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Autore: _Akimi    19/06/2016    0 recensioni
[Accenni U.S.A. x Japan]
"Lui amava la Luna, irraggiungibile, delicata, unica; aveva dimostrato a sé stesso che la propria vita non sarebbe mai stata del tutto soddisfacente, che qualcosa sarebbe sempre mancato e che quel piccolo tassello a completare la propria esistenza l'aveva lasciato lì, assieme a tutto il resto."
Genere: Comico, Science-fiction, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Giappone/Kiku Honda
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Way Back Home{28 Luglio 1969}

Alfred Jones osservò il suo riflesso rispecchiato sulla superficie liscia del bancone dove si teneva appoggiato; la mano a sorreggergli il mento e poco più a fianco, come aveva spesso osservato in TV, una tazza con il logo della trasmissione che gli avevano promesso di lasciargli una volta finita l'intervista, sempre se contento di quel caffè lungo che gli era stato servito per aiutarlo durante quella chiacchierata.
Qualcosa di completamente informale – così gli aveva detto l'avvenente giornalista del Today che, con un'occhiata tra il curioso e l'infastidito, aveva iniziato il programma con i soliti saluti mattutini, un sorriso stampato sul viso ad augurare buon giorno a tutti gli americani che li stavano seguendo e un blocchetto a portata di mano per iniziare a tempestare di domande il nuovo eroe degli Stati Uniti.

«Abbiamo qui con noi Alfred Jones, l'uomo di ritorno dalla Luna, il pioniere dello spazio. E' un piacere poter parlare con te, che cosa ne pensi del tuo atterraggio a casa?»
La donna sorrise, le gambe accavallate sotto la scrivania e quel suo sguardo a fissare la figura dell'astronauta, ancora un po' confuso dall'essere davvero ritornato in patria, nei suoi amati Stati Uniti d'America.
Ancora non ci credeva, una parte di sé si sentiva ancora là tra le stelle, gli astri e sulla superficie bianca, vergine della Luna con i suoi magnifici crateri e con i misteri che solo lui aveva avuto modo di scoprire e che, sebbene fosse suo dovere, non si sentiva ancora di rivelare.
Era stato lui, Alfred Jones, il prescelto, a partire per lo spazio, a raggiungere sano e salvo quel piccolo, magnifico satellite e aveva lasciato la propria impronta nella storia perché, lo sapeva, sarebbe divenuto l'idolo dei ragazzini americani, si sarebbe ritrovato sulle copertine delle riviste, le donne l'avrebbero adorato e gli uomini avrebbe provato orgoglio per lui e per l'intera nazione.
Al diavolo i russi – qualcuno diceva; la corsa allo Spazio era stata vinta da un giovane che reincarnava l'America nei suoi lati migliori: sorriso smagliante, capelli color oro e un paio di iridi celesti, di un azzurro così profondo da ricordare il colore della Terra vista dallo spazio.
Sì, Alfred era stato fortunato: era partito dall'essere un semplice universitario e dipendente della NASA per poi ritrovarsi catapultato in un'altra realtà, quella che lo vedeva ritratto come il nuovo simbolo del paese, del suo magnifico paese.

«Lo ammetto, non volevo perdermi la Major League di Baseball, sullo spazio non hanno tutte queste cose.»
Un sorriso sarcastico illuminò il volto del giovane astronauta e la giornalista, dalla prima volta da quando si erano presentati quella mattina, rise in tutta sincerità, sistemandosi sensualmente un ciuffo di capelli dietro all'orecchio.
«Da quello che sappiamo sei un gran tifoso dei Giants, pensi che sarà una bella partita?»
Alfred accennò brevemente con le testa; non guardava un match di Baseball da moltissimo tempo, gli ultimi mesi, tra esercitazioni e altro lavoro, lo avevano distrutto e per questo non si ritrovava davanti alla TV con una buona birra da quando era stato assegnato al lancio dell'Apollo 11, sacrificio più che corretto, ma gli era mancata la sensazione piacevole del semplice oziare e desiderava davvero un periodo dedicato solo a sé stesso, alla sua casa a San Francisco e ai suoi familiari che, una volta ritornato sulla Terra, lo avevano visto più in televisione che nella loro città.
«Non voglio portare sfortuna, ma sono certo che la National League possa vincere, scommetto tutto su di voi ragazzi.»
Rivolse lo sguardo verso la telecamera posta al centro dello studio e sforzò un sorriso non particolarmente convinto, ma sapeva essere un ottimo bugiardo e la stanchezza non si mostrava mai sul suo viso, sopratutto quando gli si richiedeva di essere l'eroico Alfred Jones che tutti adoravano.
Amava così tanto il suo paese da mettere da parte i propri bisogni personali; ora si accontentava di essere il più grande astronauta della storia, un pilastro per la nuova società americana e il precedente incontro con il presidente Nixon lo aveva così emozionato da obbligarlo a trattenere le lacrime, sopportando persino le battute del padre che, nonostante ormai fosse adulto, lo trattava come il ragazzino che aveva decorato la sua piccola camera con costellazioni, pianeti e altri accessori strambi.

«Ritornando a noi, ormai è il sogno di tutti i bambini, quello di viaggiare con una navicella. Quali sono le caratteristiche per essere un buon astronauta?»
La domanda della donna pareva così banale che Alfred non riuscì a trattenere una breve risata: la sua era stata solamente fortuna, nonostante fosse orgoglioso e sicuro di sé, sapeva di non avere nulla di speciale confronto a tutti gli uomini che precedentemente erano morti nel tentare quell'impresa; aveva pregato prima di partire, aveva pensato alla sua famiglia, ai pranzi che gli preparava la madre, alle espressioni severe del padre che, in fin dei conti, era un uomo dal cuore sensibile e poi al fratello, un sognatore come lui, che passava il tempo a prendersi cura dei luoghi naturali, incontaminati del continente americano.
Sì, Alfred aveva pregato durante il conto alla rovescia, aveva osservato il volto preoccupato del suo compagno e non appena avevano lasciato l'orbita terrestre, il suo animo era divenuto più leggero, in parte sollevato d'aver raggiunto lo spazio senza preoccupazioni.
Il suo viaggio era appena cominciato: la Terra osservata dall'esterno era così affascinante da rendere gli occhi del giovane lucidi dall'emozione; aveva sognato quel momento da quando era un ragazzino e in quel giorno, le sue ambizioni avevano preso forma di un oblò che gli permetteva di osservare la magnificenza del suo pianeta d'origine.
Poi la Luna, bellezza dalla forma sferica, bianca come le Montagne Rocciose in inverno; aveva poggiato il piedi sinistro sul satellite, l'impronta del suo stivale era rimasta lì, simbolo del suo passaggio, assieme alle contrastanti emozioni che lo avevano pervaso quando aveva cominciato a fluttuare, saltellando come un bimbo che scopre qualcosa per la prima volta nella sua vita.

«Qualcuno dirà loro che sarà impossibile, che solo uno su cento o mille può farcela, ma la fortuna sa essere imprevedibile e alle volte è proprio quando smettiamo di credere che riusciamo a farcela.»
L'espressione seria che la giornalista trovò dipinta sul viso di Alfred parve quasi spaventarla, ma le sue parole la colpirono a tal punto da lasciarla in silenzio, senza più sapere cosa aggiungere.
Jones era stato capace di superare i limiti dell'impossibile, di varcare soglie che mai prima di quel momento gli uomini avevano preso in considerazione e l'amore che permeava dalle sue parole era rivolto a tutti: a sé stesso, ma anche alla sua Nazione, al posto in cui era cresciuto e alle persone che l'avevano reso un eroe, sentendosi lusingato al pensiero di essere divenuto un simbolo indiscusso.

«Cosa ti mancherà di più della Luna, Alfred?»
La domanda conclusiva colmò di tensione la sala, l'uomo aggrottò la fronte e rimase così, immobile, per attimi che parvero minuti; non parlò, non rispose alla richiesta sino a quando non riuscì a formulare una frase che potesse racchiudere appieno ciò che aveva provato là, lontano da casa.
Sapeva di non poter raccontare tutto: aveva fatto una promessa ed essendo una persona di parola, non poteva tradirsi per il bene di quell'incontro inaspettato che gli aveva cambiato la vita.
Pensò alla graziosità che lo aveva accecato una volta giunto sulla Luna, allo sfiorare di un corpo etereo, dell'allegoria di una perfezione introvabile sulla Terra e così un sorriso amaro gli incupì il volto perché, sebbene ritornato a casa, aveva ormai lasciato tutto nello spazio: il suo cuore, la sua anima, la sua mente.
Ora si sentiva un uomo vuoto, solo l'orgoglio rattoppava le ferite date da una mancanza incolmabile, un buco nero che portava via tutto ciò che lo aveva reso quell'Alfred Jones e il desiderio di ripartire di nuovo scalpitava dentro di sé, come un fuoco pronto ad ardere il suo animo nel profondo.
Lui amava la Luna, irraggiungibile, delicata, unica; aveva dimostrato a sé stesso che la propria vita non sarebbe mai stata del tutto soddisfacente, che qualcosa sarebbe sempre mancato e che quel piccolo tassello a completare la propria esistenza l'aveva lasciato lì, assieme a tutto il resto.

«Tutto. Mi mancherà tutto della Luna.»
Abbassò gli occhi ed evitò lo sguardo della giornalista, quasi vergognandosi di aver reso quell'intervista così spenta, priva di quella gioia data da un eroe che ha molto da raccontare; tuttavia, Alfred non aveva più nulla da dire, tutto ciò che aveva visto era bastato per renderlo un uomo conosciuto in tutto il mondo, ma nulla rimaneva di lui nello spazio, se non essere una fibra docile di un componimento più grande e più imponente.
* * *

 
Moon River{22 Luglio 1969}

Si lasciò trasportare dalla sensazione di essere così leggero, fluttuava nel vuoto e non sentiva più il bisogno di provare o di pensare a nulla: non sapeva dove si trovava, non voleva saperlo.
Aveva superato il mare Tranquillità già da un paio di minuti e si allontanò dalla propria navicella senza neppure rendersene conto.
I crateri davano una superficie irregolare alla Luna e ora che si trovava sopra di essa, si rese conto che la sua forma non era perfetta, proprio come quella della Terra, ma la magnifica desolazione che ritrovava sul satellite lo rendeva compartecipe di un senso di pace che andava ben oltre ai sensi di un semplice umano; si sentiva piccolo, ma non miserabile, perché la Luna aveva un qualcosa di materno che Alfred non riusciva a spiegarsi e così ogni piccolo cratere sembrava un grembo di donna pronto ad accogliere nuova vita e quel grigio pallido, quasi bianco, la rendeva ancora più candida e pura agli occhi di Jones che, abituato alla frenesia e al caos di San Francisco, ritrovò il proprio Io nel silenzio che lo avvolgeva.
I suoi passi non facevano rumore e solo il suo respiro riecheggiava nell'elmetto ingombrante, ricreando un suono metallico a cui era ormai abituato.
Aveva passato così tanto tempo ad esercitarsi, ma nulla pareva scontato in quello che ora stava osservando: la realtà era diversa, scombussolava una personalità forte come la sua ed era proprio Alfred ad accettare di sentirsi nervoso, insicuro davanti agli sconosciuti ritmi del satellite; il fantasticare infantile che lo aveva accompagnato sino agli anni dell'Università ora iniziava ad avere un senso più concreto, finalmente sarebbe ritornato a casa e avrebbe esclamato di aver toccato la Luna, di aver davvero visto con i propri occhi le bellezze nascoste dal lato non visibile dagli umani e avrebbe riportato con sé piccoli reperti, come speciali cartoline da spedire a parenti e amici.

Tuttavia, quel viaggio non simboleggiava solamente un passo per l'umanità: era stato anche un percorso che lo aveva aiutato a crescere come scienziato, ma sopratutto come persona; gli anni della Guerra Fredda facevano gravare su di sé una grande responsabilità, ma ora che aveva raggiunto la vittoria, non si sentiva più importante di un qualche astronauta sovietico; voleva rimanere lo stesso Alfred Jones che tutti conoscevano, appassionato di sport, imbranato con le donne, ma disposto ad essere un perfetto gentiluomo, sopratutto perchè pronto ad aiutare gli altri.
Sì, il raggiungere la Luna era stata la tappa finale di una lunga analisi della sua esistenza, dei propri limiti e delle proprie qualità: così Alfred aveva compreso di essere un uomo qualunque, non invincibile, ma in costante miglioramento e aperto al confronto.
Rimaneva il testardo Jones che i suoi genitori sgridavano, l'uomo che spesso trascurava la propria famiglia perché chiuso in un mondo tutto suo, ma ritornato a casa li avrebbe stretti in un grande abbraccio e avrebbe raccontato della sua esperienza con la responsabilità di far conoscere ciò che aveva scoperto.

Alzò gli occhi, le nuvole non esistevano più; ciò che aveva sopra la sua testa non poteva essere chiamato cielo, ma le stelle erano una compagnia rincuorante ed ora parevano ancora più brillanti, con una luce a rischiarare la già luminosa Luna che, ancora una volta, mostrava di non essere poi così diversa dalla Terra.
Un conseguirsi di zigzaganti montagne proiettava ai piedi dell'astronauta una serie di ombre maestose e nella sua semplicità, Alfred sorrise, ricordando dei giorni passati nei paesaggi innevati in Canada assieme a suo fratello, al suo essere impedito su un paio di sci e alle altezze che non gli avevano mai creato problemi, anzi, si divertiva nel sentire la madre lamentarsi per le basse temperature e per il senso di vertigini che la faceva barcollare incontrollata.
Osservò con curiosità le rocce davanti a sé, allungò la mano e ne raccolse un paio, ripromettendosi che ne avrebbe conservate alcune anche per i suoi amici, idea frutto di una stupida scommessa vinta dal momento che fu scelto per il progetto Apollo.

Proseguì, vagando in quel nulla che diventava poco a poco più familiare; trovò altri laghi, altri monti e altre stelle a segnare il suo cammino; non aveva idea di quanto il tempo passasse in quello stesso attimo sulla Terra.
Cosa stava pensando il presidente di lui? Sua madre stava di nuovo stirando qualche sua camicia per renderlo presentabile in pubblico? Oh, immaginava suo fratello in quel preciso istante.

«Matthew, stai rubando i miei vinili?»
Esclamò ad alta voce, perdendo equilibrio nel ridere senza controllo; aveva impressa nella mente l'immagine del fratello in camera sua, nascosto tra l'anta aperta del suo armadio e il mobiletto in legno dove conservava con ordine tutti i suoi 33 e 45 giri, prezioso tesoro che era costato non pochi dollari ai suoi genitori.
«Che la smettesse una dannata volta con quei Beatles.»
Mormorò poco dopo, trovando una posizione confortevole, sebbene non toccasse nessuna superficie solida; l'idea di appisolarsi per un paio di attimi poteva decisamente trasformarsi in realtà, ma dopo qualche breve momento di pausa, si decise a proseguire, prestando poca attenzione a quanto fosse lontano dalla navicella.
Il suo collega era rimasto ai comandi, si era preoccupato di perimetrare quanto possibile l'area vicino al loro punto di atterraggio, ma come sempre, la testardaggine di Alfred lo aveva portato ad andare ben oltre ai loro calcoli e dopo lunghi minuti di vagare nel vuoto, si voltò, accorgendosi di aver perso l'unico oggetto che lo ricollegava al suo arrivo.

«Aldrin, credo di essermi allontanato un po' troppo. Riesci a rilevare la mia posizione?»
Alfred sistemò il microfono che lo collegava alla navicella, ma dopo lunghi attimi di silenzio, solo un confuso contatto radio riecheggiò nel suo elmetto, obbligandolo ad una smorfia perché infastidito dall'eccessivo rumore.
«Aldrin, sono Jones. Ripeto: quanto disto dalla navicella?»
La sua voce tremò appena, il nervosismo iniziò ad avere la meglio su di lui, ma cercò di mantenere la calma, sebbene numerosi tentativi di contatto furono inutili e l'esito finale non fu diverso dai precedenti: nessuna risposta, solamente trasmissioni che non portavano a nulla.
«Merda.»
Sospirò a bassa voce nel tentativo di riprendere autocontrollo, ma più passava il tempo e più si rendeva conto di ciò che stava accadendo: si era perso, aveva smarrito la strada e ora era realmente costretto a vagare nel vuoto, nella speranza che la Dea Bendata potesse assisterlo e riportarlo a casa.
Cercò di mantenere un respiro regolare perché, da quello che aveva imparato nei numerosi addestramenti, l'ossigeno era oro lì, sulla Luna, e ogni singola molecola sprecata significava morte certa.
Era stato allenato per incidenti – era questo che continuava a ripetersi, nella speranza di ritornare sui propri passi e ritrovare la maledetta navicella, ma nulla di ciò che aveva precedentemente incontrato sembrava occupare la sua vista e quell'incantevole desolazione iniziò a trasformarsi in un incubo, in una sensazione di claustrofobia, sebbene si ritrovasse nello spazio, senza limiti posti dalla società, dalle etichette, da stupidi valori.
Solo lui e il satellite.

Appoggiò un piede sulla superficie polverosa e ancora una volta librò in aria, cercando vanamente di dimenticarsi di ciò che aveva attorno.
Era sulla Luna, diamine, la Luna! Non poteva lasciarsi abbattere dalla negatività, doveva sentirsi in capo al mondo: immaginava i giornali con il suo viso sorridente in prima pagina; avrebbero dichiarato Alfred Jones nuovo eroe nazionale e bandiere a stelle e strisce l'avrebbero accompagnato al National Mall di Washington, mentre Nixon avrebbe appuntato sul suo petto la migliore delle onorificenze americane, stringendo lui la mano per ringraziarlo dell'operato compiuto.
Sì, Alfred Jones era un eroe, l'eroe; i suoi lunghi anni di studi avrebbero ripagato la fatica di un viaggio oltre lo spazio e neppure la paura, in quel attimo, poteva sopraffare la successiva gloria di quell'impresa e così si fece coraggio, lo stesso Jones bambino che era caduto dalla bicicletta così tante volte da sbucciarsi le ginocchia, lo stesso Jones che aveva ricevuto non pochi rifiuti da parte delle ragazzine più belle del liceo.
«Ne vale la pena, fino alla fine. Proviamoci.»
Bisbigliò tra sé e sé, proseguendo in quella che pareva una landa abbandonata a sé stessa; nessun segno di vita sembrava disturbare il lungo viaggio del solitario Alfred, ma forse il fascino della Luna risiedeva proprio nel suo essere irraggiungibile e l'astronauta sapeva che gli era stata concessa un'esclusiva unica e le forti emozioni che ora lo confondevano lo aiutavano a scolpire nel proprio animo ogni singolo passo, ogni singolo attimo.


Pensò di aver scoperto tutto, di quel satellite sferico, ma finalmente qualcosa attirò la sua attenzione all'improvviso e i suoi sospiri si fecero a poco a poco più incontrollati, sino a quando non raggiunse un cratere più piccolo degli altri, ma perfetto nella sua circonferenza.
All'interno di esso trovò una misteriosa figura accasciata al suolo; non sapeva di che cosa si trattasse, se si potesse fidare, ma in quel momento, la sua fantasia lo aiutò ad immaginare vite mai osservate prima d'ora, forse di creature di cui gli umani non conoscevano neppure il nome e solo dopo lunghi attimi, chinandosi verso quel corpo, si accorse che due occhi scuri erano puntati proprio verso di lui.
Lo stava osservando, qualsiasi cosa esso fosse.
 
* * *
I get Around{Maggio 1969}


Alfred viaggiò per le lunghe strade di San Francisco, la Cadillac riverniciata del padre lasciava che qualche ragazzo si voltasse al suo passaggio esclamando versi di sorpresa perché, sebbene fosse datata anno 1959, non dimostrava poi così tanti anni e il bel sorriso del biondo aiutava certamente a renderla una macchina più apprezzabile.
Quel verde metallizzato aveva fatto arrabbiare non poco la madre che, come al solito, si era ritrovata a gridargli addosso non appena aveva posteggiato davanti a casa, la radio ad alto volume con qualche canzone dei Beach Boys e Alfred che se ne stava bellamente con il sedile abbassato e i piedi appoggiati contro il cruscotto dell'auto.
«Ti voglio bene anche io mamma, ora chiama Matt!»
Esclamò con tono allegro, osservando la donna rientrare in casa con uno dei suoi finti bronci dipinti sul viso, ma non appena il figlio prediletto si scontrò contro di lei sul corridoio d'entrata della villetta, un sorriso ritornò ad illuminare il suo volto sciupato e Matthew si scusò per non aver prestato troppo attenzione perché troppo impegnato a sistemarsi le stringhe delle scarpe.
«Non fate ritardo e avvisa tuo fratello che la cena è alle 7, non più tardi.»
La donna, non allo stesso modo paziente con entrambi i suoi figli, lo salutò con un bacio sulle tempie per poi osservarlo correre lungo il vialetto della casa, saltando in macchina non appena Alfred fece ripartire il motore.

«Salutaci papà!»
Matthew alzò la voce per farsi udire dalla donna e quest'ultima, prima di chiudere definitivamente la porta, fece cenno con la mano e augurò loro buon viaggio, sapendo che i due fratelli non avrebbe fatto altro che girovagare per la città, ma era contenta per entrambi perché era passato molto tempo da quando non li vedeva divertirsi assieme.
Sapeva quanto Alfred fosse impegnato con il lavoro e lo stesso valeva per Matthew, sebbene meno estroverso e apparentemente meno ambizioso del fratello, avevano tutti e due ereditato la grande forza di volontà dei genitori e ogni giorno vivevano con la consapevolezza di poter rendere l'America un posto migliore in cui vivere.

«Hey, come va il tuo lavoro con le piante?»
Domandò Alfred non appena Matthew si sistemò al meglio sul sedile, abbandonando il proprio zaino nel sedile posteriore; lanciò un'occhiata stupita al fratello e accennò un sorriso di circostanza perché, nonostante gli volesse bene, non era certo che fosse realmente interessato alla sua vita e le domande che gli poneva non erano altro che un conseguirsi di formalità che tra parenti dava solo spazio all'ipocrisia.
Perdonava spesso Alfred per questi suoi atteggiamenti; non era mai stato il fratello maggiore perfetto, anzi, avevano spesso litigato per le cose più stupide, ma aveva dimenticato per il bene di entrambi tutti i suoi errori e il suo essere gentile, dopo molti anni di indifferenza, lo lusingavano, ma lo facevano sentire anche un ingenuo.
«Bene, stiamo creando dei nuovi ibridi, ma nulla a che vedere con mio fratello che va sulla Luna. Come ti senti?»
Matthew si sistemò la montatura degli occhiali contro il naso e si sporse per vedere l'espressione dipinta sul volto dell'altro che, a quella domanda, poggiò il braccio contro il finestrino aperto ed evitò di puntare gli occhi sulla strada, approfittando del semaforo rosso che li obbligava a rimanere fermi.
«Normale, non sono né eccitato né spaventato. E' lavoro.»
Alfred sospirò con fare annoiato, ma non appena ritornò con lo sguardo sul lungo viale, si tradì e un ampio sorriso gli illuminò il volto, lasciando che Matthew gli pizzicasse la guancia come a volerlo risvegliare da un sogno che pareva essere una magnifica realtà.
Voleva davvero gridare al mondo intero di essere proprio lui, Alfred Jones, l'uomo scelto per cambiare la storia dell'umanità, e il suo ego rappresentava al meglio le bandiere a stelle e strisce lasciate sventolare dai balconi degli edifici pubblici perchè mai come in quel momento si sentiva orgoglioso di essere americano e neppure la sua famiglia, per quanto avesse condiviso la grandiosa notizia con loro, potevano comprendere come si sentisse esaltato e onorato.
«Secondo te ci sono davvero gli alieni, lì in alto?»
La domanda di Matthew giunse un po' all'improvviso, tanto da obbligare Alfred a frenare di colpo, quasi rischiando di investire una povera signora che si era appostata sulle strisce pedonali, proprio nella speranza di non essere colpita da qualche sbadato guidatore.
L'anziana lanciò un'occhiata di rimprovero ai due giovani e questi ultimi, all'unisono, mostrarono uno dei loro sorrisi migliori, domandando scusa con un breve gesto del capo.
«Ma che diavolo mi domandi, Matt?»
Il rimprovero da parte di Alfred non fece sentire in colpa il più giovane, anzi, il tono austero utilizzato dall'altro lo divertì solamente poiché lo conosceva bene e anche se non voleva ammettere di essere rimasto ancora un bambino, Matthew sapeva che Alfred fosse completamente convinto di non essere i soli ad abitare quel sistema solare.
«Sto dicendo che potresti incontrare un Tony sulla Luna.»
«Sì, va bene; devi ogni volta tirare fuori la storia su quello stupido peluche?»
Non era solito infastidirsi nel parlare della sua infanzia, ma era incredibile come si ritrovasse molto spesso a parlare delle medesime cose con suo fratello; alle volte pensava che Matthew lo facesse di proposito; seppur buono e ingenuo, c'era per forza qualcosa in lui che lo spingeva ad insistere su argomenti di poco conto e si ritrovavano così a discutere sulle strambe fantasie di Alfred bambino o della sua ossessione per qualche creatura che giurava di aver visto nelle notti passate sotto le coperte.
Raccontava che un paio di occhi erano lì, ad osservarlo sempre, qualcuno doveva essersi fatto una bella tana sull'albero di fronte alla sua finestra – questo diceva alla madre quando lo trovava con un paio di brutte occhiaie sotto gli occhi, ma ora anche lui aveva cominciato a non crederci più e i suoi studi lo avevano reso sempre più sicuro delle sue nuove idee.
«Ognuno ha i propri. Anche io dicevo che gli orsi mi parlavano, quindi siamo pari.»
Alfred accennò un sorriso e cancellò dalla mente qualsiasi cattivo commento riservato a suo fratello; era vero, Matthew sapeva essere uno sciocco, se si metteva di impegno, ma era bravo anche a supportarlo, ad appoggiarlo nelle sue folle imprese e gli voleva bene nonostante fossero così diversi tra loro.
«Solo perché la mamma ha partorito in Canada, non fa di te un canadese.»
L'esclamazione fece ridere entrambi e il tempo della loro infanzia e adolescenza parve passare davanti ai loro occhi; sembrava essere trascorso un attimo da quando entrambi si erano messi in posa per quelle sciocche foto durante le vacanze invernali, con le loro cioccolate calde, gli sci ingombranti e la madre che li copriva fino alla testa con sciarpe, cappelli e scomodi scarponi che, come sempre, li obbligavano a camminare come dei piccoli pinguini sulla neve.
Matthew preferiva l'inverno, forse perché si rispecchiava nelle temperature fredde che avevano spesso ritrovato in Montana o in Ontario, mentre era proprio Alfred ad essere il ragazzo da spiaggia, con la tavola da surf sotto il braccio e una buona bibita fresca da condividere con amici e ragazze.

«A proposito di Canada...»
Il tono della discussione si fece di colpo serio; Alfred non si azzardò a voltarsi verso il fratello, ma percepiva evidentemente il suo nervosismo e solo lungo il rettilineo del Golden Gate Bridge convinse il maggiore a distrarsi dalla strada, osservando Matthew con lo sguardo abbassato, le mani a stringere la camicia con forza.
«Ho trovato lavoro là.»
Non erano servite domande per spezzare quel silenzio divenuto sempre più fastidioso e imbarazzante; no, le iridi violette di Matthew incontrarono quelle celesti di Alfred e i due fratelli per lunghi attimi non si dissero nulla, sapevano di avere entrambi bisogno di rielaborare quella notizia.
Mai come in quel momento il percorso del magnifico ponte sembrò così lungo; il tragitto pareva non finire mai, come se i due avessero deciso di imbarcarsi per un viaggio più profondo, che andasse ben oltre alla loro città, allo stato o persino all'intero continente.
La loro vita stava cambiando in così poco tempo e loro, forse per scelta o per involontaria ingenuità, non si erano accorti di cosa rischiavano di perdere per un bene superiore, per il passo che ormai li aveva portati definitivamente all'essere adulti perché, anche Alfred lo sapeva, la società non li vedeva come ragazzini già da molti anni ed era normale, per una famiglia, dividersi nella speranza di avere un futuro desiderato.
«E quindi...» L'astronauta bisbigliò a bassa voce; una parte di lui preferiva non crederci, ma non poteva mentire a riguardo: passava ben poco tempo con Matthew e sapere che avesse finalmente trovato un luogo adatto a lui era ciò che contava poiché, allo stesso modo, anche Alfred aveva visto il suo più grande sogno realizzarsi ed era inutile lamentarsi per una scelta che condivideva completamente.
«Sì, mi trasferirò lì a breve. Alberta, dicono che non è male.»
Il più piccolo sforzò un sorriso e Alfred fece lo stesso, non trovando altro modo per replicare all'immediata notizia.
Pensava ai suoi genitori: doveva essere un cambiamento importante accettare che i loro figli fossero ormai cresciuti, ma forse questo comprendeva tutti gli adulti, una volta deciso di creare una famiglia, e la determinazione che Matthew aveva dedicato al suo lavoro lo rendeva un giovane uomo pronto a qualsiasi sfida.

«Mi dispiace, ma appena avrai la cittadinanza, non ti parlerò più.» Iniziò a parlare, dedicandogli un sorriso sarcastico. «Un fratello canadese, il mio peggior incubo.»
A quel commento, anche Matthew non riuscì a trattenere una risata divertita, ma già ne era consapevole, Alfred sarebbe stato sempre e comunque il suo miglior sostenitore.
 
* * *
 
Fly me to the moon{22 Luglio 1969}

Alfred sentì il fiato mancargli all'improvviso; portò d'istinto la mano al petto e sentì il proprio cuore battere incontrollato, a ritmi così elevati da estraniarlo completamente dalla realtà in cui si trovava.
Non si ricordava di essere partito, l'unico dettaglio che lo riportava alla verità erano quel paio di occhi scuri che non avevano smesso di guardarlo, scrutandolo nel profondo del proprio animo.
Per pochi attimi si era sentito violato, come se quella creatura misteriosa avesse scoperto di lui più del dovuto e, sebbene estroverso e allegro, anche una persona come Jones si ritrovò a pensare di essersi esposto troppo, di aver fatto comprendere le sue debolezze a qualcuno che non aveva il diritto di conoscerlo così a fondo.
Alfred era confuso, la testa volteggiava creando figure che lo portavano a confondere la fantasia con la realtà effettiva e tutto ciò che poteva riconoscere non era altro che la sua tuta, che ancora aveva indosso, e il suo elmetto abbandonato lontano da sé, privandolo dell'ossigeno necessario a farlo vivere in un ambiente ostile e opposto alla Terra.
In quell'esatto momento, il panico ebbe la meglio su di lui: voleva pensare di essersi addormentato, che quello non fosse altro che un incubo da cui svegliarsi, ma allungando la mano verso il proprio viso, si accorse finalmente di essere proprio lui, in carne ed ossa, con i polmoni a riempirsi di aria ad ogni respiro e con il sangue a pulsargli nelle vene, vivido, come aveva sempre fatto nel suo corpo giovane.
Con le dita si sfiorò le guance; queste ultime erano umide, come se si fosse concesso ad un pianto liberatorio, ma ancora non sapeva dove si trovasse o chi l'avesse salvato da una morte certa.
Forse il suo collega l'aveva ritrovato, doveva essere necessariamente così, ma più si osservò attorno, più si rese conto di non riconoscere nulla di quell'interno e i mobili attorno a sé erano asettici, strambi nel loro stile sobrio, ma nulla che aveva mai visto in tutta la sua vita.
Era stato adagiato su un letto - un materasso, a dire il vero - ove qualcuno si era preoccupato di preparare una pila di cuscini, poggiando lì la testa dell'astronauta con delicatezza; la piccola stanza lo rendeva un estraneo, certamente, ma aleggiava un'atmosfera che non lo metteva a disagio, semplicemente lo incuriosiva e lo portò ad alzarsi lentamente, sentendo una forte fitta colpirlo al collo.
Era stato sdraiato per molto tempo, o forse aveva preso un brutto colpo da qualche parte; questo ancora doveva scoprirlo, ma ora ciò che più lo preoccupava era scoprire chi l'avesse soccorso e sopratutto, perché l'aveva portato in un posto come questo.

Una volta alzatosi dal letto, Jones girovagò per la camera, osservando i pochi oggetti che la rendevano un poco più personale: cercò di comprendere quale tipo di persona potesse averlo salvato, ma nessun dettaglio attirò particolarmente la sua attenzione, arrivando alla conclusione che il misterioso salvatore non amasse farsi conoscere o sbandierare anche la più piccola delle cose di sé.
Gli occhi azzurri di Alfred, tuttavia, si posarono su un quaderno attentamente rilegato: la copertina era lucida, probabilmente in metallo, e all'interno un paio di fogli sparsi erano segnati con strani simboli, lettere che l'astronauta non aveva mai visto prima.
Alcuni bozzetti permisero lui di comprendere con più attenzione quel piccolo tesoro: era ormai chiaro che il proprietario di quel quaderno – e molto probabilmente, della camera intera – avesse provato il medesimo interesse che gli umani avevano per il suo pianeta; Alfred si stupì nel trovare disegni così dettagliati sulla Terra, sulle sue catene montuose, sui fiumi e sugli stati costituiti dopo secoli di storia.
Voltò pagina attentamente e ciò che scoprì dopo lo allarmò, non perché necessariamente preoccupato, ma non poté nascondere un'espressione sorpresa quando, superati i fitti appunti incomprensibili, incontrò con lo sguardo un ritratto, il suo ritratto.
L'autore del disegno doveva essere un acuto osservatore – questo pensò Jones, notando l'incredibile somiglianza data da quell'astronauta in miniatura che nulla aveva di diverso dall'originale.
Certo, pareva forse più straordinario e affascinante del vero Alfred Jones, ma quest'ultimo non ne era per nulla dispiaciuto, anzi, pensò che chiunque l'avesse ritratto potesse provare molta stima per il genere umano, o in alternativa, si trattava di pura curiosità scientifica.
Non era spaventato da ciò che lo aspettava: una grande scoperta – era questo il pensiero che non abbandonava la mente dell'ormai promettente eroe degli Stati Uniti; in quanto tale, si sarebbe presentato come inviato della Terra e avrebbe fatto tutto il possibile per mostrarsi pacifico, peculiarità piuttosto inusuale per un americano, ma forse quell'alieno già conosceva tutto di lui, delle sue abitudini, della sua nazione, e così qualsiasi presentazione sarebbe stata inutile.

Posò il quaderno dove l'aveva trovato e si voltò, notando che la porta della camera era ora aperta e che dietro di essa, nascosta attentamente, si ritrovava quella figura che aveva incontrato attimi, o forse più, fa: gli stessi occhi scuri lo fissavano, non trasmettevano né paura né astio, solamente lo scrutavano, quasi ad assicurarsi di avere di fronte a sé un umano, un vero uomo proveniente dalla Terra.
«Hey, scusa, non volevo spiare tra le tue cose.»
Alfred decise un approccio diretto, non formale, forse perché la figura davanti a sé gli ricordava un qualsiasi ragazzo giovane, più basso della media americana, ma c'era un qualcosa che incuriosiva Jones abbastanza da non obbligarlo a stare sulla difensiva.
«E' la tua camera, vero?»
Domandò, non ricevendo risposta.
Si sentì sollevato nel vedere l'alieno avvicinarsi a sé; aprì la porta e finalmente Alfred poté osservarlo con attenzione: carnagione chiara, molto pallida, un viso femmineo e i capelli corvini, di un magnetico nero che creavano un armonioso contrario con la pelle bianca; Jones non poté mentire a sé stesso: era carino, con qualsiasi parola potesse definirlo, eppure non immaginava che un extraterrestre potesse assomigliare così tanto ad un suo simile.
Asiatico? - pensò, evitando di concretizzare le sue riflessioni; non voleva creare tensione tra di loro e quello che aveva compreso di lui era che non sembrava così disposto a parlare di sé, né tanto meno di iniziare una conversazione per cominciare a conoscersi.
«Lo so che non dovrei fare così tante domande, ma non pensavo di trovare dell'ossigeno qui, sulla Luna. Sei un umano?»
Pareva una domanda piuttosto sciocca, ma molti progetti rimanevano un mistero alle orecchie di un semplice astronauta come lui; forse i sovietici avevano superato gli statunitensi da molto, nulla era scartabile in quel momento, ma la possibilità che avesse incontrato un comunista non pareva convincerlo per nulla: come poteva spiegarsi quella strana scrittura? E poi, più di tutto, l'URSS non avrebbe aspettato a rendere pubblica una notizia come un atterraggio sulla Luna, motivo per cui Alfred ritirò poco dopo le sue parole.
«Ok, ovvio che non lo sei. Io sono Alfred, posso sapere il tuo nome?»
Si sforzò di mostrare uno dei suoi sorrisi migliori, increspando le labbra per sembrare il più cordiale possibile; davanti a sé aveva una creatura sconosciuta, certamente, ma il suo aspetto non la rendeva minacciosa, anzi, la sua corporatura minuta e i lineamenti poco marcati lo rendevano molto più innocente del gioviale Jones che, pur di colmare quel silenzio con qualche frase, ricominciò a parlare, avvicinandosi a piccolo passi al suo nuovo amico.

«Non voglio farti nulla, ma non mi piace parlare da così lontano.»
Alzò le mani in segno di resa non appena vide l'altro indietreggiare, facendosi piccolo contro la parete bianca.
Era normale provare timore – questo era ciò che pensava raramente Alfred in compagnia di qualcun altro, ma in questo caso biasimava la ritrosia del suo nuovo compagno, seppur il suo silenzio non fosse di gran aiuto per rendere la situazione più accettabile e chiara.
«Kiku.»
Un piccolo sospiro riecheggiò nella mente dell'americano; vide l'altro piegare leggermente le labbra rosee, sforzandosi di ripetere quelle due sillabe che, dopo così lunghi attimi di attesa, ad Alfred parvero colme di significato, un richiamo che lo rincuorava perché, qualsiasi cosa avesse detto l'altro, lo portava a pensare di essere compreso, o almeno, un primo tentativo di conversazione iniziava proprio da lì, da quella semplice parola.
«Come?»
«Mi chiamo Kiku.»
Ancora una volta parlò, timidamente, ma abbastanza forte da essere udito dal biondo, ormai in estasi al solo pensiero di aver fatto una così grande scoperta; così, questo suo nuovo amico, Kiku, così diceva, poteva aiutarlo a ritornare a casa, alla sua navicella, e Alfred Jones non solo sarebbe stato il primo uomo ad andare sulla Luna, ma anche il primo ad avere incontrato una vita extraterrestre.
«E' davvero un bel nome. Pensi di potermi dire dove siamo, Kiku?»
Il più piccolo accennò con la testa, avanzò finalmente verso l'astronauta per poi superarlo, senza nessun timore, per riprendere il suo quaderno e mostrare lui uno schizzo perfetto della sua stanza e infine dell'intera struttura che li accoglieva.
Le dita fini di Kiku seguivano le linee del disegno, indicando silenziosamente ogni piccolo dettaglio dell'edificio; Alfred non era mai stato un appassionato di arte o di architettura, motivo per cui non riuscì a riconoscere nulla del palazzo che aveva davanti a sé, ma gli bastò per comprendere qualcosa in più sulla persona che ora aveva accanto, ritrovandosi a sorridere spontaneamente non appena i loro sguardi si incontrarono, vedendo il modo in cui Kiku l'osservava imbarazzato.

Non voleva essere scoperto mentre osservava l'umano, ma sebbene cercasse di mostrarsi composto e imperturbabile, il suo cuore batteva all'impazzata e diamine, finalmente aveva un vero umano davanti ai suoi occhi!
Ancora non poteva crederci: li aveva studiati per così tanto tempo, ma nulla era paragonabile con ciò che quell'astronauta gli stava involontariamente mostrando; il suo sorriso, le sue iridi celesti, la sua stramba e ingombrante divisa; tutto parve materializzarsi nella piccola realtà di Kiku in un unico colpo, inaspettatamente piacevole, ed erano così tante le emozioni a travolgerlo, che l'extraterrestre non sapeva se tentare, parlando con lui, oppure chiudersi in sé stesso, allontanando la grande possibilità che aveva ora di fronte.
«Alfred.»
Ripeté il suo nome, una, due, tre volte – voleva essere certo di aver compreso, che quello strano insieme di lettere fosse davvero uno dei modi di chiamarsi di loro umani e accadde per caso, ancora quell'incresparsi di labbra che Kiku non capitava a fondo, ma le espressioni di quell'Alfred erano così spontanee da portarlo di nuovo ad indietreggiare, nascondendo con garbo l'evidente imbarazzo che la sua vicinanza gli causava.
«Alfred Jones, ad essere precisi.»
Sospirò lui in modo infantile; era piuttosto incuriosito dall'atteggiamento che Kiku aveva nei suoi confronti: non sembrava davvero spaventato, ma la sua ingenuità portava l'animo dell'americano a proseguire un po' per conto suo, senza una particolare logica, come se l'innocenza di quell'alieno lo lasciasse instabile, senza sapere esattamente cosa dire o come dirlo.

«Siete venuto con questa, vero?»
Kiku aprì il suo quaderno davanti allo sguardo attento dell'altro; si coprì il volto con il disegno perfetto della navicella della NASA e abbassò di poco il proprio blocchetto solamente per lanciare un'occhiata al biondo che, incontrando il suo sguardo, lo vide solo pochi attimi dopo nascondersi di nuovo dietro al proprio bozzetto.
«Sì, in realtà non sono solo. C'è anche un...»
«Deve andarsene, subito.»
L'improvviso cambio di tono lasciò stupefatto Alfred; non pensava che quell'iniziale ed eccessiva timidezza potesse trasformarsi davvero in ritrosia e cinismo, non a tal punto da sentirsene offeso, ma la pacata aggressività che trapelava dalle sue parole fece ridere l'americano che, seppur in svantaggio in una situazione come quella, non si trattenne dal dire una delle sue ironiche battute.
«Hey, è il mio lavoro essere qui, non mi puoi cacciare.»
Forse aveva esagerato nel pensare che quel piccolo uomo non l'avrebbe allontanato con la forza, ma non poteva crederci, non riusciva ad immaginare qualche atto violento da parte sua e credeva fortemente di poterlo convincere.
Quella era un'occasione importante per gli Stati Uniti, ma valeva allo stesso modo per quell'alieno – o in qualsiasi altro modo si facessero chiamare – perché da quanto aveva compreso Alfred, quel Kiku era piuttosto interessato al suo aspetto, al suo modo di comunicare e dalla sua provenienza, dettagli che portavano un piccolo vantaggio all'americano.

«Mi state sottovalutando.»
Era una costatazione piuttosto reale, ma nonostante l'evidente tono neutro da parte del più piccolo, Alfred rimaneva della sua idea, le espressioni che Kiku gli riservava non parevano realmente dettare ostilità, semplicemente – si ritrovò a pensare Jones – doveva essere obbligato da qualcuno ad allontanare l'umano, forse per preservare la sicurezza di altri suoi simili.
«Sottovalutare non è la parola corretta. Noi americani diciamo "fregarcene."»
Un sorriso divertito gli illuminò il viso non appena Kiku abbassò lentamente le braccia, le labbra socchiuse e la fronte leggermente corrucciata perché studiare così tanta teoria non era stato sufficiente per comprendere appieno i comportamenti dei terrestri, sopratutto se carismatici e sinceri come Jones.
«Senti Kiku, io voglio scoprire qualcosa di te e tu vuoi scoprire qualcosa di me, non c'è nulla di male ad essere curiosi.» L'approccio non era decisamente dei migliori, ma Alfred non voleva essere formale; il giovane che aveva di fronte poteva essere un suo coetaneo, certo più piccolo e più grazioso, ma questo non cambiava l'obiettivo dell'astronauta.
Qualcosa suggeriva lui di potersi fidare: Kiku pareva una di quelle persone un po' afflitte dalla diffidenza e dalla timidezza, ma con Alfred Jones nessun problema era necessariamente un vero problema e sì, doveva ammetterlo, erano bastate un paio di occhiate da parte dell'altro per obbligare il biondo a cancellare dalla propria mente qualche pensiero di troppo che gli ricordava quanto quell'alieno fosse carino, a suo modo.
«Puoi scegliere anche di lasciarmi morire là fuori, ma non posso assicurarti che i prossimi umani che incontrerai saranno gentili quanto me.»
Ok, lo sapeva, peccava davvero di presunzione, tuttavia, Alfred non voleva ci fossero fastidiosi fraintendimenti tra di loro e i due potevano semplicemente instaurare un buon rapporto, di amicizia persino! Anche se Kiku non sembrava avvezzo a quel genere di cose, un ostacolo che non spaventava per nulla l'estroverso Jones.

«Non voglio.» Bisbigliò a bassa voce, le sue gote che si imporporarono per un attimo e gli occhi ad ingrandirsi lentamente, maledicendosi per aver esplicitato i proprio desideri davanti al suo sconosciuto amico.
«Non posso.» Aggiunse solo poco dopo, quasi intenzionato ad abbandonare una volta per tutte l'uomo fuori dal proprio rifugio; ripensandoci, però, si rese conto che non poteva renderlo possibile perché lasciare morire Alfred significava al contempo lasciar morire l'unica speranza che gli era capitata, casualmente, per realizzare uno dei suoi sogni più grandi.
Aveva studiato tutto degli umani: si era innamorato del loro pianeta, della loro lingua, del modo in cui interagivano tra loro e aveva anche imparato ad odiarli perché, da quello che aveva potuto osservare nel corso degli anni, anche loro odiavano, abusavano dei loro simili e utilizzavano la violenza come arma.
«Ed ecco il problema! Chi dice "non posso?" »
Domandò appoggiando entrambe le mani sulle piccole spalle dell'altro, scuotendolo con gentilezza per allontanarlo dal torpore che stava avendo la meglio su di sé.
«Chi non prova, nulla è impossibile.»
La positività di Alfred era spesso contagiosa, questo valeva quando si ritrova tra colleghi, in famiglia o solo con sé stesso, ma l'espressione che Kiku gli riservò poco dopo non sembrava adatta ad una persona realmente convinta e persino Jones, in un momento di disperazione, arrivò a pensare che quegli alieni dovessero essere comandati da una pessima influenza negativa, elemento che non avrebbe mai permesso a Kiku di essere e di fare ciò che voleva.

«Non è una decisione mia, Alfred.»
Sospirò a bassa voce, vedendo che l'americano non era per nulla disturbato dalla sua risposta; pareva quasi che se l'aspettasse, un'esclamazione di quel tipo, e il sorriso dolce che gli riservò destabilizzò per pochi, lunghi attimi Kiku, ancora disorientato dall'improvviso contatto fisico che univa i loro corpi in quel momento.
Non era abituato a nessuna dimostrazione d'affetto, di gesti di consolazione e neppure di frasi capaci di rianimare le speranze; sulla Luna non c'era nessuno capace di tali cose ed era proprio per tale motivo che Kiku non riusciva ad allontanarsi dall'altro, interessato segretamente da ogni suo piccolo movimento.
Le mani di Alfred a contatto con le sue spalle erano calde, forse erano quegli strambi guanti a mantenere quel tepore familiare e il solo pensiero di avvicinarsi all'umano fece arrossire all'improvviso il moro, allontanandosi garbatamente per non essere obbligato ad ascoltare più nessuna scusa.

«Che cosa vuole sapere?»
Bastò quella domanda per vedere Jones sorridere, nascondendo un sentimento di gioia che lo rendeva di nuovo bambino.
 
* * *
 
 
{Giappone, 8 settembre 1951}


Kiku si inginocchiò a terra, un paio di ciuffi scuri a coprirgli il viso sporco di fango mentre con la mano destra teneva stretto un giglio bianco, preoccupandosi di non spezzarne lo stelo.
Si era messo a correre per strada già da un paio di minuti, il fiato iniziava poco a poco a mancargli, ma la riconosceva, vedeva la propria casa non molto distante da lì e neppure i bisbiglii dei soldati statunitensi servirono a fermarlo o a infastidirlo, solo preoccupato di mostrare quel gracile fiore ai propri genitori.
Svoltò l'ultimo angolo che lo divideva dalla propria dimora; sua madre adottiva era lì, già ad aspettarlo, e un sorriso malinconico le sciupava quel viso che Kiku aveva imparato a riconoscere presto.
C'erano molte cose che ancora non aveva compreso di quel mondo: non capiva perchè la sua famiglia odiasse quelli che definivano gaijin, non aveva mai voluto parlare della guerra apertamente, dell'occupazione – così come la chiamavano i loro vicini, perché per Kiku tutto era magnifico in quel pianeta a lui straniero.
La Terra con i suoi mari, le montagne, gli strambi cibi; erano ormai passati 14 anni da quando era cascato dal cielo, come una piccola stella nel giardino dei suoi genitori terrestri.
All'inizio era stato difficile, sentiva la mancanza della sua vera casa, ma la Luna non si era mai nascosta da lui: splendeva ogni notte in cielo e pareva promettergli che prima o poi sarebbe ritornato lassù, tra gli astri splendenti e i pericolosi meteoriti.

Kiku così si era adattato, la famiglia che lo aveva accolto si era mostrata sin da subito gentile con lui e il piccolo ragazzo proveniente dallo spazio aveva cercato di aiutarli in ogni modo possibile, ricordando ben poco della sua vita precedente.
Non era così semplice convivere in una realtà differente, percepiva la tensione che divideva i cittadini da quegli invasori, ma più di una volta Kiku si era avvicinato a loro, regalando un paio di quei gigli che trovava durante le sue lunghe passeggiate.
Qualche soldato lo guardava storto, rideva per la sua eccessiva ingenuità, ma altri gli dedicavano un sorriso sincero, ringraziandolo di quel piccolo dono che nascondeva tutte le emozioni che il suo viso non aveva il coraggio di mostrare, un po' per vergogna, ma anche poiché non avvezzo alle consuetudini umane.
Sulla Luna non esisteva un vero motivo per ridere o per piangere; lì la vita proseguiva allo stesso modo, senza particolari cambiamenti che scombussolassero l'equilibrio dei pochi esseri che l'abitavano e anche una persona come Kiku, sebbene riservato e silenzioso, aveva trovato gioia nell'essere al centro delle attenzioni della sua nuova famiglia, lasciandosi coccolare dai piccoli gesti che i suoi genitori gli dedicavano ogni giorno.

Quando raggiunse finalmente la casa, sua madre lo rimproverò gentilmente per essere ritornato in quello stato, ma bastò vederlo con in mano uno dei suoi soliti gigli per farle dimenticare l'impegno di aiutarlo a curare di più sé stesso, senza finire come sempre in qualche pozzanghera o in mezzo ai campi che circondavano le loro piccole case.
«Lo vuoi portare in camera tua? Così puoi metterlo assieme agli altri.»
La domanda spontanea della madre incupì all'improvviso il viso di Kiku; non aveva ancora il coraggio di dirle la verità, voleva poter donare quell'ultimo fiore a lei e a lei soltanto, ma era ormai cresciuto e rispettare i propri compiti era ciò per cui era stato cresciuto.
Sebbene non fossero stati i suoi genitori naturali, quei due umani gli avevano insegnato ad essere rispettoso, a mostrarsi educato agli occhi altrui senza, tuttavia, dimenticare di essere sé stesso; Kiku era rimasto il solito ragazzino timido, non necessariamente spaventato dall'esplicitare le proprie idee, ma preferiva non condividere le proprie opinioni con nessuno poiché rimaneva pur sempre un extraterrestre, un elemento di troppo in quel mondo di per sé complicato.

«Devo ritornare a casa, mamma.»
Rispose a bassa voce, le labbra ora piegate leggermente verso il basso e il braccio a ricadergli contro il fianco, quasi intenzionato ad abbandonare il fiore sull'uscio della casa.
Sapeva di non poterla chiamare più così: sapeva che ora la Luna aveva bisogno di lui, che doveva abbandonare la Terra per poter tornare alle proprie origini e solo quel piccolo giglio sarebbe rimasto a riempire la propria stanza, a colmare i cuori di quelle persone che gli avevano offerto una dimora senza chiedere nulla in cambio.
«Kiku, ma questa è la tua casa, non ricordi? E' quello che ci hai promesso.»
Aveva mentito, aveva detto loro di non voler più tornare in Cielo, ma più passavano gli anni, più sentiva di non appartenere a quel mondo; amava gli umani, aveva imparato così tanto da loro, ma Kiku non poteva mentire sulla propria natura.
Sentiva la mancanza della superficie chiara del proprio satellite, delle sue fredde montagne, dei suoi misteriosi crateri e di quel manto di stelle che facevano sembrare la Terra più variopinta, di quelle tonalità d'azzurro che Kiku ora ritrovava nel piccolo ruscello che irrigava i campi e nelle gocce di pioggia che cadevano quando se ne stava seduto sotto la veranda.

«Ho mentito, ho sbagliato.»
Non riusciva più a guardarla negli occhi; non poteva ammettere di aver imparato anche questo dagli umani, nascondere la verità non poteva considerarsi una virtù, ma Kiku, ora più che mai, comprendeva perché spesso le persone attorno a lui avessero mentito per il bene di altri.
I terrestri non erano solamente esseri buoni, per ingenuità Kiku non aveva mai accettato di vedere le violenze perpetrate dagli occidentali, non voleva ricordare i momenti in cui aveva visto i suoi genitori litigare su piccole cose, ma ora cercò di pensare solo alle esperienze che potessero deturpare l'immagine di quella Terra che da sempre aveva amato e che una parte di lui non voleva abbandonare.
«Non voglio più stare qui.»
Iniziò a parlare, osservando come la donna corrucciò la fronte, digrignò i denti ormai delusa dall'esclamazione di quello che non poteva più essere considerato suo figlio.
«Non posso rimanere qui.»
Aggiunse poco dopo, sapendo di appartenere ad un mondo lontano da quello a cui oramai avrebbe dovuto fare ritorno.

«Ma ti ringrazio. Ricorda di avere un figlio sulla Luna, Okaasan.»
Un piccolo sorriso illuminò il volto pallido di Kiku e, sebbene sapesse quanto fosse difficile per gli umani dimenticare e perdonare, non si scordò delle regole che la donna di fronte a sé gli aveva insegnato, inchinandosi in segno di immensa gratitudine per tutto ciò che gli aveva donato nella sua breve vita.
«Non posso fermarti. Fai buon viaggio e ricordati che potrai ritornare qui quando vorrai.»
Kiku accennò con il capo, anche se dentro di sé sapeva che non avrebbe mai più rivisto nessun umano da così vicino.
 
* * *

 
Blue Moon {22 luglio 1969}

«Forse anche tu un giorno riuscirai a venire sulla Terra, non trovi?»
La domanda di Alfred lo riportò alla realtà, cancellò dalla propria mente vecchi ricordi del passato e si limitò ad accennare brevemente, non sapendo esattamente come rispondere.
La Terra era ormai parte del suo cuore, ma non sarebbe mai più tornato lì; non sentiva più il bisogno di allontanarsi dalla Luna e, anche se da solo, era grato a sé stesso per aver preso una scelta così importante, ritrovando la giusta strada verso casa.
Considerava gli umani ancora affascinanti, anche se non più abituato ai loro modi di comportarsi, e osservando Jones, trovava piuttosto buffo che fosse stato proprio un americano a raggiungere la Luna e ad incontrarlo.
Ancora una volta aveva deciso di mentire: Alfred sembrava una persona buona, molto curiosa – come lo era stato lui in passato -, ma si era ripromesso di osservare la Terra e i loro esseri da lontano, come se rivedesse la stessa pellicola una, dieci, cento volte, senza mai annoiarsi e sopratutto, senza mai smettere di stupirsi.
Non era completamente ignaro di ciò che accadeva su quel pianeta: aveva compreso il perché di quel viaggio da parte dell'estroverso astronauta e vederlo così sicuro di sé e delle propria causa portò Kiku a nascondere un paio di sorrisi divertiti, sapendo quanto Jones fosse lontano dalla verità.

Gli umani erano da sempre fatti così, peccavano di presunzione, credevano di essere i più forti nell'intero sistema solare e il piantare una bandiera a stelle e strisce sulla superficie lunare era solo uno strambo modo di Alfred per assicurarsi che nulla e nessuno potesse abbattere il forte senso di orgoglio che provava nei confronti di sé stesso e del proprio paese.
«Dovresti venire in America, sai? Li abbiamo musica, buon cibo e anche belle ragazze.»
Esclamò senza particolare enfasi: era una di quelle frasi che pronunciava senza un vero significato; certo, amava il proprio paese, ma quelle non erano esattamente le peculiarità per cui amava essere americano, anzi, alle volte se ne vergognava, poiché gli Stati Uniti venivano spesso considerati un esempio perfetto da seguire, ma molte problematiche rendevano Alfred consapevole di quanto alcune scelte politiche avessero, in realtà, collaborato a rendere il mondo un posto meno sicuro.

«Non le piacciono le...come le ha definite?»
Si voltò verso di lui, osservando come l'espressione dipinta sul volto di Jones cambiò drasticamente, obbligato a nascondere un inusuale porporio di guance che ricordò a Kiku le volte in cui, senza neppure rendersene conto, aveva anche lui reagito allo stesso modo a qualche domanda inaspettata da parte dei suoi genitori terrestri.
«Le belle ragazze, Alfred?»
Kiku non poteva considerarsi la più empatica delle creature, comprendeva le reazioni dell'altro e non era davvero suo desiderio metterlo a disagio, ma dal momento che Jones gli aveva regalato quella bellissima espressione, non poté che stare al gioco, attendendo una risposta che lo fece attendere ancora a lungo.
«Non penso che tu possa capire, forse voi non siete...insomma, hai capito?»
Kiku osservò piuttosto confuso Alfred; lo vide agitarsi con le mani, il vetro del suo elmetto si appannava ad ogni suo respiro e bastava poco per vederlo volteggiare in aria, leggero, ma non privo di pensieri.
Il moro, invece, camminava sulla superficie con scioltezza, era abituato a quell'ambiente, a quel paesaggio, però comprendeva i sentimenti dell'astronauta perché erano gli stessi che lui aveva provato quando aveva vissuto sulla Terra.
Gli mancava e ricordava i sorrisi dei suoi genitori, ancora quegli eccentrici americani e qualcosa lo ritrovava anche nella figura di Alfred, sebbene quest'ultimo fosse inconsapevole delle vaste conoscenze e delle esperienze dell'alieno.
«Non capisco.»
Rispose pacato, senza mentire; aveva sì conosciuto molte realtà, ma aveva vissuto solo in una nazione, il Giappone – come lo chiamavano gli umani, e qualcosa di diverso doveva esserci nella stravagante e gloriosa nazione da cui Alfred proveniva, motivo per cui non poté capire appieno le parole borbottate dall'altro.
«Ci sono questi umani a cui non piacciono esattamente le stesse cose.»
Lo vide parlare a bassa voce, il viso di nuovo arrossato e un sorriso imbarazzato a renderlo buffo agli occhi di Kiku, ma quest'ultimo rispettò lo stesso i suoi tempi, lo ascoltò attentamente e non si scandalizzò nel comprendere finalmente a che cosa si riferisse, evitando di immaginare i motivi per cui Jones non l'avesse detto apertamente sin dall'inizio.

«Non capisco, perché se ne vergogna, Alfred?»
La domanda dell'alieno lo riportò alla realtà, un'espressione cupa prese spazio sul suo volto e lentamente scese verso il terreno, poggiandosi con le punta contro la polverosa superficie.
Ripensò attentamente alle parole di Kiku, alla naturalezza nel tono della sua voce e al modo in cui aveva accennato un breve, quasi impercettibile sorriso, come se nulla di quella confessione fosse nuovo per lui.
«Sei sicuro di non essere mai venuto sulla Terra?» Bisbigliò a bassa voce, ricominciando a camminare nella speranza che il più piccolo sapesse dove fossero diretti. «Oh no, ci spiate. Siete alleati dei sovietici?» Si appoggiò con le mani contro le spalle dell'altro, lo spinse per atterrarlo, ma si dimostrò un inutile tentativo poiché Kiku riuscì a liberarsi dalla prese in poco tempo, osservando il modo buffo con cui Alfred cercò di combattere contro l'assenza di gravità, a testa in giù, mimando quello che pareva uno stile di nuoto.
«No, io...» Balbettò per un attimo, non poteva credere che il biondo l'avesse quasi scoperto, tuttavia rimediò ancora una volta, cercando di ritornare alla precedente conversazione per avere la meglio su di lui.
«Le piacciono i – come dite voi – i bei ragazzi
Alfred scosse esageratamente il capo un paio di volte, evitò di guardare negli occhi il suo nuovo amico e si riempì la testa di stupidi pensieri, rendendosi conto che non c'era poi molto che servisse a distrarlo, sopratutto nei piccolo momenti in cui il suo sguardo cadeva accidentalmente sulla piccola figura di Kiku.
«Se lo sapesse mia madre, mio Dio.»
Quel tono drammatico non pareva per nulla appartenergli, ma il raro sorriso che illuminò il volto dell'altro lo riportò alla realtà; era così strano vederlo sorridere, sebbene si conoscessero solo da poche ore, ma Alfred la considerava una piccola vittoria, in cambio di un breve attimo di imbarazzo.

«Non c'è nulla di male ad essere affezionati a qualcuno, è questo che penserebbero tutte le mamme, no?»
La domanda retorica di Kiku lo lasciò senza parole; si vergognava, provava imbarazzo nel sapere di appartenere alla razza umana poiché, nonostante abitasse in un mondo sperduto, quel piccolo alieno aveva compreso tutto del suo mondo, dei loro sentimenti, del modo in cui Alfred nascondesse le proprie debolezze e paure e infine, anche del valore della famiglia – principio in cui entrambi credeva, seppure così diversi.

«Dovresti davvero venire sulla Terra, Kiku. Saresti una gran sorpresa per tutti, lì.»
Un sorriso sincero illuminò il volto di Alfred mentre, in lontananza, la sagoma della sua navicella ritagliava una piccola parte di quel misterioso, ma incantevole satellite.





 
ANGOLO DELL'AUTRICE
Annotazioni storiche/geografiche/qualcosa (Un giorno la smetterò di scrivere queste cose, chissà quando.)
Way back home - Canzone di Bob Cosby del 1949
Today - Programma televisivo statunitense attivo ancora oggi
Major League Baseball/Giants - Diviso in due gruppi con le maggiori squadre statunitense, nel 1969 ha vinto la National League (di cui fanno parte anche i Giants che sono di San Francisco.)
Moon river - canzone interpretata da Frank Sinatra, ma divenuta famosa principalmente per Colazione da Tiffany (1956)
Mare Tranquillità - è la zona dove gli astronauti sono atterrati (all'incirca)
Buzz Aldrin - faceva parte dell'Apollo 11 assieme a Armstrong.
National Mall - viale famosissimo di Washington, tanto per dirla, è dove Martin Luther King ha tenuto il suo famoso discorso "Ho un sogno..."
I get Around - canzone famosissima dei Beach Boys (ho l'impressione che Alfred adori il surf rock <3) (1964)
Fly me to the moon - Canzone interpretata da Sinatra (se non si è capito, sì, mi piace.) (1954)
Gaijin - straniero (dispregiativo)
8 settembre 1951 - Il Giappone diviene indipendente, ma i soldati hanno "evacuato" il territorio successivamente.
Okaasan - Mamma (penso formale?)
Blue Moon - Daje, Sinatra ancora. (scritta nel 1934)

Penso di aver detto tutto; inutile dire che saltato le poche cose che ho detto nel pezzo ambientato a San Francisco perché sarebbero note inutili.
Niente, doveva essere più pairing e meno stronzate, ma è uscita questa cosa e mi sono divertita a scriverla, anche perché sono una fanatica dello spazio, della storia e della musica del 1960, quindi questa fanfic centra queste mie tre grandi passioni.
Non so se Kiku sia OOC, volevo solamente riprendere l'idea dell'isolazionismo giapponese con il suo essere ritroso nei confronti di un umano, ma per il resto mi dà l'idea di essere un personaggio molto formale, ma non per questo non schietto. (e poi è un'extraterrestre qui, quindi wtf.)
Mi sono ispirata alla leggenda di Kaguya, principessa della Luna che si ritrova a vivere per un po' con gli umani (la storia non l'ho ripresa letteralmente.)
Mh, altro... ah, il titolo! Stargazer è usato per indicare qualcuno che osserva le stelle, un sognatore, ma è anche un tipo di giglio! In questo caso si tratta di una specie modificata, per questo ho citato nella storia il lavoro di Matthew, pensando che fosse lui poi a ricreare questo fiore. (che risale agli anni '70, a dire il vero, quindi è successivo ai fatti storici citati.)

P.S. Aldrin e Armstrong sono stati sulla superficie terrestre per circa due ore, questa cosa ha scombussolato i miei piani.)
  
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