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Autore: Walpurgisnacht    16/06/2016    2 recensioni
Touko Fukawa e Komaru Naegi rientrano alla Future Foundation da Towa City, portandosi dietro un sacco pieno di notizie allegre come il colera.
Quel giorno vennero piante lacrime a fiumi.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aoi Asahina, Byakuya Togami, Kyouko Kirigiri, Makoto Naegi, Touko Fukawa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Negazione

“È lui?”
Togami fece un cenno affermativo con la testa, il volto che non lasciava trasparire alcuna emozione. Rivolse un breve inchino al medico legale e uscì dalla morgue della Future Foundation. Probabilmente non si era nemmeno accorto di stare accelerando il passo.
“B-Byakuya-sama…”
Touko era lì fuori ad aspettarlo, come prevedibile.
“È Aloysius” replicò lui, secco.
“M-mi dispiace tanto!”
Si limitò ad annuire e disse solo di dover tornare in ufficio, evitando le manifestazioni di cordoglio della ragazza.
Aloysius è morto.
Per quanto cercasse di concentrarsi sul lavoro non riusciva a trovare interesse negli ultimi resoconti da Towa City, le news sui Remnants of Despair o sul conteggio aggiornato delle vittime: la sua mente continuava a tornare ad Aloysius Pennyworth, e quella era l’unica vittima di cui gli importava.
Aloysius era morto e lui non riusciva a crederci.
Quando avevano ritrovato suo padre non aveva versato una lacrima. Non aveva mai avuto un vero rapporto con lui, e davanti al suo cadavere era riuscito solo a mostrare il rispetto dovuto a un morto. Con sua madre le cose non andarono diversamente: di lei non erano ancora riusciti a trovare i resti, e a quel punto dubitava sarebbe successo. Comunque non era mai stata una mamma nel senso migliore del termine, e lui non riusciva a provare pietà o tristezza. Si era limitato a dedicarle un minuto di silenzio.
Ma Aloysius… era un’altra storia.
Da che ricordava lo aveva sempre avuto al suo fianco come maggiordomo personale, anche prima di diventare l’erede effettivo della Togami Zaibatsu: in un ambiente dove contavano solo soldi e posizione sociale, Aloysius era stato la cosa più vicina a un genitore che Byakuya avesse mai avuto. Aveva fatto i salti mortali per instillare in lui quel calore umano che il mondo dei ricchi altolocati considerava inutile, spesso contravvenendo alle direttive di sua madre prima, e di suo padre poi. In un lampo di lucidità Byakuya non mancò di notare come gli insegnamenti dell’uomo non fossero andati persi, anche se erano rimasti celati per anni sotto strati di freddezza e menefreghismo, frutto del lavaggio del cervello subito fin dalla più tenera età come “addestramento” per diventare l’erede dei Togami.
Adesso che se n’era andato, a lui erano rimasti solo un mucchio di sensazioni confuse e sconosciute, e quella notizia che non riusciva ad accettare.
Il ricordo di tanti momenti passati assieme lo assalì, e provò improvvisamente il bisogno di andare via, non sapeva dove, ma non voleva rimanere nel suo ufficio. Avvertiva uno strano senso d’oppressione al centro del petto, come se respirare fosse diventato improvvisamente faticoso.
Aria, ho bisogno d’aria.
Uscì di corsa dall’edificio principale della Future Foundation e, quasi in uno stato di trance, si diresse verso l’unico posto che a quell’ora era totalmente deserto.

“Byakuya-sama…”
“Come mi hai trovato?”
Touko sorrise e gli si avvicinò: “N-non sono molti i posti in cui i membri della Future Foundation possono distrarsi.”
Togami non rispose, anche se non poteva che concordare: l’enorme complesso che costituiva la Foundation era attrezzato di tutto, dagli appartamenti per i membri ai servizi principali come mini market, lavanderie e quant’altro, ma mancavano i luoghi di svago. L’unica eccezione era costituita da un piccolo piano bar, aperto tutta la notte, in cui non di rado lui, Naegi, Fukawa, Kirigiri, Asahina e Hagakure si erano andati a rifugiare nella speranza di ricordarsi come ci si sente ad essere ragazzi della loro età. A Byakuya ogni tanto piaceva suonare il pianoforte che si trovava lì, ed era l’unica valvola di sfogo a cui il suo cervello aveva pensato dopo la notizia avuta solo un’ora prima.
Continuò a suonare una melodia imparata tanti anni fa, quando era obbligato a prendere lezioni di piano. Era un pezzo dolce e malinconico, che ben sia adattava a quello stato d’animo che non riusciva a decifrare.
“Byakuya-sama… s-se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti…”
Lasciò che Touko gli si avvicinasse, senza mai interrompere l’esibizione.
“D-dico sul serio…”
Le sue dita pigiarono più forte sui tasti, trasformando quella melodia triste in un crescendo rabbioso e cupo. Si sentiva frustrato, e più la frustrazione aumentava più aggrediva la tastiera con violenza, ma non sembrava avere l’effetto calmante che aveva sperato.
“B-Byakuya-sama?” chiamò ancora lei, azzardandosi a poggiargli una mano sulla spalla.
Quel gesto ruppe del tutto gli argini già precari del suo stato d’animo.
Chiuse di scatto il coperchio e si lasciò sfuggire un urlo di rabbia.
“B-Byakuya-sama!”
Si accasciò sul piano e affondò le mani tra i capelli, ringhiando per la rabbia, la frustrazione e il dolore: tutte cose a lui sconosciute, che nessuno gli aveva spiegato come affrontare perché un Togami non dovrebbe provare alcun tipo di emozione.
Ma cosa fa allora un Togami quando scopre una sofferenza così grande? Come la gestisce, se non può delegarla a nessuno come un appuntamento da rimandare?
Sentì le braccia esili di Touko cingerlo da dietro e stringere forte, fortissimo, con una forza di cui non l’avrebbe mai ritenuta capace.
“A-Aloysius è…”
“Lo so” lo anticipò lei.
“Non è possibile” disse, “questo non può essere vero.”
“B-Byakuya…”
“Io… io non riesco a crederci. Non può essere successo, non può succedere a me!”
Gli riusciva impossibile accettarlo.
Quand’era piccolo aveva creduto che Aloysius sarebbe rimasto con lui per sempre, una sorta di presenza fissa nel tempo che avrebbe continuato a guidarlo per tutta la vita. Un pensiero infantile, tenero, che lo aveva accompagnato nell’infanzia e in qualche modo gli era rimasto dentro, senza mai svanire.
Ora Byakuya si sentiva di nuovo un bambino incapace di accettare l’inevitabilità della morte, incapace di affrontare la perdita della persona a lui più cara.
Aloysius era morto, portandosi dietro quell’unico punto fermo che gli era rimasto.
“Purtroppo non funziona così” gli sussurrò Touko all’orecchio, “l-la morte non guarda in faccia nessuno… e non si è mai preparati ad affrontarla. Né lei, né le conseguenze.”
“Non so cosa fare” rispose. “Non so come si affronta un dolore così grande.. non sapevo che si potesse stare così male…”
Touko lo strinse più forte a sé: “Perché nessuno ti ha mai permesso di esternare i tuoi sentimenti” disse dolcemente, “ma non c’è un modo giusto o sbagliato per affrontare il lutto…”
Sentì le guance inumidirsi, e probabilmente gli si erano anche appannati gli occhiali perché vedeva tutto sfocato.
“Se vuoi piangere, urlare… fallo. Nessuno ti giudicherà.”
Si morse un labbro, tentando di mantenere il poco che rimaneva della sua maschera impassibile, ma non ci riuscì.
Si aggrappò alle mani di Touko e pianse, per Aloysius, per se stesso, per tutte le occasioni sprecate in cui non gli aveva detto di volergli bene.
Pianse finché non rimase senza voce.

*

Rabbia

Kyouko sì fermò un attimo davanti alla porta. Lì dentro c’era suo nonno Fuhito. appena recuperato da un edificio mezzo diroccato a Towa City.
Era felice di vederlo. Ma in quanto Kirigiri doveva sempre mantenere un contegno, pertanto si impose ferreo controllo e nessuna esternazione eccessiva.
Prese un sospiro.
Afferrò il pomello e lo girò. Per un solo istante uno strano scherzo glielo fece sembrare caldo.
Fuhito Kirigiri era seduto a un tavolo, di spalle rispetto all’ingresso. L’aspetto dismesso, individuabile tramite gli strappi dei vestiti, tradiva le brutte cose che probabilmente aveva vissuto.
“Chi è?” chiese girandosi. I suoi occhi si illuminarono quando vide la nipote: “Kyouko! Stai bene!”. La faccia smunta e le rughe ancora più pronunciate di quanto se le ricordasse confermarono l’ipotesi sul suo stato.
Fece un po’ di fatica a camminare, addirittura zoppicava leggermente.
L’abbraccio fu imbarazzato per un non ben precisato motivo, qualcosa che lei sentiva esserci fra di loro e che stava rovinando uno dei pochi momenti lieti dalla fine del Gioco degli Omicidi.
Discussero di quanto gli era successo nei dettagli. Poi la conversazione si spense da sola.
Di nuovo Kyouko si accorse che fra di loro aleggiava una strana atmosfera. Come una massa indefinita sopra le loro teste che stava contribuendo a rendere quell’incontro molto meno bello di quanto si sarebbe aspettata.
Non seppe cosa fu a possederla quando disse “Sai, papà è morto…”. Era perfettamente a conoscenza del difficile rapporto che era intercorso fra Fuhito e Jin.
Oh, il rapporto fra Fuhito e Jin. Era stato un susseguirsi di cose simpatiche, come il padre che diseredava il figlio perché quest’ultimo si era rifiutato di proseguire nel solco della tradizione di famiglia. O il suo continuo frapporsi fra lei e Jin.
Questa cosa non era poi così certa, ma nella sua mente si affacciò prepotente il ricordo dell’ufficio del preside alla Kibougamine: la foto incorniciata e la password del computer raccontavano tutt’altra storia rispetto a quanto le era stato sempre detto, cioè che suo padre era un disgraziato che l’aveva abbandonata disinteressandosi di lei e del suo avvenire.
Era restia nell’ammetterlo, ma l’aveva rivalutato dopo essersi resa conto in prima persona che Jin Kirigiri voleva un bene dell’anima a sua figlia e che non l’aveva mai dimenticata. Così come era restia ad ammettere che, una volta mandato via Naegi, si era permessa un breve pianto sulle sue ossa.
Quindi si stupì di se stessa e delle parole che le erano uscite per volontà propria dalla bocca. Sapeva che era argomento delicato per suo nonno e non aveva idea del perché l’avesse portato a galla.
“Davvero? Beh, è la fine che si meritano gli eretici” sputò lui dandole le spalle.
...cosa?
Per un attimo ebbe la tentazione di afferrarlo per le spalle e girarlo di nuovo nella sua direzione. Voleva vedere gli occhi di chi era riuscito a dire una cosa tanto… tanto…
Represse l’impulso, non ciò che lo aveva scatenato.
“Come hai detto, scusa?”.
Il vecchietto fece due passi e ribadì quanto aveva affermato: “È la fine che si meritano gli eretici”.
Quando si voltò di nuovo nella sua direzione uno schiaffo gli piegò la faccia.
Davanti a lui Kyouko lo osservava con occhi di brace, solo velati da una patina traslucida: “Non ti azzardare mai più a parlare di papà in questo modo! Era mio padre! TUO FIGLIO! È morto, te ne rendi conto o no? Ho visto di persona cosa è rimasto di lui!”.
Fece per ribattere ma la voce di lei lo sovrastò, proseguendo imperterrita in un discorso mai realmente concluso: “Con quale faccia tosta puoi pronunciare simili bestialità? Per te il buon nome dei Kirigiri vale più del sangue del tuo sangue? Se è davvero così lasciati dire che sei spregevole! Indegno di esistere!”.
Continuò a urlare cose via via sempre più incomprensibili. Era il puro gusto di urlare, di sfogarsi, di buttar fuori quel grumo nero che le stava attanagliando lo stomaco.
Una piccola parte della sua anima, del tutto impotente, assisteva attonita allo spettacolo che stava dando. Si chiedeva da quale anfratto oscuro fosse uscito un simile barile di rabbia nei confronti dell’uomo che l’aveva cresciuta e che, pur con tutti i suoi difetti e le sue restrizioni, non le aveva mai fatto sentire più di tanto la mancanza della figura paterna.
In quel momento lo stava odiando. Con tutta se stessa.
Si avviò verso la porta. Poco prima di uscire, lasciandosi alle spalle un Fuhito con la mano sulla guancia offesa, si concesse un ultimo strale: “Visto che ti diverti tanto a giocare con gli stati familiari… da questo momento non ho più un nonno. Mi considero sola al mondo, e visto l’unico parente che mi è rimasto in vita è meglio così”.
Se ne andò tracimando ira nella sua scia.
Mai prima d’allora si era lasciata andare così tanto in modo così plateale. Qualcosa si era spezzato dentro di lei con un gran fracasso, non preoccupandosi di eventuali danni.
Fu sollievo quello che le fece visita quando la figura di Makoto Naegi apparve in fondo al corridoio: “Kirigiri-san! Sei andata a trovare… oh. Stai bene? Hai una faccia…”.
Non disse nulla mentre lo abbracciò, strizzandolo come si può strizzare una spugna intrisa d’acqua.
Quella volta non si vergognò di piangere in sua presenza.

*

Contrattazione

Pur nella grande incertezza che era la sua vita, Touko aveva sempre avuto un unico punto fermo: detestava i suoi genitori.
Aveva provato a farsi benvolere dal padre, a cercare di essere una brava bambina per far contente entrambe le madri, nella speranza di riuscire a mantenere quel precario e bizzarro equilibrio che era la sua famiglia. Ma quell’amore in cui lei sperava non era mai arrivato, lasciando il posto a un odio feroce che si ingigantiva ad ogni nuovo abuso.
Di conseguenza era sicura che non avrebbe provato nulla quando, solo un’ora prima, il medico legale della Foundation l’aveva chiamata per riconoscere i corpi dei suoi genitori.
Era convinta che sarebbe rimasta impassibile, fredda.
Invece si era ritrovata a singhiozzare chiusa in uno dei bagni femminili, augurandosi che nessuno entrasse proprio in quel momento, neanche Kirigiri o Asahina. Non si sentiva ancora abbastanza in confidenza con loro da spiegare quanto stava avvenendo dentro di lei.
Certo, anche loro quel giorno avevano ricevuto notizie orribili (o belle notizie che si erano trasformate in incubi, nel caso di Kyouko), così come tanti altri alla Foundation, ma ciò che lei stava provando era talmente assurdo da non riuscire a spiegarlo nemmeno a se stessa.
Dovrei odiarli pensò, e invece sto piangendo la loro morte!
Non c’era un solo ricordo della sua infanzia che non la facesse soffrire: uno schiaffo non era mai solo uno schiaffo, una macchia sul vestitino buono equivaleva ad andare a letto senza cena, un voto leggermente più basso della sua altissima media scatenava le ire di entrambe le sue madri (che suo padre non provava mai a mitigare, mai). Avrebbe dovuto odiarli, e invece era lì rannicchiata contro la parete del bagno, la testa affondata tra le ginocchia, ricordando che faceva lo stesso anche da bambina, come quando una delle sue madri la rinchiuse per tre giorni in un armadio per chissà quale motivo.
Sei una bambina cattiva le ripetevano, e lei se ne era convinta pur non conoscendone la ragione; aveva anche cercato di rimediare, di diventare una brava bambina, sanno i kami se ci aveva tentato! Ma non era servito a nulla, finendo con l’accettare quel marchio infame su di lei, quel non essere abbastanza.
Se fossi stata una figlia migliore… se ci avessi provato di più…
Se fosse stata la figlia perfetta che desideravano forse non l’avrebbero odiata.
Non l’avrebbero mai maltrattata, o lasciata nella sua stanza alla Kibougamine anche durante le vacanze. Se fosse stata la figlia perfetta l’avrebbero amata, lodata, e forse ora starebbe piangendo la perdita di una famiglia amorevole, e non di tre aguzzini che probabilmente saranno stati contenti di essersi liberati di lei.
“C’è qualcuno?”
Una voce da fuori la riportò alla realtà.
“E-esco subito!”
“...Fukawa-chan?”
“K-Komaru…?”
Scostò leggermente la porta del bagno, ritrovandosi a guarda in faccia Komaru Naegi, che a giudicare dagli occhi rossi doveva aver saputo da poco dei suoi genitori.
“S-scusa, vado via subito” disse, uscendo di fretta, ma si sentì afferrare per un polso.
“F-Fukawa-chan, aspetta!”
“D-devo andare.”
“Fukawa-chan, ti prego…” e a quella preghiera si voltò verso Komaru. Rimasero a guardarsi in silenzio per qualche istante, che fu Touko a interrompere: “M-mi dispiace per i tuoi genitori.”
“E a me dispiace per i tuoi” disse l’altra, “Makoto me l’ha detto…”
“N-Non dispiacerti. Erano persone orribili.”
Komaru sembrò turbata da quell’affermazione: sapeva qualcosa sul passato di Touko, abbastanza da poter comprendere i comportamenti e le reazioni a volte eccessive della ragazza.
E tuttavia…
“M-ma… sono morti…”
“E la colpa è mia.”
“C-cosa? Ma non è vero!”
Si liberò dalla presa di Komaru e si avviò verso l’uscita: “S-senti, devo tornare a lavoro adesso” farfugliò “e p-poi anche tu hai un lutto a cui pensare, io n-non sono più speciale di altri.”
“Fukawa-chan, ti prego!” urlò l’altra, e la bloccò abbracciandola da dietro. Touko si fermò davanti alla porta, sconvolta da quel gesto.
“Non è vero che non sei speciale” singhiozzò l’altra, “lo sei per me. E p-poi io posso sfogarmi dopo con Makoto. Tu invece finirai per tenerti tutto dentro e… e non è giusto!”
Sentì le lacrime ricominciare a scendere, ma si obbligò a non voltarsi.
“E soprattutto non devi darti colpa di niente.”
“Invece sì” ringhiò, “loro erano persone orribili. che mi hanno sempre maltrattata ma… s-se fossi stata una figlia migliore… f-forse non mi avrebbero odiata…” si accasciò sulle ginocchia, la testa china in avanti che sfiorava la porta. “S-se fossi stata una brava bambina come desideravano… forse mi avrebbero amata” singhiozzò, “s-sono morti considerandomi spazzatura… i-io li ho delusi!”
“Adesso basta! Ascoltami!” sentì Komaru afferrarla per le spalle e costringerla a voltarsi verso di lei. “Tu non hai colpe, ok? Non ne hai nessuna. Erano esseri umani e probabilmente non meritavano una fine così atroce ma” tirò su col naso, “ti hanno fatto cose orribili. Ti hanno fatta a pezzi distruggendo la tua autostima, convincendoti di non valere nulla, ma non è vero. Tu sei una persona bellissima che merita tutto l’amore del mondo.”
Quelle parole la colpirono in pieno e la lasciarono a bocca aperta.
“Se non fosse stato per te io sarei morta a Towa City, e Makoto sarebbe rimasto solo! Siamo in due a doverti la vita e non credo me ne basterà una intera per esprimerti la mia gratitudine. Sono contenta di averti conosciuta e poterti considerare mia amica.”
Amica. Ancora quella parola. Così odiata, così desiderata.
“Non devi chiederti se fossi stata una brava bambina loro mi avrebbero amata. Semmai devi dirti se loro fossero state persone migliori mi avrebbero amata e io non avrei sofferto.”
Si ritrovò a singhiozzare tra le braccia di Komaru, che piangeva insieme a lei ma continuava a sussurrarle parole di conforto.

Quando uscì dal bagno Komaru era già andata via da un po’. Le aveva detto di aver bisogno di qualche minuto per riprendersi, esortandola a tornare da suo fratello, ma con la promessa di non buttarsi giù per nessuna ragione.
Ci proverò le aveva detto. Non era facile smettere di considerarsi inutile da un giorno all’altro, ma avere Komaru vicino bastava a spronarla. Magari prima o poi sarebbe riuscita a dirglielo a voce alta.
“Touko.”
Si voltò a destra e vide Togami vicino agli ascensori. Sembrava essersi ripreso anche lui dalle notizie di quel giorno.
Gli si avvicinò e si asciugò gli occhi ancora umidi col dorso della mano: “M-mi dispiace Byakuya-sama, s-sono impresentabile…”
Non finì la frase perché lui la cinse con un braccio e la strinse a sé.
“Loro non meritano le tue lacrime” disse. Ovviamente conosceva i retroscena della sua infanzia. Touko soffocò un singulto, e lui sussurrò ancora: “Tu non sei una persona cattiva, Touko. Sei una persona buona che ha vissuto cose orribili.”
Quella volta Byakuya-sama non si lamentò per la camicia bagnata di lacrime.

*

Depressione

La camera da letto di Aoi Asahina divenne improvvisamente gelida come il circolo polare artico.
“No! No! No! Non è vero! Stai mentendo Fukawa, stai mentendo!”.
“S-Smettila di scuotermi, mi fai male! Mi dispiace Asahina, credimi. Mi dispiace d-davvero tanto… ma non sto mentendo: ho visto tuo f-fratello Yuta… morire. Se non m-mi credi chiedi alla sorella di Naegi, c’era anche lei…”.
Le proteste di Aoi andarono sempre più affievolendosi fino a diventare una serie di singulti sommessi. I fiacchi tentativi di Touko di consolarla rimbalzarono contro un enorme muro di gomma.
La Scrittrice non trovò niente di meglio che lasciarla sola con il suo dolore.
E fu tanto dolore. Tantissimo dolore.
Prese a lanciare oggetti contro il muro, a sbattere prima le mani e poi addirittura la testa contro il suddetto muro, a bestemmiare tutti i kami per l’orribile scherzo che le avevano tirato.
In seguito, esattamente com’era venuto, il dolore se ne andò. Lasciando il posto alla depressione.
Mai del tutto. Anche nei momenti più grigi sentiva sempre un pallido indolenzimento nel centro del petto, ma rispetto alla prima reazione era quasi trascurabile.
Nei successivi giorni Aoi Asahina rimase tappata nel suo appartamento, principalmente osservando il soffitto con lo sguardo vacuo e la mente persa nei ricordi felici. Ogni tanto mangiava come un pulcino dai piatti che di volta in volta quel sant’uomo di Naegi le portava, ovviamente preoccupato dal suo stato emotivo. Le prime volte cercò addirittura di entrare per scambiare due parole e provare a tirarla su di morale, ma i continui e sempre più ruvidi rifiuti lo indussero a ripensarci in fretta. Lasciava i piatti vicino all’uscio dopo averla avvisata e se ne andava.
Si comportava proprio come un hikikomori, lusso che il loro mondo distrutto non si poteva permettere.
Feh. Almeno tengo viva una tradizione che non esiste più. Sono una filantropa.
A quasi una settimana di distanza dal ferale incontro con Fukawa, Naegi ebbe la malaugurata idea di presentarsi alla sua porta. E non per portarle da mangiare.
TOC TOC. “Asahina-san, posso entrare?”.
Il grugnito che si lasciò sfuggire doveva bastare come deterrente. Ma non lo fece.
“Asahina-san! Per favore, non lasciarmi qui fuori. Devo parlarti”.
Passarono dieci minuti con lei che, sdraiata sul letto, continuava a galleggiare nel suo mare di nulla interiore e lui che insisteva nel tentare di farsi aprire.
Poi una ormai dimenticata dose di forza di volontà la indusse ad alzarsi e a sbloccare la serratura, permettendogli di entrare.
“Oh, grazie” disse lui in tono dimesso. Pareva quasi vergognarsi di averla fatta desistere dal suo immobilismo.
Fece per accomodarsi ma lei non si mosse di un millimetro. Quello era il massimo che si sentiva di concedergli.
“...cosa vuoi?”. Il tono sarebbe stato quello di un cadavere se avesse saputo parlare.
“Ecco, vedi… è successa una cosa e ho pensato che fosse giusto comunicartela…”.
“...chi è morto?”.
“Eh? Nessuno, non è morto nessuno”.
“...non ci credo. I miei genitori e Yuta sono morti. I tuoi genitori sono morti. I genitori di Fukawa sono morti. Il padre di Kirigiri è morto. Il maggiordomo di Togami è morto. Sono morti tutti”.
“No, non tutti. E comunque non sto scherzando, stavolta non è morto nessuno! Anzi, è proprio il contrario. Abbiamo trovato Kenichiro-san. È vivo!”.
Kenichiro…
Kenichiro, il ragazzo di Sakura. L’unico combattente che l’Ogre non era mai stata in grado di battere. Colui che, dopo essersi ammalato, le aveva concesso il titolo di più forte del mondo con la promessa di restituirglielo una volta guarito.
E invece lei era morta e lui era ancora vivo. Che crudele ironia.
D’accordo, tutto molto bello (per modo di dire). Ma perché era venuto a riferirle questa cosa?
“...non capisco perché hai voluto dirmelo”.
Makoto prese ad affannarsi, pareva cercare le parole giuste per esprimersi: “Ecco Asahina-san, il fatto è che… non gli abbiamo ancora detto… di Oogami-san…”.
“...non lo sa?”.
“È molto debole e abbiamo preferito evitargli anche questo colpo. Non subito almeno, perché chiaramente prima o poi dovremo pur raccontarglielo…”.
“...e io cosa c’entro?”.
“Sai, per il fatto che era… la tua migliore amica… forse… sei la persona più appropriata…”.
“...non dire stupidaggini”.
“Come?”.
“...mi hai guardata in faccia, Naegi? Ti sembro in condizione di andare a dire a Kenichiro che Sakura, la ragazza che ama, si è suicidata?”.
“Non adesso! Puoi prenderti un po’ di tempo e…”.
“...non voglio”.
“Scusa?”.
“...ho detto che non voglio. Non glielo dirò”. E con quest’ultima frase gli chiuse la porta sul grugno, probabilmente lasciandolo come un baccalà ad osservare la maniglia.
Naegi doveva essere impazzito per aver pensato un’idiozia così grande. Non era mai stato uno da piani geniali magari, ma tanto in basso non era mai arrivato prima di quel momento. Eppure era ciò che Aoi pensava onestamente di lui.
Si sdraiò sul letto, lasciandosi di nuovo avvolgere dall’apatia.
Trascorsero altri giorni. La situazione non cambiò di una virgola.
Una mattina Asahina si svegliò meno provata del solito. Non ne capiva il motivo, ma sentiva di essere un po’ più vicina a com’era nei suoi momenti più fausti: senza muso lungo (sebbene non esattamente di buon umore), con una ritrovata e inopinata voglia di fare qualcosa per rendere la giornata degna di essere vissuta… e soprattutto un piccolo, striminzito sorriso.
Si guardò allo specchio, meravigliata. Era ben lontana dal mortaretto di vitalità che era sempre stata in passato, ciononostante si vedeva come un bocciolo pronto a fiorire. O forse non pronto, ma se non altro sulla buona strada.
Prese un respiro profondo.
“Avanti Aoi, Kenichiro ti aspetta. Deve sentire da te cosa è successo a Sakura”.

*

Accettazione

“Makoto”.
“Uh? Cosa c’è, Komaru? Non per essere antipatico, ma io avrei da lavorare”.
“Come fai?”.
“Come faccio cosa?”.
“Come fai a essere così tranquillo con quello che è successo… a mamma e papà?”.
“Bella domanda, sorellina. Anche se vorrei chiederti cosa ti fa pensare che io sia davvero tranquillo”.
“Ah, non so. Per esempio il fatto che in questo momento non sei prostrato per terra a piangere tutte le tue lacrime, come ho fatto io quando me l’avete detto”.
“Cosa ti suggerisce che non l’abbia fatto?”.
“Perché, l’hai fatto?”.
“Certo. Diavolo, erano i nostri genitori. Quale pezzo di pietra non li avrebbe pianti?”.
“È che ora sembri così… in pace con l’idea…”.
“Komaru, permettimi per una volta di essere il fratello saccente: passare quello che ho passato io ti dà una prospettiva diversa. La Kibougamine è stata un’atroce, dolorosa, terribile maestra di vita. Ti ho spiegato a grandi linee cosa mi è successo là dentro, no?”.
“Sì, e non riesco a immaginare cosa puoi aver provato”.
“Se ti interessa posso scendere un po’ più nei dettagli”.
“...so che me ne pentirò ma sì, mi interessa”.
“Allora preparati a un lungo, tortuoso viaggio nel terrore”.
“Ti prego, evita di muovere le braccia come qualche animatron brutto del luna park. Sei ridicolo”.
“Scusa. Era solo per fare un po’ di scena. Bene, il Gioco degli Omicidi… è stata un’esperienza traumatica come nessun’altra può sperare di essere. Ho visto di tutto in quel posto. A partire dal corpo senza vita di Maizono-san nella mia doccia”.
“S-Sayaka Maizono è morta nella tua doccia?”.
“Proprio così. Mi aveva proposto uno scambio di stanze, facendomi credere che fosse dovuto allo spavento. E invece voleva uccidere qualcuno e scaricare la colpa su di me, contando sul luogo del ritrovamento della sua vittima designata. Vittima designata che, alla fine, è stato colui che l’ha uccisa”.
“Che cosa?”.
“Aveva preso di mira Kuwata-kun, ma qualcosa nel suo piano è andato storto ed è stato lui a sedersi con noi a colazione la mattina dopo. Adesso, come pensi che possa aver reagito quando ho scoperto tutto questo?”.
“...”.
“Non lo sai? Dai Komaru, mi conosci”.
“Ti sei messo a urlare come una bertuccia isterica, ti sono venuti gli occhioni da cerbiatto terrorizzato e sei svenuto?”.
“Pressapoco. In effetti sì, sono svenuto. Sai, ho avuto l’onore di scoprire per primo il suo cadavere”.
“Oh santo cielo…”.
“E poi c’è stato Oowada-kun con Fujisaki-kun, con la gentile partecipazione di Togami-san… e non dirgli che te l’ho detto, altrimenti quello lì me la fa scontare da qui all’eternità. E Celes-san che si è portata dietro i poveri Ishimaru-kun e Yamada-kun. E Oogami-san… kami, Oogami-san. Che fine orribile le è toccata”.
“Perché? Che le è successo di così peggiore rispetto agli altri?”.
“Oogami-san si è suicidata per far sì che noi smettessimo di litigare a causa sua”.
“S-Stai… stai mentendo...”.
“Non sai quanto vorrei che fosse così. Ma è tutta la verità, nient’altro che la verità. Senza contare il momento in cui un nastro trasportatore mi stava conducendo, lentamente ma inesorabilmente, verso un simpatico compattatore per i rifiuti”.
“...”.
“Sei rimasta senza parole, eh? Beh, è comprensibile. Sono qui per pura fortuna e l’intervento di una testarda ed altruista intelligenza artificiale”.
“Sei stato salvato… da un’intelligenza artificiale?”.
“Già. Da quella e da un angelo sui cui capelli lilla era caduto un barattolo di ramen”.
“Mi stai facendo perdere…”.
“Scusa, è un gran casino e faccio confusione. Quel che sto cercando di dirti è che, in quelle tre settimane scarse, credo di aver afferrato appieno il vero significato del verbo morire. Ho assistito a tanti tipi diversi di morte: fisica, spirituale, della speranza e della lucidità mentale. Con questo non intendo sminuire il fato di mamma e papà, è stata una tragedia. Mi mancano Komaru, mi mancano da matti. Però… però…”.
“Cosa stai cercando di farmi capire?”.
“Dannazione, suonerò insensibile… ma mi sono abituato mio malgrado alla perdita. Al senso di vuoto. Al non sentire più le loro voci. Mi è capitato con un sacco di altre persone, e se sei forte abbastanza ne esci. Ti accasci sulle ginocchia, sfoghi l’inevitabile e giusto dolore per chi non c’è più… e ti rialzi. Loro non vorrebbero nulla di diverso per te”.
“Ci credi se ti dico che in questo momento sembri un venerabile maestro buddhista?”.
“Mi stai prendendo in giro?”.
“No Makoto, non ti sto prendendo in giro. Le tue parole e come le hai dette… sono colme di saggezza. Credimi, ti sto invidiando”.
“È una forma di invidia che, per quanto mi lusinghi, avrei preferito non conoscere. E comunque l’avere dei momenti di sconforto non è cosa di cui vergognarsi. In fondo siamo umani e rimaniamo, magari scioccamente, legati alle nostre emozioni e ai nostri affetti più cari. Se vengono a mancare trovo naturale esserne spiazzati e soffrirne”.
“Ecco, la tua aura di santità se n’è appena fuggita a gambe levate”.
“Sei veramente una scema. Vieni qui ora, abbracciami”.
GLOMP. CRASH.
“Ehi! Va bene che te l’ho chiesto io ma non c’era bisogno di farmi cadere dalla sedia!”.
“Il mio fratellone monaco saggio si merita questo ed altro. Sei tanto importante per me e spero che il momento in cui ci separeremo arriverà solo fra molti, moltissimi anni”.
“Ti voglio bene anch’io, piccola scapestrata. Ehi, stai piangendo...”.
“Mi dispiace, io sono solo la sorella del grande saggio. Non ho la sua maturità”.
“Maturità *sniff* ‘stocavolo…”.
“Makoto…”.
“Te l’ho detto, no? I momenti di sconforto sono ammessi. Quando poi le sorelle pestifere ti provocano…”.
“Ma io non ti ho provocato!”.
“Sì che l’hai fatto, disgraziata! Piuttosto, avevi ragione a temere di pentirtene?”.
“Per niente. È stato un discorso molto interessante, anche se agghiacciante in certi particolari”.
“Pensa me che l’ho vissuta sulla mia pelle, questa cosa”.
“E nonostante tutto resti ancora il caro, vecchio, solare Makoto Naegi. Sei straordinario fratello, davvero”.
“Non lo credo, ma se lo sono io lo puoi essere anche tu. Condividiamo gli stessi geni”.
“E piantala, cretino!”.
“Perché dovrei, Komaru? Lo penso sul serio”.
“...grazie. Finché sarai al mio fianco l’assenza di mamma e papà peserà meno su di me”.

*

Bonus: Cura

Quella era stata indubbiamente la giornata più pesante da quando erano riusciti a scappare dalla Kibougamine e Hagakure si sentiva mortalmente in colpa perché, tutto sommato, in quel momento riusciva ad essere sereno.
Non avevano fatto altro che ricevere brutte notizie, identificare corpi e affrontare lutti, e i suoi amici ne erano usciti devastati, chi più chi meno; lui, al contrario, non aveva versato una lacrima, non per se stesso almeno: sua madre Hiroko era viva e vegeta e aveva ringraziato ogni divinità esistente al mondo per quel dono.
Ma non riusciva a non sentirsi un verme per essere così sfacciatamente felice mentre i suoi amici piangevano i loro cari: aveva visto Naegi farsi forza e sostenere la sorellina alla notizia dei loro genitori trovati morti; aveva sentito Fukawa piangere per una famiglia che non l’aveva meritata; Kirigiri aveva perso il nonno (vivo, ma così fermo sulle sue posizioni da spingerla a lasciare quel che rimaneva della famiglia); aveva saputo della crisi di Togami alla notizia della morte del suo maggiordomo; aveva assistito impotente al crollo di Asahina sotto al peso della tragica fine del fratellino, e aveva idea che quella sarebbe stata solo la punta dell’iceberg. Non bisognava essere Super Veggenti per predirlo.
Si lasciò andare a un sospiro lungo e stanco, chiedendosi in che razza di mondo si erano ritrovati a vivere, dove ragazzi così giovani erano stati costretti a massacrarsi tra di loro, seppellire chi non ce l’aveva fatta e riconoscere le spoglie dei propri cari. Un pensiero fugace lo rivolse anche a Junko Enoshima, artefice di tutta quella disperazione.
Ah ah, disperazione. Non faccio ridere neanche me stesso.
“Tutto ok, Yasu-chi?”
Si voltò verso sua madre, appena entrata nell’area ristoro dove lui e il resto del gruppo avevano deciso di passare il resto della serata.
“Oh, niente di che” rispose, e la ringraziò per la tazza di caffè che la donna gli aveva portato. “Mi sento solo molto in colpa.”
“In colpa per cosa, esattamente?”
“Beh” tentennò lui, “a me oggi è andata bene, tutto sommato. Insomma, tu sei viva” sorrise, “grazie anche a Fukawa-chi. Ma loro…” indicò il resto del gruppo, scompostamente addormentato sui divanetti della sala ristoro. Sorrise quando Togami si lasciò sfuggire un unico, singolo ronfo, incrinando la sua immagine di uomo tutto d’un pezzo anche nel sonno.
Hiroko aspirò una boccata di fumo dalla sua sigaretta: “Non hai nulla da rimproverarti, Yasu-chi. Non hai colpe per le tragedie che li hanno colpiti.”
Lui mise un broncio decisamente infantile: “Lo so, ma mi dispiace non poter fare nulla di concreto per loro. A parte rifornirli di fazzoletti e di una spalla su cui piangere, intendo.”
“E ti sembra poco?” sorrise lei. “Non dare per scontate le piccole cose, sono quelle che la gente tende ad apprezzare di più. E in momenti come questi avere qualcuno che si prende cura di te è sempre bello” rispose, scompigliando i rasta del figlio. Si congedò borbottando qualcosa sul fatto che stava per finire le sigarette, e che avrebbe fatto due passi fino al distributore giù nell’atrio.
Hagakure rimase solo a guardare i suoi amici dormire. Ripensò alle parole di sua madre, e si trovò a concordare: lui non aveva colpe, né poteva fare qualcosa di più di ciò che stava già facendo. Se avesse avuto poteri da negromante avrebbe riportato in vita i loro cari, e magari anche il resto della loro classe. Sarebbe stato bello averli alla Foundation. Ma lui non era un negromante, e non è che fosse un grande fan degli zombie.
Si disse che prendersi cura di loro offrendo sostegno morale era il meglio che poteva fare. Decise di mettersi subito all’opera, andando a recuperare un paio di coperte dal ripostiglio (fare tardi a lavoro non era solo un modo di dire, alla Future Foundation): ne usò una per coprire quel domino umano formato da Naegi, che abbracciava la sorellina e Kirigiri, l’altra per coprire Togami e Fukawa (stranamente vicini, gongolò tra sé e sé). “Ah, Togami-chi, cominci a diventare pericoloso con l’alcol, sai?” ridacchiò bonariamente, afferrando la bottiglia di birra vuota dalla sua mano. In effetti è un mezzo miracolo se non siamo già tutti degli alcolizzati pensò. Rivolse un pensiero ad Asahina, chiusa nel suo appartamento, e si intristì: per quella sera non poteva fare nulla per lei, ma si ripromise di pensarci. Magari le avrebbe comprato le migliori ciambelle che il market aveva da offrire, o le avrebbe cucinate lui stesso (sperando di non far saltare per aria il suo appartamento).
Si accomodò su una poltroncina libera e si sistemò meglio che poteva, usando la sua giacca come coperta improvvisata.
Era stata una giornata stancante per tutti, persino per lui.
Era stanco di vedere soffrire i suoi amici.
   
 
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