò potesse essere utile, ed entrò
velocemente nella stanza.
Ma
la
porta si chiuse dietro di lui.
Mark
si girò e cercò di aprirla,
ma la maniglia non si mosse di un millimetro, quasi fosse stata finta.
Iniziò a
battere i pugni sulla porta, con tutta la sua forza dei suoi muscoli,
ma non
successe nulla. Guardò fuori dalla finestrella che si apriva
nella parte
superiore della porta e vide solo un corridoio deserto. Eppure era
certo che Kit
e Ken lo stessero precedendo di qualche metro..
“Kit! Ken mi senti? Dove sei
finito?!”. Pensò che fossero corsi via per
cercare aiuto e si guardò intorno per la prima volta,
ansimando. La stanza era
minuscola, non più grande di un ascensore. Al suo interno
c’erano un tavolo di
legno scuro ed una brandina. Mark aveva non più di un paio
di metri quadri per
muoversi, ed una stretta apertura nell’angolo in alto a
destra sembrava dare
sull’esterno. Ma era troppo in alto per essere raggiunta e
troppo piccola anche
solo per farci passare una mano. Tutto era stranamente silenzioso. Mark
aspettò
per quelli che gli sembrarono minuti interminabili, finché
improvvisamente
sentì la voce di Ken, chiara e forte, che lo chiamava.
“Io vi sento! Ken!” Mark
non capiva. Sembrava che la voce provenisse da pochi centimetri di
distanza,
come se Ken fosse appena al di là della porta, ma non c’era. Mark poteva vedere
chiaramente il corridoio
dall’apertura, ma il suo amico non
c’era. “Mark..Mark
io spero tu sia qui da qualche
parte..Mark? Mi dispiace amico..” -la voce di Ken si
allontanò. “NO! NON ANDARE
VIA, KEN! KEN! TI SENTO!” “è
inutile..non credo sia qui..anche se non so dove
possa essersene andato da solo” commentò Kit.
Nessuno l’aveva visto entrare in
quello sgabuzzino. “No!
Sono qui, ma non
posso parlare!! Ken! ....Siete lì?”
improvvisamente, silenzio. “Tutto questo
non ha senso.”
Mark,
nella penombra, si sedette sulla brandina, tenendosi la testa tra le
mani ed
affondando le dita nei folti capelli corvini. Il senso di solitudine,
complice
il buio, si faceva sempre più forte, pesante,
insopportabile. La sua mente
iniziò a vagare, sfiorando tutto ciò che gli era
capitato negli ultimi anni.
Pensò a sua madre ed a suo fratello, che aveva dovuto
lasciare per trasferirsi
in un’altra città. Certo, il lavoro lì
andava molto meglio, ma non era abituato
a stare lontano da loro, specialmente da suo fratello minore. Erano
sempre
stati inseparabili, anche e specialmente dopo il divorzio dei loro
genitori. I
loro genitori.. “Papà..a volte vorrei che fossi
qui per vedermi” mormorò tra sé
e sé, una lacrima gli solcò il viso. Suo padre
era morto anni prima, di tumore.
Ricordava ancora quando gli aveva dato la notizia della sua malattia,
Mark era
solo un bambino all’epoca e suo padre, con il distacco tipico
del suo passato
da militare, gli fece semplicemente leggere il referto medico, senza
dirgli una
parola. Ora bastava che Mark abbassasse lo sguardo per ricordarsi di
quella
sofferenza. Una cicatrice verticale, lunga più di venti
centimetri, segnava il suo
corpo muscoloso, dal petto all’ombelico. Era stato operato
per lo stesso male
un paio di anni prima, e sembrava che lui, per ora, ce
l’avesse fatta. Aveva
dovuto vendere tutto ciò che possedeva, mobili compresi, per
potersi permettere
quell’operazione. Tutto ciò che gli era rimasto
erano il suo fedele computer ed
un divano. Ma ce l’aveva fatta. Fino a quel momento almeno.
Mark si alzò, gli
occhi annebbiati dalle lacrime, e si diresse verso la porta, per
guardare fuori
ancora una volta, verso il corridoio deserto dove aveva sentito per
l’ultima
volta la voce del suo amico.
EPISODIO 4
-FINE -