Sono le dieci e quarantacinque di sera. La polvere rossa della
strada mi insozza le scarpe come croste di sangue.
Non riesco a distogliere lo sguardo dalle nuvolette alzate dal mio
passo veloce; non voglio distogliere lo sguardo dallo spettacolo feroce
degli orli dei miei pantaloni che si tingono di rosso.
Se lo facessi, potrei incrociare lo sguardo di qualcuno. Se incrociassi
lo sguardo di qualcuno, sarei costretto a mentirgli.
Un’ombra scura si aggancia alla mia: nero e rosso,
sangue e cenere, impastati in una macchia che mi perseguita.
Litigo con la catenella del mio orologio a cipolla. Quando ho guardato
l’ora, si è stretta in un cappio attorno al mio
indice.
Il bordo della bombetta a contatto con la mia fronte si inumidisce di
sudore, il dorso dell’orologio riflette le luci dei lampioni
che mi scorrono accanto a ritmo irregolare, mentre accelero e rallento
il passo a seconda della concentrazione che mi serve alternativamente
per districare le delicate maglie della catena e per ignorare
l’ombra nera che mi perseguita. Entrambi gli sforzi sembrano
destinati al fallimento.
Lo scarabeo inciso sull’orologio pare zampettare tra le mie
mani, galvanizzato dalla luce altalenante dei lampioni ad olio.
Perisce, quando entro nella zona d’ombra di un lampione
spento; con lui si dilegua anche la maledetta ombra che mi perseguita.
Non è che un istante di libertà dal
controllo del fantasma nero, ma il provvidenziale cono
d’ombra giunto a interrompere la sequenza di macchie di luce
mi dona tanto sollievo da indurmi ad un passo falso: alzo lo sguardo.
Incrocio uno sguardo.
«Mr Pineye, che piacere vederla!». Un guizzo negli
occhi dell’uomo mi dice che sta mentendo. Lo disprezzo per
questo, anche se so che sta solo seguendo la legge.
«Una bellissima serata per passeggiare, non è vero
Mr Blackat?», sono costretto a mentire anche io.
A dire il vero, è una serata terribile per passeggiare: ho
già detto troppe Verità, quest’oggi, e
non posso rischiare di farmene sfuggire un’altra. Parlare
è una tortura.
“È risaputo, troppe Verità
uccidono”, diceva mio padre ogni volta che gli chiedevo
perché avesse deciso di occultare le nostre origini italiane
e cambiare il suo cognome in “Pineye”.
Non che cambiare cognome fosse servito a salvarlo dall’ombra,
quella sera che, giocando a Poker, si era ubriacato e aveva ripetuto
una volta di troppo ai suoi amici che il controllo che imponeva il
governo era eccessivo, che assecondare quella situazione era sbagliato.
Il gracchiare tagliente come la falce della Morte, l’ombra
nera sul suo viso, gli occhi enormi e bianchi di terrore, la cassa
oblunga con uno scarabeo sul coperchio, infestano tuttora i miei
incubi. Meglio così: sono un monito, un promemoria della
Spada di Damocle che mi pende sul capo.
Tre gemme vermiglie rilucono sul bavero della mia giacca, a ricordarmi
che oggi sono stato troppo sincero. Una gemma per ogni
Verità.
L’odore acre che emanano mi ha tormentato tutto il giorno, e
posso intuire il momento esatto in cui il loro tanfo lambisce le narici
dell’uomo che mi sta di fronte dal modo in cui i suoi baffi
fremono e il suo sguardo da volpe cade sulla mia giacca.
Alla vista delle tre gocce di onestà cristallizzate sul
tessuto di panno robusto, Mr Blackat fa un istintivo passo
all’indietro e serra le labbra. Si sa, la Verità
è contagiosa.
Lui, sul suo bavero, non porta lacrime d’ombra. Oggi non ha
detto nemmeno una Verità.
D’altro canto, non penso di aver mai riconosciuto il
baluginio di gocce vermiglie sui suoi capi di vestiario: Mr Blackat
deve aver avuto una buona educazione, al contrario di me. È
per quello che, tutto sorrisi falsi e ammiccamenti, si dice davvero
dispiaciuto di doversene andare e si allontana a passo veloce.
Per quanto mi riguarda, è raro che passi una giornata intera
senza percepire il leggero picchiettio di una lacrima color rubino sul
petto, piovuta dall’ombra gracchiante che mi fa la guardia. A
volte me l’aspetto, a volte è una sorpresa: sono
così malato che talvolta nemmeno mi accorgo di dire la
verità.
Per fortuna, mia moglie mi ama lo stesso, ma forse è
perché entrambi condividiamo la stessa malattia.
Nelle serate peggiori, dopo giornate in cui troppe Verità
sono sfuggite alle nostre labbra, passiamo assieme lunghe ore di
silenzio al tavolo della cucina, un’unica lanterna a gas a
gettare bagliori di condanna sulle tre gocce che marchiano ciascuno di
noi.
Non apriamo bocca prima della mezzanotte, per paura di
lasciarci sfuggire quella Verità che ci sarebbe fatale, ma
comunichiamo in silenzio per ore, confidandoci solo con gli occhi, con
le mani, con un sorriso. Ci rubiamo a vicenda nostro figlio, che
è piccolo e ancora non capisce il vero significato del Gioco
del Silenzio che gli abbiamo insegnato: il silenzio, l’unica
via di fuga per quei pochi malati di Verità che il governo
non è ancora riuscito a debellare.
Riesco a vedere la mia casa in lontananza, la luce della
lampada che trapela dalla finestra della cucina e delle ombre che si
muovono all’interno. Sono quasi salvo: ancora qualche passo,
e avrò raggiunto il mio porto sicur... «Accidenti,
mi dispiace!».
È più forte di me, non riesco a bloccare le
parole prima che mi sgorghino dalla bocca; non riesco a non essere
sinceramente dispiaciuto nel momento in cui mi scuso e aiuto a
rialzarsi la persona che ho urtato nella foga di raggiungere il mio
faro.
Un picchiettio sulla spalla, un gracchiare sommesso, un’ombra
di corvo mi incombe sul capo: una Verità di troppo.
Vorrei urlare.
Il governo è clemente: ti lascia un intero minuto
di vita per salutare i tuoi cari prima che l’ombra del corvo
ti annulli; ti concede persino la possibilità di regalare
loro un’ultima Verità.
Irrompo in casa chiamandoli per nome: «Blue!
Lucian!». La porta rimane aperta - non basterà
certo una tavola di legno a tener lontana l’ombra - e una
nuvola di terra rossa mi insegue all’interno.
Blue deve aver letto il terrore nei miei occhi, deve aver capito,
perché si avvicina con la disperazione dipinta in volto e
nostro figlio in braccio. Non può parlare: sul colletto in
pizzo della sua camicia brillano già tre lacrime vermiglie.
Io però posso sputare fuori la Verità
più grande di tutte, posso urlare «Vi voglio
bene!» senza più paura, colmo di orgoglio e
ribellione e gratitudine, mentre li stringo a me. «Non farlo
assistere. Non guardare» imploro mia moglie.
Lei annuisce, gli occhi colmi di lacrime, ma sta mentendo: il
suo sguardo non mi abbandona nemmeno per un istante, mentre stringe
Lucian a sé e gli tappa le orecchie per non fargli sentire
le mie urla, perché il ricordo dell’esecuzione di
suo padre non torni ad infestare i suoi sogni negli anni di menzogna
che lo aspettano. Passata la mezzanotte, toccherà a lei
scegliere se raccontare a mio figlio la verità su quello che
è successo, o se consolarlo con una bugia.
Estraggo l’orologio per controllare l’ora. Sono le
undici e cinquantasette e il mio minuto è giunto al termine.
Lo scarabeo ammicca triste alla luce della candela, sembra agonizzante.
Esco dalla cucina a testa alta, andando incontro alla punizione
concordata dalla democrazia per le persone eccessivamente oneste.
Guardo per un’ultima volta Blue e Lucian; lo sguardo di lei
è su di me.
Un carro spunta in lontananza, si avvicina lungo la stretta via,
alzando nubi di polvere color sangue che infestano il nero della notte.
So già quello che trasporta, mentre si avvicina sobbalzando
alla nostra casa e un gracchiare tagliente come la lama della Morte mi
squarcia il cuore, la mente, l’anima in un dolore infinito:
una cassa oblunga, con sopra inciso lo stemma di famiglia. Uno scarabeo.
Ciao, lettrice/lettore! Mi farebbe un piacere infinito se mi lasciassi un pansiero, giusto un paio di righe per sapere se il racconto che hai letto ti è piaciuto oppure no. Critiche e consigli sono i benvenuti :)
Grazie per aver letto la mia storia, un abbraccio!