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Autore: Clockwise    28/06/2016    2 recensioni
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa.
[...]
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua.

Amanda ha diciannove anni quando va a Londra per la prima volta in cerca di suo padre, in cerca di risposte, costringendo John e Sherlock, ormai estranei, a fare i conti con loro stessi.
"Nostos": in greco, "viaggio di ritorno", "ritorno a casa".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nodus Tollens
 
Forgive me Lover,
For I have sinned
For I have loved you wrong.
The Swell Season, I Have Loved You Wrong
 
 
Amanda è esausta. Crolla sul sedile posteriore del taxi e chiude gli occhi all’istante, appoggiando la fronte al finestrino. Sherlock si getta sul sedile accanto al suo, ancora vibrante di adrenalina. Le lancia un’occhiata divertita, mentre tira fuori il cellulare. Il taxi parte lentamente per Vauxhall.
«Bandiera bianca dopo solo una serata di investigazioni? Viva la gioventù.»
Amanda grugnisce, poco elegantemente.
«La gioventù, adesso, è troppo abituata a Internet per sopportare tutto questo correre in giro.»
Manca poco alla mezzanotte. Sherlock l’ha trascinata per mezza Londra, nei posti più disparati: un vecchio negozio di vernici, un museo, tre biblioteche diverse, due club privati e Buckingham Palace. Le aveva impedito di fare foto, però.
«Alla fine? Chi credi possa essere stato? Il tipo con i baffi?»
«Probabile.»
Sherlock non alza gli occhi dallo schermo.
«Sto mandando un messaggio a Lestrade perché mi faccia accedere agli archivi di Scotland Yard, devono sicuramente avere un fascicolo su di lui. Altrimenti controllerò a casa di Mycroft, ma dubito che vi tenesse documenti di rilievo.»
«Chi è Lestrade?»
«Detective Ispettore, in pensione. Vecchio collega.»
Amanda annuisce, socchiudendo appena gli occhi. Sono fermi a un semaforo, ma non riconosce la zona. Li richiude.
L’adrenalina sta lentamente scorrendo via anche da Sherlock. Inizia a sentire la stanchezza della giornata gravargli sulla schiena, sulle ginocchia. Per un istante, chiude gli occhi e allunga le gambe, sospirando.
«Mi piacerebbe venire ai funerali. Sempre se vuoi, ovviamente.»
Sherlock apre gli occhi e li volta sulla ragazza, che ha ancora il viso appoggiato al finestrino.
«Una cerimonia come un'altra, la più insopportabile fiera delle vanità. A Mycroft non dispiacevano, io non le tollero.»
Amanda volta appena il capo verso di lui.
«Aveva un lavoro molto importante?»
«Era il Governo Britannico in persona. Chissà quale fantoccio avranno messo al suo posto, sarà molto più difficile ottenere tutti quei privilegi, adesso. Addio jet privati.»
Amanda coglie il tono leggero, ma non si lascia ingannare.
«Mi dispiace.»
Sherlock ringrazia con gli occhi. Risuona un momento di dolce armonia, una bolla scintillante di intesa totale.
È come se fosse davvero mio padre, si ritrova a pensare, prima che se ne renda conto. E allora, pervasa di malinconia, arrischia la domanda che si era tenuta fra i denti tutto il giorno.
«Che rapporto c'era fra te e John? Cos'è successo fra voi?»
Sherlock non si scompone: se lo aspettava.
«Siamo stati coinquilini, colleghi, amici.»
Affonda gli occhi, plumbei, nei suoi – negli occhi di Mary, multicolori sotto le luci dei semafori, delle insegne e dei lampioni. Esita a lungo.
«Amanti» mormora, come se dirlo a voce più alta profanasse la bellezza di quello che avevano condiviso. Chiude gli occhi per un istante, inspirando forte.
«Ora, estranei.»
 
«Sei sparito per una settimana senza dirmi niente. Una settimana, Sherlock.»
«Ero impossibilitato a comunicarti la mia posizione, ma Lestrade era al corrente di tutto e inoltre sarebbe bastato collegare gli indizi…»
«Smettila immediatamente, Sherlock. Ho parlato con Lestrade, certo che l’ho fatto. Ma devi smetterla di trattarmi come se fossi parte della tappezzeria, io tengo a te, devo sapere che cosa ti succede! Non pretendo di accompagnarti ovunque, se tu non vuoi, ma devi farmi sapere che stai bene! Me lo devi! Me lo devi perché... perché...»
«Dillo. Dillo, forza, John, andiamo, dillo. O ti spaventa, forse, la parola?»
«Sherlock...»
«Non riesci nemmeno ad ammetterlo. Tutto questo tempo e siamo ancora a questo punto, John.»
 
Amanda abbassa il capo. Si chiede se lui continuerà a parlare, ma ne dubita: gli occhi, trasparenti nel buio colorato del taxi, sono distanti, ormai persi. Forse non la riguarda, forse è una ferita ancora aperta.
 
«Sherlock, possiamo parlarne, per favore? Che ci sta succedendo?»
«John, non credo che possiamo continuare così.»
«Sherlock...»
«È evidente che tu non abbia ancora superato la scomparsa di Mary e veda la nostra relazione come un tradimento nei suoi confronti, inoltre provi senso di colpa verso vostra figlia, di cui ancora non sappiamo niente, senso di colpa che condivido e la cui profondità tu non immagini nemmeno...»
«Non provarci. Questa cosa ha a che fare con noi due, noi due e basta.»
«E cosa siamo noi due, John? Forza, dimmelo. Coinquilini? Colleghi?»
«Sherlock, non è così semplice, lo sai...»
«Tu sai benissimo che cosa siamo, ma hai paura di ammetterlo. Siamo amanti, John, amanti
«L'amore è basato sulla fiducia, Sherlock.»
La delusione e il rammarico e il dolore, a quelle parole, li avevano inghiottiti entrambi.
 
«Psicologia non è la tua strada.»
Amanda scuote la testa, come riemergendo da un sogno, sbattendo velocemente le palpebre per scacciare le lacrime che, quasi senza che se accorgesse, le hanno riempito gli occhi.
«Cos–, come sai che studio Psicologia?»
Sherlock le lancia uno sguardo da “per chi mi hai preso”, e torna a digitare sul telefonino.
«Tendi a lasciarti coinvolgere.»
Lei fa spallucce.
«Un po' di empatia non è un male, soprattutto in psicologia, no?»
«Lo è, quando non ti lascia lo spazio di vedere con chiarezza.»
Il taxi rallenta e si ferma davanti al Bed&Breakfast di Amanda. La ragazza sospira, una mano sulla maniglia, esita. Teme che, uscendo da quel taxi, Sherlock Holmes svanirà nella notte e tutto quanto si rivelerà essere nient’altro che un grottesco sogno.
«A che ora, domani?»
L’uomo alza gli occhi dal cellulare, come per sincerarsi che lei glielo abbia chiesto veramente.
«Alle due. Passerò a prenderti mezz’ora prima.»
Amanda annuisce. Apre la portiera e fa per uscire, ma all’ultimo secondo torna indietro e stringe Sherlock in un breve abbraccio – ne hanno bisogno, entrambi. Quindi salta fuori e richiude la portiera dietro di sé.
«Buonanotte, Sherlock.»
«Buonanotte.»
Ci sono ancora tante cose che vorrebbero dirsi – in tutta la giornata, non ne hanno avuto il tempo. Chissà, forse domani.
Il taxi svanisce nero nella notte.
 
Prevedibilmente, John non riesce a dormire. È sprofondato nella vecchia poltrona di Sherlock, un paio di lattine vuote e i resti di un piatto di riso ai suoi piedi, la televisione accesa a volume troppo basso per ascoltare e troppo alto per essere completamente ignorata.
Non si è mai seduto nella poltrona di Sherlock, in quasi venticinque anni da che lo conosce – diamine, venticinque anni, un quarto di secolo da quando quell’uomo è entrato per la prima volta nella sua vita, e niente è più stato lo stesso. È sorprendentemente morbida, accogliente, nonostante i suoi angoli aguzzi e il rivestimento di pelle scricchiolante. Si sente al contempo in colpa, seduto lì, e a suo agio. Come se avesse perso il diritto di sedersi su quella poltrona, fatta per un corpo diverso dal suo – eppure, è l’unico modo che ha per sentirlo vicino.
Con Sherlock, aveva dovuto ricominciare da capo, ogni volta. Con Sherlock, si era trovato a muoversi nell’ignoto, ad addentrarsi in acque sempre più profonde senza sapere bene dove andare o se avrebbe sopportato la pressione o cosa lo attendesse sul fondo. Con Sherlock, John era nudo e più vulnerabile che mai, come una tartaruga senza guscio, perché Sherlock lo conosceva ed era in grado di sondarlo più a fondo di chiunque altro, più a fondo di John stesso – era sempre stato così.
Quando i suoi sentimenti per Sherlock avevano acquistato forma e consistenza, quasi un anno dopo la scomparsa di Mary, il suo primo istinto era stato ricostruirsi la corazza, nascondersi sotto la sabbia. Quando Sherlock gli aveva palesato il proprio affetto, il bisogno di nascondersi, di proteggersi, era diventato anche più forte, contemporaneamente al desiderio di lasciarsi andare, di buttarsi e rischiare. Eppure, qualcosa in lui si era indurito, seccato, pietrificato – tanti, troppi dolori che non riusciva a dimenticare. Si fidava di Sherlock con tutta l’anima, non avrebbe esitato un istante ad affidargli la sua vita – però non riusciva a dirlo. In tanti anni, John non riuscì mai ad esprimergli distintamente, a parole chiare e forti, quanto l’amasse. Perché lo amava, davvero. Ma rimaneva una vecchia testuggine dal cuore arrugginito.
I primi anni erano stati quasi idilliaci, nonostante tutto. John riusciva a zittire la maggior parte dei suoi dubbi e a superare le sue paralisi, e si lasciava andare a Sherlock totalmente e assolutamente. E Sherlock ricambiava con un’intensità che gli faceva girare la testa e rubava tutto l’ossigeno dai suoi polmoni.
Poi, come edera che si arrampica su un muro, una foglia per volta, erano iniziati ad arrivare le discussioni, i dubbi, le scaramucce, i litigi, le accuse, gli errori. Finché l’edera non aveva inghiottito tutto quanto.
 
Casa di Mycroft è silenziosa e spettrale. Sherlock è tentato di andarsene e cercare un hotel, ma poi scuote le spalle e si impone di non fare il bambino. Quindi si dirige in soggiorno, si versa un bicchiere di scotch e sprofonda nella poltrona in pelle di Mycroft. È orribilmente scomoda e rumorosa – squittisce, per la miseria, come faceva Mycroft a sopportarla? Manda giù un sorso di liquore, fissando il caminetto spento. È tutto così freddo, qui dentro, così ordinato, pulito, maestoso, tutto marmi e legni scuri. Che noia – lo pensa con affetto, però, e con una dolorosa morsa allo stomaco. Non gli piace stare in questa casa. Potrebbe bussare alla porta di… In fondo è anche casa sua…
No – era.
Sospira profondamente e piega la testa all’indietro, desiderando ardentemente una sigaretta. Mycroft ne aveva sicuramente qualcuna nascosta in giro, ma non ha la forza di cercarle.
L’ultima parola è stata la sua, lo sa bene. Inoltre, andarsene a Parigi neanche un anno dopo non aveva certo aiutato a ricostruire i ponti. Non gli era mai nemmeno piaciuta, Parigi – ma Mycroft doveva un favore all’ispettore francese e Sherlock voleva solo stare più lontano possibile da Londra. E poi, i francesi avevano una fantasia tutta loro per gli omicidi.
Perché aveva allontanato John? Lo sa, sa che l’inizio dei loro problemi è stato questo. E allora perché?
Frances Carfax era morta. I ballerini erano morti. John Openshaw era morto. Tre grandi fallimenti nel giro di pochi mesi. Certo, aveva risolto il caso, alla fine, tutte le volte, ma aveva perso la partita, indubbiamente.
Ed era tutta colpa di John.
John e i suoi sorrisi. John e il suo tè, John e le sue carezze, John e i suoi morbidi abbracci, John e la sua sempiterna, dorata, totalizzante presenza nella mente di Sherlock. Iniziava a perdere colpi, a perdere lucidità, a perdersi dietro dettagli che non portavano da nessuna parte. Declinava inviti a scene del crimine se poteva passare quel tempo con John e anche quando effettivamente le visitava, faticava ad analizzarle candidamente come un tempo, la mente illanguidita, intorpidita. John stava inglobando tutta la sua essenza, lo stava distruggendo senza volere – Sherlock Holmes senza un caso da risolvere non era Sherlock Holmes. O almeno, così credeva.
La verità è che non è il lavoro o il successo a definire una persona, quanto l’importanza delle relazioni che costruisce – e questo lui l’aveva capito troppo tardi.
 
 
•••
Sherlock capì cos'era successo non appena valicato il portone del 221b: un borsone era stato gettato con poca grazia giù per le scale. Si era aperto nella caduta; Sherlock riconobbe un paio dei maglioni di John.
Salì i gradini con lentezza inesorabile, girandosi e rigirandosi in mente le parole che avrebbe dovuto dire. John gli dava le spalle, sulla sua poltrona rossa. Quando si portò una mano al viso per asciugarsi gli occhi, Sherlock dimenticò tutte le sue parole.
«Mi fa piacere ti sia trovato un nuovo assistente.»
Sherlock rimase in silenzio.
«Victor Trevor. Dimmi, è snob quanto il suo nome?»
«John…»
Si alzò in piedi, senza lasciarlo parlare. Gli si avvicinò con le mani in tasca e uno sguardo tanto rassegnato quanto deluso e furente.
«Sicuramente è più bello di me. Niente cicatrici, per lui, niente mogli fantasma, figlie sparite, niente drammi, sbaglio?»
Sherlock chinò il capo, sentendo la delusione di John strisciare dentro di lui.
«Come lo sai?»
«Lestrade. Mi ha chiamato per chiedermi perché mai mi avessi rimpiazzato.»
«Non ti ho rimpiazzato, Victor è una vecchia conoscenza…»
«Oh, certo. Ad Eton insieme. Ora avvocato di successo, laurea in legge ad Oxford, squadra di canottaggio, chissà che bicipiti…»
«Ho incontrato Victor per caso al Temple Bar, mentre stavo investigando, e gli ho offerto di venire con me, anche ad Eton noi… Come sai di Eton? Non te l’ha detto Lestrade.»
Bastò un movimento rapido delle pupille di John verso la libreria, automatico e involontario. Sherlock sentì la bocca riempirsi di delusione.
«Hai letto i miei fascicoli.»
«Hai fascicoli per qualunque cosa.»
Gli occhi di Sherlock si assottigliarono.
«Hai frugato fra le mie cose piuttosto che parlarmi.»
Il medico raddrizzò la schiena, con l'intenzione di mantenere uno sguardo risoluto, ma fallì quando si accorse della delusione cocente negli occhi dell'altro.
«Oh, non fare quello tradito, non provarci nemmeno, se c’è qualcuno che ha il diritto di essere ferito, qui, quello…»
«I miei complimenti.»
Gli occhi di John capitolarono, la sua voce tacque. Sherlock distolse lo sguardo.
«Dove andrai?»
«Da Harry, per qualche giorno.»
«Buona permanenza.»
Guardò il suo riflesso uscire. Le sue parole lo fermarono sulla soglia.
«Sai, avevi ragione. Alla base dell'amore c'è la fiducia.»
John sbatté la porta.
•••
 
 
Sherlock si era allontanato. Lavorava sempre di più, faceva di tutto per tenersi impegnato, spesso non metteva più John a parte dei suoi piani. John sapeva di non essere mai stato di fondamentale importanza, sulle scene del crimine, eppure adorava guardare Sherlock, correre con lui in giro per Londra. Quando Sherlock aveva iniziato ad investigare senza di lui, senza fornirgli alcuna spiegazione, per altro, John si era sentito orribilmente tradito e più ferito di quanto avesse voluto ammettere. E quando era saltato fuori quel Victor… Aveva accompagnato Sherlock solo saltuariamente in un paio di casi, ma John non avrebbe potuto sentirsi più tradito. Chi era John, se Sherlock non lo voleva più con sé? Sentiva di non valere più nulla, di essere stato privato di un pezzo della sua identità.
Eppure, Sherlock diventava sempre più famoso, sempre più un personaggio pubblico, il blog di John sempre più popolare. John si sentiva quasi in dovere di continuare a scrivere – paradossalmente, gli dava l’illusoria speranza di avere ancora Sherlock con sé, in qualche modo. Ma alla fine, aveva creato uno Sherlock che non esisteva, che cercava e mancava di riconoscere nel vero Sherlock. Arrivava ad alterarsi – si aspettava di ritrovare anche fra le mura di casa il mitico supereroe che forgiava sulla tastiera. E Sherlock si librava sempre più lontano – arrivava ad ignorare John per giorni. Aveva avuto due ricadute, nel giro di un anno. John avrebbe voluto morire, si detestava per lo stato in cui era finito Sherlock – ma non sapeva cosa fare. Dopo la seconda volta, Sherlock era rimasto l’ombra di se stesso.
 
 
•••
Sentì i passi di John affrettarsi su per le scale come se venissero da molto lontano – o come se John fosse scalzo.
«Sherlock? Sherlock?»
Sbattere di una porta; altri passi; altra porta.
«Sherlock…»
Delusione, rabbia a malapena trattenuta. Pugni aperti e richiusi. La sua percezione era annebbiata, ma sentì comunque i propri occhi riempirsi di lacrime.
«Mi dispiace… John…»
Non riusciva a vedere il suo viso, ma sentiva la sua irritazione nei suoi respiri, brevi e nervosi.
«John…»
Probabilmente scuoteva la testa – se solo fosse riuscito a dissipare quel velo davanti ai suoi occhi…
«Avevi promesso, Sherlock. Credevo che… contasse di più per te, la tua… io…»
Altro respiro.
«Avevi promesso. Cosa, cosa c’è che non va? Dov’è il problema, Sherlock? Perché–» John cadde in ginocchio sul tappeto della loro camera davanti a lui, prendendogli le mani fra le sue. «Perché io non sono abbastanza?»
Sherlock scosse la testa, cercando inutilmente di dissipare la densa nebbia nella sua testa.
«Non capisci.»
Gli prese il capo fra le mani, avvicinandosi, e strinse appena, come per volergli imprimere bene il concetto nella mente.
«Tu sei fino troppo, John!»
Sentì la sua mascella contrarsi sotto le sue dita, ma continuò.
«Tu, soltanto tu sei il problema! E io che sono stato così stupido da innamorarmi di te, da perdere la concentrazione, da… Sono morti, John! Cinque clienti e cinque morti, John, non capisci?»
Percepì la sua voce alzarsi di tono, la pressione dei suoi palmi sulle tempie di John aumentare, mentre lui gli afferrava i polsi.
«Ho fallito, tre volte! Ho fallito come uomo, John, se non sono più un detective, non sono più niente! Cinque morti, John, cinque! E la cosa peggiore è che un tempo non me ne sarebbe importato nulla, un tempo non me ne importava nulla, perché non ero un eroe e mi andava bene così!»
I respiri di John erano sempre più pesanti e misurati mentre faceva forza per spingere le mani di Sherlock via dalle sue tempie. Sherlock si divincolò e lo prese per le spalle, scuotendolo. John chiuse gli occhi per un istante, cercando di ignorare gli occhi iniettati di sangue, il viso pallido e stravolto, le chiazze rosse di rabbia sul collo e sulle guance, le lacrime perlate sulle lunghe ciglia – invano.
«Tu mi hai reso un eroe, John, tu! Tu e il tuo blog, tu e le tue stupide storie su di me, solo storie, nient’altro che storie! Mi hai fatto diventare un personaggio in un racconto, John, mi hai reso debole! Tu–tu…tu…»
L’energia che l’aveva trascinato fino adesso sembrò abbandonare il suo corpo come l’aria da un palloncino, lasciandolo ad accartocciarsi su se stesso. John osservò il relitto dell’uomo che amava scosso da una tempesta, ascoltò ondate di dolore sciabordare nel proprio petto. Quindi si alzò in piedi, prese Sherlock per le spalle e lo aiutò a tirarsi su. Lasciò che si appoggiasse su di lui e lo guidò verso il letto, adagiandovelo sopra. Gli sfilò le scarpe, allentò il colletto e i polsini della camicia e lo avvolse in una coperta. Rimase a guardarlo, una mano sulla sua schiena, l’altra sui suoi capelli, mentre le lacrime si asciugavano sulle sue guance scavate.
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua. John sentì il suo autocontrollo cedere, la marea nel suo petto innalzarsi pericolosamente.
«Perdonami» mormorò a sua volta, prima di chinarsi e posargli un bacio sulla tempia sudata. Quindi si alzò e uscì più in fretta che poteva. Riuscì a resistere fino al pianerottolo – poi l’onda prese il sopravvento.
•••
 
 
Sherlock ruota leggermente il polso, fissando i fondi del suo scotch. Mycroft è morto. Mycroft, che aveva consacrato la sua vita al lavoro, a machiavellici giochi di potere. Mycroft, che aveva consacrato la sua vita a proteggere lui, Sherlock, da quel crudele mondo di cui ogni giorno sbrogliava e intrecciava i fili. Mycroft, che era stato il porto sicuro a cui tornare, sempre e comunque, per quanto umiliante o difficile la situazione potesse essere. Mycroft, che era stato la sua unica famiglia per tanto tempo.
Non gli è rimasto nulla. Non ha più una casa, un posto a cui appartenere, a cui tornare – o sì? (perché, perché ancora non riesce a soffocare quella tenace fiammella di speranza? Causerà solo altro male.)
Dall’altra parte di Londra, John guarda la polvere accumularsi intorno, sopra e dentro di lui, sommergerlo e avvilupparlo come fa con il teschio sulla mensola, gli scaffali della libreria, le finestre, le tende, i tappeti. Ridacchia, quasi – potrebbe benissimo diventare un pezzo d’arredamento, ormai, nessuno noterebbe la differenza.
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa. 

 




Ed eccomi di nuovo qui. 
Non è stato un capitolo affatto semplice, e sono davvero nervosa a riguardo – spero di non avervi deluso. 
Il titolo, mi sembra giusto spiegarlo, è latino e significa "il nodo che si scioglie, si disfa" – ho trovato l'espressione su internet per indicare "la sensazione che hai quando ti accorgi che la tua vita ha perso di significato". 
I tre casi che cita Sherlock sono riferimenti a "La scomparsa di Lady Frances Carfax", "L'avventura degli uomini danzanti" e "I cinque semi d'arancio".
Come sempre, grazie infinite a chi è arrivato fin quaggiù, a chi segue e recensisce! 
A presto,
-Clock
  
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