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Autore: I_am_the_darkness    20/06/2016    2 recensioni
"Migliaia di schegge di vetro attorno ai miei piedi.
Delle urla mi arrivano alle orecchie. Di paura? Forse di dolore.
Mi guardo attorno. Sono stata io a fare questo? Osservo i muri sporchi di sangue e le finestre senza vetri, questi ultimi sparsi a terra, come se un'esplosione fosse avvenuta nell'aula, e mi rendo conto che, senza neanche accorgermene, avevo perso il controllo. Di nuovo."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Sabaku no Gaara, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Naruto prima serie, Naruto Shippuuden
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CAP 2
Ero seduta al primo posto, di fianco al grande finestrone, da cui si poteva ammirare in lontananza il bosco, chiamato dalla maggior parte dei ragazzini: “La foresta incantata”, il nome dovuto al fatto che quando ci entri puoi sentire attorno a te un alone di magia, che ti entra nella pelle fino ad arrivarti nelle ossa. Il posto è così verde e luminoso che ti da l’impressione che una qualche creatura delle fiabe possa spuntare da un momento all’altro da dietro un cespuglio. Molti dicono di aver intravisto delle ali di fata con la coda dell’occhio, di aver trovato le tane di gnomi e folletti, di aver visto dei fiori un momento prima appassiti, prendere nuovamente vita e tornare colorati e luminosi come prima, raccontano di aver intravisto nel laghetto al centro del bosco code iridescenti di sirene, di aver trovato scaglie di drago nel sentiero che porta al centro della foresta, o ancora di aver sentito alberi sussurrarsi storie antiche a vicenda, di quello che avevano visto e sentito in quel bosco centenario. Erano tutte fantasie ovviamente, ma mi piaceva pensare che esistesse veramente della magia in quel bosco e fantasticare su come sarebbe potuto essere incontrare queste creature incantate e passare del tempo con loro, anziché con le persone.
Il maestro spiegava i differenti tipi di chakra con tono piatto e atono, che faceva da soporifero alla maggior parte della classe, mentre io mi divertivo a fantasticare guardando fuori dalla finestra. In cielo le nuvole grigie talvolta passavano davanti al sole, portando ombra e non lasciando modo ai suoi raggi di illuminare la classe, dove il silenzio veniva spezzato solo dallo scribacchiare occasionale delle matite sui fogli e dalla voce del maestro.
Quando egli si girò verso la lavagna, il compagno seduto due bancate più in alto prese al volo l’occasione e mi tirò una pallina di carta dove c’era scritto qualcosa. Mi girai e lo fulminai con lo sguardo, prima di srotolare il foglio e leggere ciò che c’era scritto: “Mostro”. Questa era l’unica parola scritta su quel semplice foglietto di carta. Lo accartocciai nuovamente e resistetti alla tentazione di rilanciarglielo indietro mettendolo sotto il banco. A quei tipi di insulti ero ormai abituata e non mi facevano più effetto. È una cosa triste, essere continuamente ferita dalle parole delle persone e dire o pensare di esserci abituata. “Abitudine” una triste e brutta parola, con un significato ancor peggiore. Chiusi gli occhi e sospirai.
Mi arrivò un'altra pallina, seguita da altre in rapida successione. Presi un respiro profondo cercando di calmarmi. Non potevo perdere il controllo. Non dovevo perderlo. Dietro di me si potevano sentire chiaramente degli sghignazzi. Un calore a me ben noto incominciò a salire dal mio stomaco fino alla testa e, senza neanche accorgemene, cominciai a grattare il banco di legno lucido con l’unghia, creando dopo alcuni secondi un solco.
Guardai l’orologio posto sopra la lavagna: le 12: 25. Dovevano passare ancora due ore per poter tornare a casa, per uscire da quel luogo orribile. Le risatine dietro di me continuavano, si arrestavano di colpo solo quando il maestro si girava verso la classe per riportare il silenzio, per poi ricominciare pochi istanti dopo, facendo aumentare la mia rabbia e irritazione. Quelle risate mi entravano in testa, creavano echi dentro la mia mente, che si surriscaldava sempre di più col passare dei secondi, e si disperdevano susseguiti da altre risate e prese in giro.
Una pallina intrisa di saliva mi arrivò in testa, bagnandomi i capelli color bianco avorio. Schifata, presi la pallina e la buttai per terra. Guardai la mia compagna di banco con la coda dell’occhio, il viso contratto nel tentativo di reprimere il riso, gli occhi puntati sul banco, cercando insistentemente di non incrociare il mio sguardo, che sapevo, lei sentiva addosso come un macigno. Adesso basta…
Sbattei violentemente una mano sul banco, creando un tonfo che si disperse nell’aula fino a scomparire in un eco lontano. Immediatamente tutte le voci, compresa quella del maestro, si zittirono e sentii puntati addosso a me una ventina di occhi. Io lo sapevo, io lo sentivo, tutte le persone in quell’aula erano terrorizzate. Ridacchiai, potevo sentire perfettamente la loro paura, il loro terrore, memori di quel che successe l’ultima volta, spruzzare dai loro pori e io mi nutrivo di quella paura, diventavo più forte grazie ad essa, inebriava i miei sensi rendendoli più acuti. Alzai gli occhi verso la mia compagna di banco e lei l’unica cosa che riuscì a fare fu alzarsi di scatto e urlare, creando il panico generale, per quello che vide sul mio volto, un sorriso folle lo distorceva, dai miei occhi, completamente neri, usciva un liquido altrettanto scuro, più del catrame, più del cielo senza le stelle. Decine di urla si unirono alle sue mentre la maggior parte dei loro proprietari si dirigevano verso la porta, cercando una via di fuga, cercando un modo di scappare da me, come ovvio farebbe una qualsiasi normale persona con un briciolo di intelligenza o istinto di sopravvivenza. Non erano loro tuttavia le persone che mi interessavano maggiormente.
Mi guardai intorno cercando i soggetti che mi interessavano. Le persone si accalcavano sulla porta urlando e strepitando cercando di uscire per primi, per salvarsi per primi, non badando minimamente ai rapporti che avevano con quelli che spintonavano. Tipico, quando la propria sicurezza è messa a rischio non ci si preoccupa più degli altri, ma solo di se stessi. Provai tristezza e disgusto in quel momento, avendo l’ennesima prova di quanto fossero meschini, egoisti e egocentrici gli esseri umani. Non vidi i ragazzini che mi interessavano nella folla.
Notai una chioma di capelli neri sotto un banco. Sorrisi. Trovato. Con un semplice gesto della mano  sollevai il banco, facendolo schiantare per mio volere contro la parete. Un kunai con attaccata una carta bomba mi si diresse contro a rapida velocità; mi chiesi dove l’avesse recuperata. Un esplosione rimbombò per tutta la classe, perforandomi i timpani e creando una  nube di fumo denso e nero, senza tuttavia crearmi alcun danno serio. Risi, vedendolo poi emergere da quel fumo con un kunai in mano, pronto ad attaccarmi, con lo sguardo di chi era sicuro di potercela fare. Che sciocco. Un altro gesto della mia mano e lo bloccai a mezz’aria. Gli sorrisi, provando tenerezza per quell’attacco tanto ovvio quanto stupido, e lo sbattei con violenza contro il muro con un altro gesto, sentendo le sue ossa rompersi nell’impatto, sentendo il suo respiro mozzato da quel colpo violento, che l’unica cosa che poté pronunciare furono solo versi gutturali al posto delle urla di dolore. Il sangue sgorgava dalla sua bocca e dalle sue ferite ed io non provai alcuna pena vedendolo in quello stato. Forse fu proprio questo il motivo per cui mi fermai: per paura. Una paura verso me stessa, verso ciò che ero diventata a causa della mia perdita di controllo, a causa della mia freddezza e del mio sadismo verso quel ragazzo. Lo liberai dalla mia presa, facendolo cadere a terra con un tonfo e mi diressi verso la finestra da cui arrivavano molteplici voci, non curandomi più di quel ragazzino.
La mia vista cominciò ad offuscarsi e sentii che la rabbia era evaporata, come il mio autocontrollo poco prima. Sospirai pensando che quella volta neanche mio padre avrebbe potuto far qualcosa per proteggermi. Una luce argentea si propagò dinanzi ai miei occhi, accecandoli e costringendomi a chiuderli, proteggendomi anche con le mani, per poi farmi svegliare con un vago sentore di malessere verso me stessa, e ritrovare nella mia stanza dai muri bianchi e spogli, senza più quelle tante decorazioni con cui l’avevo arredata negli anni. Era ora di partire.
 
Nota dell’autrice:
Ciao a tutti! Ed eccoci qua in questo nuovo capitolo della mia primissima fan-fiction, dove ho deciso di “spiegare” gli avvenimenti che hanno costretto la protagonista e suo padre ad andarsene dal loro villaggio natale, tanto per mettere un po’ di chiarezza.
Ringrazio di cuore le persone che hanno deciso di seguirmi e coloro che hanno recensito: grazie! *^*
Dal prossimo capitolo verranno svelate alcune cose sulla protagonista e ci saranno anche nuovi personaggi, che nuovi in realtà non sono e beh, detto questo al prossimo capitolo!
   
 
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