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Autore: ale93    16/06/2016    4 recensioni
"And I ain't done nothing wrong, but I can't find my way home."
Alla fine, almeno le ceneri rimarranno.
[End!verse]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome | Contesto: Quinta stagione
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Ashes remain.

You are the reason I've been waiting all these years.
Somebody holds the key.
Stil I can't find my way home, and I ain't done nothing wrong,
but I can't find my way home.

-Eric Clapton

 

 

 

Aveva trovato il biglietto ad aspettarlo sul comodino, accanto ai sonniferi.
Per tutto il giorno, aveva finto di non riconoscere la grafia sgraziata e storta con cui era stato scritto, probabilmente cancellato e rimarcato più di una volta.

Castiel si era lasciato cadere sulla paglia ispida dell'unica sedia della sua baracca e aveva puntato i gomiti sul tavolo, giurando a se stesso che quelle sette parole non esistessero. Non potevi fare niente per lei.

Avrebbe continuato ad andare avanti come sempre, si ripeteva. Avrebbe continuato ad imbracciare fucili, uccidere a sangue freddo e poi tirare dritto per la sua strada. Avrebbe finto che quella mattina di giugno non fosse mai esistita. Che i Croat non avessero mai raggiunto il confine, che non ci fosse stato il bisogno di accalcarsi ai cancelli di Camp Chitaqua con le armi puntate in avanti e nessuna esitazione nello sguardo. Nessun dolore nel petto per quelle che un tempo erano state persone, prima che mostri. Uomini, donne e bambini, prima che incubi.

Avrebbe finto, si diceva, che non fossero stati infettati a decine. Non avrebbe mai dovuto dire a se stesso di aver visto la pelle dei suoi compagni marcire lungo i bordi dei morsi.

E non avrebbe mai, mai, mai ricordato che ad aprire il fuoco contro di loro fosse stato Dean. Che quella ragazzina alta poco più di un metro, con i piedi scalzi, la pelle più bianca che avesse mai visto prima che i Croat l'avvelenassero, fosse caduta davanti a lui. Un rivolo cremisi in mezzo alla fronte e gli occhi serrati.

Non potevi fare niente per lei.
E nemmeno io.

Afferrò uno degli ultimi fiammiferi dalla scatola e lo accese.

La memoria umana è labile, si ripeteva, e in qualche modo avrebbe cancellato il ricordo di quel velo di orrore ch'era calato sugli occhi di Dean un attimo prima di sparare. Avrebbe chiuso in uno stipetto del suo cervello l'immagine di quell'unica lacrima incastrata tra le ciglia di Dean, mai pianta sul serio, come del resto era sua abitudine, insieme a tutto ciò che di lui un tempo aveva conosciuto. Le sue pacche sulle spalle, il modo in cui offriva una birra come un conforto, i sorrisi aperti ma fragili, come di vetro. La gratitudine e il rispetto incondizionato, talvolta il risentimento, che riusciva ad indirizzare verso Castiel solamente con uno sguardo.

Niente sarebbe tornato.

Fissò il biglietto bruciare velocemente tra le sue mani. Sarebbero rimaste solo ceneri.

 

§

 

Dean non venne a cercarlo. Non fino a quando il medico del campo non sparse la voce che le scorte di sonniferi e antidolorifici erano sparite tutt'insieme.

S'incontravano, certo, nel capanno delle armi, quando Castiel aveva bisogno di cercare cartucce per i suoi fucili e Dean aveva voglia di tornare a fare cose semplici, come pulire le canne delle sue semiautomatiche. Una volta o due gli aveva rivolto un cenno con il capo e Castiel aveva abbozzato un saluto. E persino, forse, un leggero ghigno.

Nel silenzio gelido e statico che s'era gonfiato intorno a loro, Castiel aveva costruito la graziosa abitudine di fingere.
Era più facile pensare di non aver mai conosciuto quello che Dean era stato.
Era più facile quando non incontrava il suo sguardo, quando non poteva vedere i suoi occhi di allora dietro il gelo di quelli nuovi.

Ma Dean si presentò a notte fonda nella sua baracca.
Senza chiedere permesso – perché non ne aveva mai avuto il bisogno – , aveva scostato la tenda di perle di vetro colorato con cui Castiel aveva sostituito la vecchia e inutile porta, ed era entrato.
Non era una sorpresa che si arrogasse il diritto di prendere posto nella vita di Castiel e disfarla a suo piacimento.
Un tempo gli era piaciuto. Un tempo credeva che lasciarsi trattare come un uomo qualsiasi da Dean lo avesse reso più vicino all'umanità. Ma aveva sempre mentito a se stesso e i suoi fratelli lo avevano da sempre deriso per quella che era una verità visibile a tutti, meno che a lui: Castiel non voleva essere prossimo all'umanità. Castiel voleva esserne parte.
E Dean, lui aveva esaudito il suo desiderio nel più temibile dei modi: aveva fatto in modo che provasse quello che prova un uomo, che sentisse come sente una persona. Che soffrisse come avrebbe sofferto chiunque altro.

Castiel lo fissò seduto sul bordo del letto, la testa inclinata e un sorriso sornione sulle labbra. I farmaci gli facevano quell'effetto, lo rendevano particolarmente sarcastico in viso al dolore.
Le ultime parole che Dean gli aveva rivolto le ricordava come si ricorda una coltellata al costato. «Se devi vomitare, vattene da qui». Un colpo preciso, metodico. Dritto al punto.
Castiel aveva seguito il consiglio, quel giorno. Aveva lasciato cadere le armi e, senza correre, aveva raggiunto il retro della sua baracca. Era caduto sulle ginocchia tra le piante di marijuana.

Amy. La ragazzina che aveva visto morire si chiamava Amy.
Le aveva tenuto la mano, una volta, quando aveva perso la fotografia di sua madre. Per farla smettere di piangere, le aveva regalato uno crocefisso di legno intagliato. L'aveva accontentata, recitando con lei un Ave Maria. Castiel non credeva in quelle preghiere, non più. Ma quello che lo meravigliava ancora, a quel tempo, era la speranza semplice che sbocciava sul viso della gente, sul viso di quella bambina, al pensiero che un'inutile cantilena, una filastrocca, potesse in qualche modo operare per rimettere in ordine il mondo. Per renderlo migliore.
Ricordava il sorriso, di Amy, e i suoi capelli. I capelli dei bambini sono così sottili, non ci aveva mai fatto caso prima d'allora.
E quel giorno, quel giorno l'aveva guardata morire, la zazzera rossa sparpagliata sul terreno come una corona sulla sua testa.
Si chiamava Amy.
E lui aveva vomitato tra le piante di marijuana per lei.

Aveva cercato di confinare anche questo particolare pensiero, assieme a tutti gli altri, in quel cassetto della sua testa chiuso a doppia mandata che non avrebbe riaperto mai e per nessuno, neppure per se stesso. Più volte si era illuso di esserci riuscito. E non si stupiva poi molto d'essersi sbagliato. Castiel era sempre stato un ingenuo.

«Sei fatto,» si sentì dire duramente. Dean lo fissava dall'altro capo della stanza, addossato al muro come avesse paura di lui. Eppure quello sul suo viso non era il timore di un uomo al cospetto di una creatura più potente, più grande, più antica di lui, no. Dean temeva la sua presenza come avrebbe temuto quella di uno squilibrato. Castiel lo trovava divertente.
«Però, che occhio.»
«Quindi sei tu il ladro della farmacia. Da quando ti droghi? Papino non vi ha programmati per non cadere in tentazione?» Lo disse con una rabbia così infantile, che Castiel non riuscì a trattenere un sorriso. La sfrontatezza di Dean aveva la straordinaria attitudine a rimanere illesa. Sempre. Era familiare. La riconosceva. E non avrebbe voluto.
«Non ho idea di cosa ne pensi Dio, ma io sto piuttosto bene così come sto» rispose semplicemente, mettendosi in piedi per sgranchirsi la schiena. Andò incontro a Dean con l'unico scopo di ridere di lui quando si fosse ritratto per l'invasione del suo spazio personale.
Lo fece.
Una risatina raschiò il fondo della gola di Castiel.
«Che cazzo ti è successo, Castiel.»
«Quello che è successo anche a te, suppongo,» scrollò le spalle, allungandosi verso la dispensa per afferrare il whiskey. Ne versò due bicchieri.
Dean lo guardò in viso per una manciata di secondi con un rancore irriconoscibile a gonfiargli le vene del collo e a rendergli più pesante il respiro. «Quegli antidolorifici servono a chi ne ha bisogno per non crepare di dolore,» sibilò a denti stretti, «vedi di ricordartelo.»

Se ne andò senza guardarsi alle spalle. La tenda di perline tintinnò per qualche secondo.

Castiel restò a fissare il bicchiere intoccato di Dean ancora fermo al centro del tavolo, e buttò giù in un sorso il suo whiskey.
Si sfilò la maglietta e la gettò sul pavimento.
Era sporca di sangue sulla parte del dorso. Di nuovo. Allungò una mano per toccarsi una scapola, la ferita aveva i bordi frastagliati.
Non avrebbe mai più riavuto le sue ali, ora che cadevano piuma a piuma scollandosi da quel poco di grazia che gli era rimasta addosso. Eppure Dean non poteva sapere.

Dean non poteva vedere.

Castiel non lo biasimava per questo, ma avrebbe voluto.
Avrebbe voluto saper odiare Dean e quello che era diventato, avrebbe voluto veder bruciare l'ultimo, malconcio filo che lo legava ancora a lui.
Sarebbe stato più facile, sarebbe stato conveniente. Castiel era molto più lontano dal paradiso e dall'angelo che un tempo era stato di quanto non lo fosse chiunque altro a Camp Chitaqua.
E per quanto tempo Dean lo avrebbe tenuto con sé? Per quanto, prima che diventasse un peso. Per quanto, prima che diventasse facile accettare l'idea che un giorno anche Castiel sarebbe diventato debole e corrotto e che proprio lui, Dean, guardandolo negli occhi, avrebbe dovuto sparargli un colpo in mezzo alla fronte prima che il virus lo trasformasse.

«Me lo ricordo bene a cosa servono gli antidolorifici, Dean,» disse al vuoto, riempiendosi ancora una volta il bicchiere. «Me lo ricordo tutti i giorni.»
 

§

 

Le orge arrivarono quando la marijuana e le anfe e la vodka smisero di farlo sentire come se stesse volando, e cominciarono, piuttosto, a dargli le vertigini. Una sensazione così stupidamente umana da farlo incazzare.

Amanda e Nicole erano le sue migliori allieve di 'cultura dello spirito'. Seni grandi, bocche morbide e la pelle sempre calda sotto il suo tocco. Non rabbrividivano mai durante il sesso. Lo prendevano in bocca come fosse cibo. Lo cercavano spesso per la meditazione. Soprattutto, prima delle missioni di ricognizione.

Iniziò come un gioco. Castiel non aveva problemi a concepire il sesso come una scoperta o una distrazione e loro accettavano di buon grado di rendersi terre d'esplorazione, a patto che il Maestro (così lo chiamavano, con una riverenza a cui non era più abituato) non le giudicasse.

Finì in un pomeriggio di ottobre, quando Dean scostò la tenda d'ingresso della sua baracca dopo settimane dall'ultima volta, e i suoi occhi caddero su loro tre, al centro della stanza, sul tappeto.

Lo vide stringere la bocca in una linea sottile. Incurante, Amanda leccò una striscia di pelle lungo il petto di Castiel, e morse nel punto più vicino al collo. Le spalle di Dean s'irrigidirono e Castiel pensò che quello fosse un ottimo momento per rivolgergli finalmente la parola. «Non dirmi che fai il timido, adesso.» Nicole si lasciò sfuggire un risolino soffiato sul suo orecchio. Castiel non le prestò attenzione.

Il rossore sul collo di Dean, spariva nell'apertura della sua camicia. «Fra dieci minuti. Capanno delle armi.» Disse solo questo. E se ne andò.

Castiel rise, scrollandosi di dosso le sue compagne. Lasciò da parte la biancheria ed infilò i jeans lisi. Il metallo freddo della zip premette contro la sua erezione. «Lo avete sentito, signore,» disse distrattamente, mentre infilava la testa nella maglia raccolta dal pavimento. «Dobbiamo interromperci, sfortunatamente.»
 

Voleva che si lasciasse tatuare. Un simbolo antipossessione, per l'esattezza.
Glielo disse nel capanno delle armi, con gli attrezzi già pronti e l'occorrente per sterilizzarli sul tavolo. Non lo guardava in viso. Non lo guardava e basta, da molto più della metà del tempo che avevano trascorso a Camp Chitaqua.
Qualche volta dimenticava che questo non era il Dean che aveva conosciuto, il suo Dean, quello che aveva trascinato fuori dall'Inferno, e così accarezzava e giocava con l'insulso pensiero che all'uomo che gli stava davanti importasse ancora qualcosa.
Di lui, di loro, del mondo.
Di qualcosa che non fosse uccidere Satana. Che non fosse la vendetta.

Ma Dean stappò una birra con un gancio della giacca e ne ingoiò tre sorsi. Lo indicò con il collo della bottiglia e disse «Non voglio perdere molto tempo. Ti faccio un disegnino sulla spalla e poi torni a scoparti chi ti pare.»
E Castiel si lasciò cadere su una sedia, proprio davanti a lui, incrociando le mani sotto il mento. Una risata bassa e distratta gli risalì alle labbra. «Sembra quasi che le mie attività private ti offendano in qualche modo. Hai trovato la via monacale mentre non guardavo?»
«Castiel.» Lo disse minacciosamente, un suono tagliente a raschiargli la gola. «Non voglio dover pensare a tutti quelli che potrebbero trovarsi col culo scoperto davanti ad un demone. Non ne ho il tempo.»
«Credo di potermela cavare da solo, grazie dell'interessamento.»
«Questa non è una richiesta amichevole. È la regola.»
Castiel allungò le gambe e si sgranchì il collo, sorrise guardando il soffitto. «Oh, questa è bella. Ho appena ricevuto un aut-aut, grande capo? O mi faccio deturpare o mi dai in pasto ai Croat? È questa la regola?»

Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva pronunciato il suo nome. Quando, con precisione, avesse lasciato scivolare sulla lingua quel suono, più caldo e familiare di qualunque posto avesse considerato casa, prima. Prima di lui.
Ne ricordava la sensazione.
Ricordava di provare la stessa cieca, bastarda fiducia che un uomo imprime nelle parole di un Padre Nostro.
Ricordava di aver amato quel nome come un angelo non avrebbe dovuto amare niente di terreno.

Ma di quel nome erano rimaste ceneri. Una sporcata, brutta imitazione: il Leader. Il suo Leader.

«Non costringermi a farlo.»
«Non sono io che ti costringerò a fare niente, è una tua scelta.»
Dean posò la birra sul tavolo, accanto al suo braccio. Si piegò verso di lui. «Guardati intorno. Siamo nel duemilaquattordici. Io non posso scegliere niente. Se un figlio di puttana demoniaco decide di farsi un giro nella tua testa mentre sei troppo impegnato a calarti una dose o a fotterti qualcuno, non ci sarò io a salvarti il culo.»

Castiel lasciò vagare lo sguardo sul suo viso. Per la prima volta dopo nove mesi gli parve di vedere un luccichio nei suoi occhi. Non vera preoccupazione, no quella no si disse impossibile, ma ne vide il suo pallido fantasma. E ricordò cosa significasse avere qualcuno che temesse per la sua sorte. Gli bastò.

Alle due e quarantotto del mattino, Castiel si rimise in piedi nel capanno delle armi. Aveva una fasciatura attorno al petto, lo sguardo fisso sulle sue mani. La sua maglia era abbandonata in un angolo della baracca e la sua schiena era più scoperta di quanto avrebbe mai dovuto permettere, nuda e vuota come una conchiglia sbeccata.
Le cicatrici alla mercé del giudizio di Dean.

Dean lasciò andare la testa contro il muro, sdraiato dietro di lui su due casse di legno sistemate come un divano d'alta classe. Tre birre abbandonate sul pavimento, una di loro rovesciata sul legno vecchio. «Potevi dirmelo, cazzo.»
Castiel si grattò un occhio svogliatamente. La pelle del petto tirava intorno al tatuaggio dai bordi ancora rosso fuoco sotto la fasciatura, ma non troppo fastidiosamente. Era sopportabile. «Che non sono più un angelo? Credevo avessi già fatto due conti.»

Con la coda dell'occhio lo vide guardare verso di lui, verso le sue scapole martoriate. Le ferite non si sarebbero mai rimarginate, ma poco importava. Non era di quello che si vergognava.

Le labbra di Castiel non sapevano più pronunciare il nome dell'uomo per cui si sarebbe strappato quelle ali a mani nude. Quello, quello bruciava più del sale sulla carne viva.

 

§

 

Il duemilaquattordici volse al termine nella sua baracca, con la Colt abbandonata sul tavolo al centro della stanza e bottiglie di assenzio accatastate sul tappeto.

Si accese una pipa d'erba e rise aspirando un po' di fumo. Dean, altrettanto ubriaco, altrettanto delirante, si lasciò cadere sul pavimento accanto a lui. Tossì stupidamente.
Nessuno sapeva che la missione fosse andata a buon fine. Nessuno, tranne Castiel, sapeva che l'indomani mattina avrebbero guidato le loro belle e fiammanti jeep fino alla fine della strada. Giù dal precipizio, dritti nella bocca dell'inferno. Verso la fine.

Quando Castiel si allungò verso Dean e gli afferrò una mano, fu per assecondare la testarda, maledetta incapacità di dirgli vorrei ritrovarti, da qualche parte prima che fosse troppo tardi.
Quando rise più forte prendendogli il mento tra indice e pollice, per asciugargli un po' d'assenzio dagli angoli della bocca, fu per trattenere le sue stesse dita dall'accarezzargli il viso e le cicatrici, per non impararne i nuovi contorni e ritrovarne gli spigoli che conosceva di già.

Quando raccolse tra le proprie le labbra umide di Dean, fu per non guardarlo negli occhi, per non baciargli le palpebre stanche.

Quando strinse nel pugno la sua maglietta all'altezza del petto e spinse la lingua nella sua bocca, fu per non ricordarsi che l'indomani, all'alba, sarebbe morto per lui.

Il duemilaquattordici volse al termine quando sbottonò maldestramente i jeans del suo leader e si abbassò con la bocca a leccargli una coscia. Dean sbattè più di una volta la nuca contro il pavimento duro ed imprecò. Ma per un momento, per una sola, distratta, dimenticata parentesi di tempo, a Castiel parve che la sua mano gli accarezzasse le nocche scorticate.

Dean aprì gli occhi nel buio della baracca.
E Castiel, finalmente, lo vide di nuovo.

«Dean.
Dean

Ma fu solo per un istante.

 

   
 
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