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Autore: Lady_Gi    14/06/2016    7 recensioni
"In quel momento non c’era più alcuna razza o ideologia a dividerci, persino la guerra appariva insignificante dinanzi all’abbraccio di due amanti."
Questo breve racconto è, in parte, ispirato ad una storia vera: quella tra il supervisore delle SS ad Auschwitz, Franz Wunsch, e la prigioniera ebrea Helena Citronova.
Genere: Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto
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Lui mi amava. Lui amava. Era questa la cosa bizzarra, un paradosso direi.
Come poteva taluno rendersi partecipe di simili barbarie e poi avere la presunzione di fregiare il suo cuore di un sentimento così nobile?
Passai interi mesi  a torturare la mia testa in cerca di una risposta, che tuttavia non arrivò.
 Perché aveva rinunciato ad essere un uomo? Cos’era, una bestia forse? Oh, no! mi parve sin da subito terribilmente offensivo per le bestie essere paragonate a simili individui, meri involucri senza un’anima. Una bestia non potrebbe mai essere crudele quanto l’uomo.
Loro, semplicemente, non erano.
Non erano nulla. O almeno nulla di umano.
Abbandonati alla codardia del male, avevano rinunciato ad essere persone.
Mi ero convinta del fatto che l’odio avesse vinto e che, infine, stesse trasformando anche me nel mostro che loro vedevano dietro la stella gialla di David, dietro gli indumenti sporchi del sudore della fatica e consumati dal logorio del tempo.
Oh mio Dio dov’è l’uomo ?Dio mio, dove sei tu?”.
Ecco, per chi viveva circondato dal male del mondo era difficile avere certezze.
Loro ci avevano annullati, e non intendo solo fisicamente, ma prima di ogni cosa, umanamente.
Non eravamo più di questo mondo, eppure un tempo ognuno di noi aveva creduto di essere qualcuno, mentre allora dubitavamo persino di esistere davvero.
Eravamo numeri tatuati nella carne,e nulla più, pezzi di un ingranaggio mortale: Auschwitz.
Privati di ogni sembianza umana era un meccanismo quasi automatico, sebbene inconscio, disadattarsi alla vita, non avere più fiducia nell’umanità, nemmeno per i poveri e disgraziati fratelli, figli della stessa sventura, eppure gli uni contro gli altri per un tozzo di pane.
Ma l’amore per lui mi riscattò dal grigiore della mia esistenza.
Il suo amore mi salvò, in tutti i modi possibili.
Ricordo, con vivida memoria, il giorno in cui la mia vita, nel bene o nel male, sarebbe stata destinata a cambiare.
Completamente ignara della sorte che mi attendeva, il mattino seguente sarei stata destinata a diventare polvere e se le cose fossero andate alla loro maniera, quello sarebbe stato l’ultimo tramonto che i miei occhi bruni avrebbero visto.
Se lo avessi saputo li avrei inebriati, fino allo sfinimento, di quei fiochi raggi di sole che squarciavano il cielo plumbeo che ci schiacciava.
Forse,  però, il destino aveva in serbo per me qualcos’altro: prolungare le mie sofferenze, oppure risorgere da quelle macerie, questo non potrò mai saperlo.
I suoi occhi, freddi come l’inverno della Polonia, mi scrutavano, passandomi attraverso.
Erano occhi di ghiaccio, eppure sentivo il loro calore sul mio corpo sfinito, privato di ogni aspetto di donna.
Mi vergognai.
Forse fu quella la prima e l’unica volta in cui provai vergogna della mia condizione dinanzi i miei assassini.
Non compresi il perché in quel momento, ma forse il vero motivo era che mai nessuno di loro mi aveva guardata.
La nudità dei nostri corpi, dinanzi agli sguardi aguzzini di uomini in divisa, era divenuta cosa normale per noi come respirare, nonostante il pudore rigoroso cui eravamo state abituate, poiché per loro non eravamo donne da desiderare.
Per loro, infondo, non eravamo nemmeno donne.
Ci eravamo abituati ad essere invisibili agli occhi altrui.
Dopo mesi di permanenza in quel luogo di morte, invece, per la prima volta qualcuno mi guardava come un essere umano guarda un suo simile, qualcuno si era accorto che io esistevo.
Quello era il giorno del suo compleanno e la vigilia della mia morte.
Come un animale da circo fui costretta a cantare per lui e per i suoi ospiti.
La mia voce, resa flebile dal magone che mi stringeva la gola quasi fino a soffocarmi, era tenera come quella di una bambina.
Le lacrime, represse per tutto quel tempo, avevano indurito il mio cuore, ma in quel momento sentivo che un fiume in piena stava per abbandonare i miei occhi, non rispondendo più al comando della mia volontà.
“Non piangere Rachele, non piangere Rachele” ripetevo a me stessa, se non altro perché temevo una severa punizione.
Mentre il mondo intorno a noi scorreva, lui mi fissava.
Immobile, assiso su di una poltrona soffice di velluto rosso dai bordi in mogano, accarezzava il suo mento con le dita gentili, quelle mani che, solo a guardarle, emanavano un buon profumo.
Come potevano quelle mani macchiarsi di simili abomini?.
In quel preciso istante era come se lì ci fossimo solo io e lui, avvolti da un mondo in cui ogni rumore fungeva da eco lontano.
Quello sguardo mi salvò.
Nessuno più di me potrà dire di aver scorto l’anima di un uomo attraverso i suoi occhi.
Senza dirci una sola parola, senza sfiorarci, quello sguardo si fece carne e ci unì in un abraccio destinato a durare per tutta la vita.
Mi sono innamorato di te”.
Aprii frettolosamente quel pezzo di carta che lui mi aveva lanciato passandomi dinanzi, nascondendomi agli occhi delle mie compagne  come una ladra.
Il cuore iniziò a scalpitare senza più alcun ritmo regolare, lo sentivo rimbombare in ogni angolo del mio corpo e temevo mi avrebbe squarciato il petto da un momento all’altro.
Sentii le gote divamparmi e le forze venirmi meno.
Mi voltai, furtiva, per vedere se lui fosse ancora nei dintorni, se fosse rimasto ad osservare la mia reazione.
Ma era come svanito nel nulla.
Ripiegai con poca cura quel misero pezzo di carta ingiallito e lo infilai nella tasca dello straccio che portavo addosso.
Mi sono innamorato di te” avevo letto.
Così, lapidario, poche parole che sortirono su di me lo stesso effetto di un pugno nello stomaco.
“Razza di mostro, io ti odio”.
Questa fu l’unica cosa che riuscii a pensare, di tutta risposta.
Cosa provai in quel preciso istante? Disgusto, ero spaventata, inorridita, mi era difficile comprendere il senso di quella situazione al limite del surreale.
Ma ero ancora lucida, e mi si profilò immediatamente dinanzi l’idea che quell’amore avrebbe potuto essere la mia salvezza.
Al solo pensiero mi sentii sporca come chi si macchia del più grave peccato.
Il mio popolo veniva annientato ed io, anche solo per un brevissimo momento, avevo pensato a salvare me stessa?
Questo era quello che ti faceva diventare il campo, egoista.
Si sarebbe potuto credere che la sorte comune, le comuni sofferenze, avrebbero portato  ad un avvicinamento tra i prigionieri, ad una forte solidarietà, ma la spersonalizzazione di ognuno di noi aveva raggiunto lo scopo desiderato: cancellare qualsivoglia vincolo di fratellanza, esaltando un innaturale egoismo, quasi fosse l’unico mezzo per sopravvivere, per ottenere un privilegio.
Ma le brutture cui avevo assistito, non avevano ancora intaccato la mia anima fino a quel punto, i nazisti non avevano ancora vinto con me.
E in quel momento avrei preferito morire dieci, cento, mille volte, pur di non essere amata da quell’uomo.
Andammo avanti così per mesi.
Io lo disprezzavo, non riuscivo a guardarlo negli occhi o a provare gratitudine ogni qualvolta avesse un piccolo riguardo nei miei confronti, poiché lui era la stessa persona che durante il giorno si rendeva autore di scempi inauditi verso uomini, donne e bambini inermi.
Ogni sera mi portava del cibo, si accovacciava di fronte a me in un angolo della baracca e rimaneva per interi minuti, che parevano ore, ad osservarmi in silenzio, mentre consumavo quel misero pasto.
Quell’uomo gentile e premuroso che avevo dinanzi , come poteva essere lo steso uomo crudele e disumano?
Cosa avevo fatto io per meritarmi quel trattamento di favore?
Lui mi dava tanto, senza pretendere nulla in cambio.
Eppure io lo ignoravo, volevo arrivasse a pensare “io per lei non esisto”, proprio come noi non esistevamo per loro.
Non aveva mai sentito il timbro della mia voce, se non la sera del suo compleanno, poiché mi ero chiusa in un silenzio assordante, un rifiuto imperterrito di rivolgergli la parola.
Perché, nonostante ciò, lui che aveva il potere di decidere sulla mia vita o sulla mia morte, sceglieva di farmi vivere?
Non potevo essere grata, poiché il sentimento di colpa verso i miei compagni di sventura, prevaleva su tutto ciò che di buono lui facesse per me.
«Ti chiami Rachele?» mi chiese una sera, rompendo quel silenzio imbarazzante che ci aveva sempre uniti.
Io sollevai lentamente gli occhi, come a non voler credere che quelle parole fossero uscite dalle sue labbra.
Per la prima volta incrociai il suo sguardo, senza abbassare il mio.
Annuii con il capo, soffocando un semplice “si” che quasi istintivamente stavo per pronunciare.
Mi soffermai un istante ad ammirare i suoi occhi, che mai avevo visto ad una distanza così ravvicinata.
Due distese attraenti e seducenti di azzurro chiaro; quelle iridi piene di riflessi erano quasi impossibili da guardare, perché ti sentivi opprimere, affogare dall'oceano limpido che vi traboccava dentro.
Quei piccoli, minuscoli punti neri che erano le pupille, si confondevano in quell'azzurro così mistico.
Occhi tanto belli da non poter appartenere ad un mostro come lui.
Si tolse il berretto, che aveva sul capo, e lo poggiò atterra, passandosi una mano fra i capelli color miele dai riflessi dorati.
«Il mio nome è Hermann» mi disse, accennando un sorriso e allungando le dita come per porgermi una carezza sul viso.
Io mi ritrassi come un cane randagio, che dopo tante bastonate teme anche le carezze,  inorridita al pensiero del tocco di quella mano sporca del nostro sangue.
Dovette leggere la paura nei miei occhi, perché anche lui tirò indietro il braccio, come se si fosse scottato.
«Non voglio farti del male » mi disse, con un tono di voce tale da sembrare rassicurante, sincero.<
E infondo lo sapevo, nonostante le terribili azioni, i suoi occhi non lo tradivano.
Ma non mi fidavo di lui, anche se talvolta avevo l’impressione che avesse bisogno di me per sopravvivere a quegli orrori, più di quanto io ne avessi di lui.
Una sera si sedette atterra accanto a me ed iniziò a parlarmi, anche se sapeva che non avrebbe ricevuto risposta.
Mi raccontò della sua vita, della sua famiglia e di come fosse giunto fin li.
Nonostante fingessi di essere assente e disinteressata, ascoltai attentamente ogni singola parola.
Ne venne fuori il ritratto di un giovane uomo qualunque.
Io non credevo che lui potesse essere qualcos’altro oltre ad una SS, non immaginavo che dietro quell’uniforme ci fosse un ragazzo come tanti altri giovani al mondo, non immaginavo che dietro quella divisa ci fosse una vita da raccontare.
Quella sera mi aprì il suo cuore «grazie a te mi sento un uomo diverso oggi» mi disse, con la testa china verso il pavimento e lo sguardo nella medesima direzione.
«Io non ho fatto nulla» risposi, per la prima volta.
Non so perché, dopo tanti silenzi, le sue parole avevano scalfito quella pietra che era il mio cuore.
Le parole mi vennero fuori come un torrente in piena,privo di argini.
Inarrestabili, impetuose, non avrei potuto soffocarle neanche se avessi voluto.
Lui mi guardò con lo stesso stupore con cui lo avevo guardato io quando, qualche sera prima, aveva chiesto il mio nome.
Non si aspettava minimamente una risposta e sorrise in modo buffo.
«Senza fare nulla, hai fatto più di quanto potessi immaginare» e aggiunse «l’amore per te mi ha cambiato».
Quella sera mi baciò, per la prima volta.
Ci avvicinammo, senza rendercene conto, il suo sguardo si smarrì completamente nel mio, i nostri respiri confusi si unirono in un solo afflato, così come le nostre bocche divennero un tutt’uno.
Le sue mani cercavano le mie, e poi il mio corpo, i miei seni,  e tutto ciò che rimaneva di una donna.
Credevo che non mi sarei mai più riconosciuta nella mia immagine, che non mi sarei mai più sentita una donna dopo le umiliazione subite, poiché la donna che era in me mi aveva lasciata per sempre.
Eppure non vi fu momento in cui mi sentii più viva e desiderabile: tra le sue braccia.
In quel momento non c’era più alcuna razza o ideologia a dividerci, persino la guerra appariva insignificante dinanzi all’abbraccio di due amanti.
Con ogni oncia del mio essere, in quei mesi, avevo combattuto contro quella parte di me che cedeva e si piegava al bene che esisteva persino in quell’uomo, ma dovetti constatare come nessun umano può essere tanto indifferente al bene, neppure quando esso proviene dal male, neppure dopo l’esperienza del campo.
Forse è più facile per il cuore cedere all’amore che all’odio.
Poi venne la pace, la quale ci separò, regalandoci una nuova vita, quella che sognavo di avere quando la sera nel campo, stretta nel mio angolo, chiudevo gli occhi e iniziavo a sognare; la stessa vita che bramavo oltre quel maledetto cancello, come l’aria quando ci si immerge in acqua; quella a cui non credevo più e a cui iniziai a sperare di nuovo grazie a Hermann.
Una vita tranquilla e felice, la mia, accanto ad un uomo meraviglioso, circondata dal calore dei miei figli.
Ma da Auschwitz si esce con il corpo, non con l’anima.
E così, una parte di me, si aggira ancora come uno spettro del limbo tra quelle mura, ora vuote, silenziose, testimoni mute di tanto dolore,di donne violate, bambini privati della loro innocenza, uomini umiliati.
Mura tra le quali ora fa eco un silenzio assordante, ma che un tempo furono lo sfondo di tanti sorrisi scippati, di lacrime versate, di sogni infranti e di vite strappate.
Una parte della mia anima è ancora lì, non ha mai varcato quel cancello verso la libertà, ha solo visto il mio corpo allontanarsi sapendo che un giorno sarei tornata a ricongiungermi a lei.
Quella parte di me è ancora accovacciata in un angolo della baracca ed ogni sera, all’imbrunire, aspetta Hermann.
Non so quale sia stato il suo destino, non so dove sia, non ci vedemmo mai più.
Per me sarà sempre quel ragazzo  che vidi confuso tra la folla per l’ultima volta, quel giovane ragazzo dai capelli del colore del miele che mi sfiorò la mano sussurrandomi un“Ti Amo” dileguatosi nel respiro del vento.
Un sussurro soffocato, che suonò come una promessa destinata a durare oltre i limiti del tempo, di cui sento ancora il rumore, il calore.
Quella fu l’ultima volta che i nostri sguardi si incrociarono. Non ci fu giorno della mia vita in cui non pensai a lui e il suo ricordo batte ancora oggi dentro me come un secondo cuore.
So che, infondo, non ci siamo mai divisi poiché non vi può essere distanza fra due anime finchè a legarle ci saranno i ricordi.
Ho passato tutta la mia vita con lui, stava con me anche quando non c’era.
E’ stato bellissimo ma devastante, poiché infondo le storie mai concluse sono quelle destinate a durare per sempre, nonostante tutto.
Ora so che una parte di me è ancora tra le sue braccia, stretta nel calore del suo corpo, persa in quell’oceano che erano i suoi occhi.
Hermann mi insegnò che l’amore di un singolo uomo può cambiare il mondo, poiché la lotta del bene contro il male non si combatte con le armi o con grandi eserciti, ma con ogni singola vita.
 
   
 
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