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Autore: LizzieCarter    24/06/2016    2 recensioni
“Un UFO! Guardate il cielo, un UFO!”.
La gente di paese aveva iniziato a bisbigliare. Certo, non si poteva pretendere che uno che per mestiere si ficcava in stretti loculi di roccia e strisciava fino alle viscere della terra potesse avere tutte le rotelle a posto, no? Ma tutti concordavano nel dire che il signor Egon, ormai detto l’Ufolle, era stato anche troppo bravo: almeno aveva aspettato che i figli crescessero, prima di dar di matto.
Genere: Avventura, Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Racconti brevi'
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“Un UFO! Guardate in cielo, un UFO!”.
Una marea di occhi curiosi rivolti a un cielo vuoto, così era iniziato tutto: Egon Ascoso, eminente speleologo, aveva perso la testa.
Inizialmente i compaesani avevano pensato ad uno scherzo. Si sa, i cervelloni si divertono a prendersi gioco della gente comune, ma certo nessuno se lo sarebbe aspettato dal signor Egon, che pareva una così brava persona. Quel giorno di aprile, nella piazza del mercato, tutti avevano ripreso tranquillamente le proprie attività, giusto un po' scocciati per essersi fatti fregare. Egon aveva continuato a fissare il cielo per qualche istante, poi si era allontanato a passi veloci, scuotendo la testa.
Eppure sembrava così reale: il metallo lucente che rifletteva le nuvole, la sagoma sottile e affusolata, intuibile solo nei punti in cui i bordi delle nuvole non combaciavano perfettamente, l'aria che vibrava di una frequenza diversa. Aveva sentito il Loro sguardo fisso su di lui e, senza potersi controllare, aveva percepito le labbra schiudersi, la trachea vibrare, l'urlo di allarme levarsi alto sulla folla in una voce che non sembrava nemmeno appartenergli.
Era successo di nuovo a maggio, durante la processione in onore del Santo di paese. L’urlo di Egon, a metà tra il terrore e l'emozione, aveva spezzato bruscamente il coro di litanie: “Un UFO! Guardate il cielo, un UFO!”. La gente di paese aveva iniziato a bisbigliare. Certo, non si poteva pretendere che uno che per mestiere si ficcava in stretti loculi di roccia e strisciava fino alle viscere della terra potesse avere tutte le rotelle a posto, no? Ma tutti concordavano nel dire che il signor Egon, ormai detto l’Ufolle, era stato anche troppo bravo: almeno aveva aspettato che i figli crescessero, prima di dar di matto.
I figli non erano dello stesso parere. Non invitavano più nessuno a casa, nel timore che il padre iniziasse, tutt’a un tratto, a descrivere il disco scintillante che lo ossessionava, o a spiegare il funzionamento dell'aggeggio con cui progettava di catturarne l'immagine.
Doveva mostrare a tutti - compreso se stesso - che non stava impazzendo, che una reale minaccia incombeva sul paese, forse sul mondo intero! Non aveva idea di cosa volessero gli esseri che li osservavano dall'alto, e del perché solo lui riuscisse a vederli quando era così evidente che nel cielo c'era qualcosa di sbagliato. Ma avrebbe trovato il modo di intrappolare l'immagine dell' UFO, e una volta convinto il mondo di quello che vedeva, avrebbe cercato il supporto di qualche scienziato per comunicare con Loro. Aveva già un saggio divulgativo sulle sue teorie pronto ad essere pubblicato; gli serviva solo una foto...
Ormai l’Ufolle si poteva vedere un po' dappertutto, accompagnato dal nuovo marchingegno fotografico, in cerca della migliore inquadratura per il suo UFO. Prima aveva provato in paese, poi, disturbato dai bambini che gli gironzolavano attorno curiosi e gli chiedevano, al signor Ufolle, di far provare loro il "coso alieno" con cui trafficava, si era spostato sulle colline.
Procuratosi da un rigattiere una vecchia macchina fotografica, ci aveva saldato sopra una vecchia antenna da tv, un appendino metallico e qualche filo di rame, sicuro com'era che la vecchia macchina sarebbe riuscita ad intercettare l'immagine dell'astronave solo se lui ci avesse fuso sopra un metallo molto simile al materiale traslucido di cui era fatto l' UFO. Un giorno, preso dall’ispirazione, aveva fatto a pezzi la macchina, aveva distrutto uno specchio, e aveva speso una settimana nel tentativo di ricomporre assieme i due oggetti, ottenendo una specie di mosaico di plastica, metallo e pezzi di vetro riflettente il cui unico risultato era stato spaventare, con i suoi mille riflessi in movimento, interi stormi di uccelli.

Giunse l'estate. Le giornate si allungarono e si fecero roventi, ma né il sole, né i violenti temporali riuscirono a distogliere Egon dalla sua ricerca. I compaesani seguivano preoccupati la figurina dell' Ufolle mentre si inerpicava su per le colline con quel suo trabiccolo pericolosamente simile a un parafulmini, e si chiedevano quante volte gli sarebbe andata bene prima che a qualcuno toccasse andare a recuperare i suoi resti fritti sull'erba, dopo un temporale particolarmente violento.
Fu il sole, invece, a fermare le sue ricerche: una sera la moglie lo trovò steso a terra, febbricitante, sulla solita collina. Sembrava morto.
Dovettero legarlo al letto per costringerlo a non uscire il mattino seguente. I suoi occhi iniettati di sangue correvano continuamente alla sagoma dell’UFO che intravedeva dalla finestra mentre, con voce roca, pregava la moglie di donare le sue retine alla scienza, se non fosse sopravvissuto, perché almeno da quelle si potesse cercare di ricavare l'impronta dell'astronave.
Sentiva il fuoco bruciargli all'interno del cranio. Quando leccava le labbra nel tentativo di parlare, gli sembrava di mordere corteccia. Percepiva la mano gentile della moglie portargli il bicchiere alla bocca, o cambiargli la pezza umida sulla fronte, ma si concedeva solo per qualche istante di accarezzare il suo viso con lo sguardo, prima di tornare a fissare l'astronave che lo vegliava con altrettanta pazienza fuori dalla finestra.
"Amore, è per Eric che fai così?" gli chiese una notte la moglie, con voce sommessa. Egon distolse gli occhi dalla finestra, ma solo per qualche istante. Era la prima volta che lei menzionava l'argomento. Quando era tornato dalla missione di speleologia in cui aveva perso il suo migliore amico, ad aprile, lei si era limitata ad abbracciarlo forte e preparargli un caffè corretto con grappa.
"No. Sapevamo tutti e due quali sono i rischi del mestiere".
La donna annuì, gli cambiò la pezza, poi si voltò sul letto matrimoniale, e rimase in silenzio a lungo prima di cedere alla stanchezza. Il ritmo lento e cadenzato del suo respiro guidò Egon nel sonno.
Scampato alla frana che aveva sepolto vivo Eric, era svenuto a qualche metro di distanza dal cumulo di massi. Si era risvegliato in un cunicolo molto più ampio, circondato da una decina di esseri squamosi che socchiudevano le palpebre verticali con espressione incuriosita. Aveva ricambiato il loro sguardo per qualche istante, poi aveva urlato. Un sibilo spaventoso gli aveva invaso la mente, un sibilo che non aveva compreso, ma che gli aveva lasciato nell'animo una consapevolezza: era stato incaricato di avvertire gli umani della Loro esistenza.
Seppur incredibilmente divertiti dall’idea che gli umani avevano degli alieni – esseri che si muovevano su oggetti oblunghi e luminosi -, Loro avevano preferito imprimere proprio quell'immagine nella mente, negli occhi dell’uomo, per ricordargli la Loro esistenza, e fargli dimenticare di averli incontrati nelle profondità della Terra.
Si  era risvegliato in un cunicolo vicino alla base, i ricordi confusi e un fischio acuto nell'orecchio sanguinante.


Egon si svegliò di soprassalto, e portò gli occhi alla finestra. L'astronave era sparita. Al suo posto, gli comparve di fronte un volto.
Urlò, ritraendosi di scatto. Era sua moglie. "Ti si è abbassata la febbre, sei fuori pericolo". Un sospiro sollevato.
Il cielo fuori dalla finestra era limpido, vuoto. Stava sorgendo il sole.
"È scomparsa. Dov'è? Che ne avete fatto?". L'uomo prese a contorcersi sul letto, ignorando le cinghie che gli segavano la pelle finché la moglie, spaventata, lo slegò. Egon allora corse fuori dalla porta, in pigiama, i capelli sconvolti, gli occhi allucinati, per abbracciare tutto il cielo con lo sguardo.
"È sparita", disse, con un filo di voce. La moglie, che l'aveva seguito di corsa fino in giardino, lo abbracciò stretto. Egon crollò tra le sue braccia, scosso da un pianto disperato. "Non lo capisci? Sei guarito, non hai più le allucinazioni!". La moglie quasi piangeva per la gioia.
Egon, invece, singhiozzava sconvolto, schiacciato a terra dalla consapevolezza di averli delusi: non era stato in grado di diffondere il Loro messaggio. Lo avevano abbandonato, per sempre.

***

Ciao, lettrice/lettore! Mi farebbe un piacere infinito se mi lasciassi un pansiero, giusto un paio di righe per sapere se il racconto che hai letto ti è piaciuto oppure no. Critiche e consigli sono i benvenuti :)

Grazie per aver letto la mia storia, un abbraccio!
   
 
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