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Autore: Matih Bobek    14/06/2016    2 recensioni
E ora ci ritroviamo a ridere
di noi, delle telefonate stanche
nei nostri pleniluni ancorati al vento,
di cavi di rame e stazioni affollate,
di mani vogliose di te, di me;
ridiamo, ridiamo ancora e
in questo giorno uguale a tutti gli altri,
la quotidianità disgela braccata
dal tuo semplice sguardo, e
vallate assolate e sconfinate praterie,
sussulti di oceani e corazze di calcare,
aneliti arborei, specchi lacustri, dune di sogno
si stendono ovunque intorno a me,
intorno a te,
intorno a noi soli.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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Una mattina come tante altre
come tutte quelle che ogni giorno
avvolgono Roma tra cenere e fango.
Il ballatoio dell'università
vive del rumore di cento bocche
e respira il fumo di mille caffè,
la nicotina di mozziconi spenti,
una quotidinianità trascinata.
 Nubi, vento e smog 
ammantano le tegole dei tetti
e sigillano il tedio del momento
con un lembo di labbra di nebbia.
E' una mattina come tante altre,
come tutte le altre: piccoli stormi
sonnecchiano in volo; grandi voci
compongono fragori sommessi;
il cigolio delle porte è 
una costante nota di ferro
nel sottofondo di questo mio grigiore.
Ovunque visi spenti e mesti,
come le vie la domenica mattina
come le ore vuote della notte.


E' una mattina come tante altre,
come tutte le altre, finchè non vedo te;
Un solo tuo sorriso e il mondo intero
inverte la riproduzione della sua traiettoria,
 spezza la conformità dell'attimo e
compone piroette di eterea armonia;
un solo tuo sorriso e,
seppur confinato in una remota costruzione d'ombra,
riesco a succhiare dalle fessure una candida luce.
Sembri galleggiare nell'alcova del tuo microcosmo,
che profuma di campi di grano e un'adolescenza mai sbocciata,
che giganteggia minuto come una sfera di sapone,
che sa di una candida incoscienza di cui non ricordavo il gusto.
Mi guardi e precipito in te,
ascendendo sino al cospetto del tuo mondo,
avvicinandomi un poco alle tue mura,
quel po' che mi permetta di udire
il clangore dei tuoi sogni 
mentre sbaragliano orde di demoni.
Mi chiami e tendo  verso te solo:
con le spirali dei miei respiri,
e tutti gli spettri di antichi timori
le curve  mai infrante dei miei sorrisi
e il fogliame d'autunno nei miei occhi;
mi chiami e la voce tua
è come un'immensa orchestra
di primule e ottoni e boschi
che abbia dato ordine
a qualsiasi altro suono
di non propagarsi per queste 
quattro stanche pareti.
Mi parli, mi parli di te, 
della pellicola del sabato scorso
di lingue morte e lingue vive,
di ideali di pane e memorie d'ovatta;
ti racconti e io mi appendo al dondolio
delle tue note, che diffondono odore intenso
di nerò caffè bollente e olive verdi.
Poi mi stringi, e tra le tue braccia di fiume,
tra le tue mani di farina, persino
il bigio ottobre pare sciogliere
la sua umidità e disserrare le sue tende
di cotone per un raggio di sole.
Mi stringi ancora, e le zone
e tutti gli angoli gelidi
di alcune mie recondite cavità
capitolano in macerie,
e lì vi spuntano boccioli nuovi,
gerani di sangue e magnolie albine.

E ora ci ritroviamo a ridere
di noi, delle telefonate stanche
nei nostri pleniluni ancorati al vento,
di cavi di rame e stazioni affollate,
di mani vogliose di te, di me;
ridiamo, ridiamo ancora e 
in questo giorno uguale a tutti gli altri,
la quotidianità disgela braccata
dal tuo semplice sguardo, e 
vallate assolate e sconfinate praterie,
sussulti di oceani e corazze di calcare,
aneliti arborei, specchi lacustri, dune di sogno
si stendono ovunque intorno a me,
intorno a te,
intorno a noi soli.

Mi lanci un gesto, un gesto per cui
si getterebbe via il cuore per sempre,
un cenno della mano, mi saluti;
ti volti; scendi le scale; sento il suono
dei tuoi passi affievolirsi lontano.
Ora sono di nuovo solo, tra la macchina
del caffè e il cornicione smorto,
e di nuovo, oggi è una mattina come tante altre,
come tutte le altre.
   
 
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