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Autore: Kat Logan    28/06/2016    2 recensioni
Paradiso e Inferno; è ciò che si ritroveranno ad affrontare i protagonisti di Stockholm Syndrome in questa nuova avventura.
Hanno amato, realizzato i propri sogni, hanno accarezzato il paradiso nella pacifica Osaka ed ora devono ristabilire l'equilibrio; troppa gioia tutta in una volta è da pagare.
Per uno Yakuza la cosa più importante è l'onore, così, Akira e Haruka seguiranno le proprie tradizioni.
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"Ovunque andrò, sarai con me. E avrei voluto dirlo in modo diverso, in un’occasione differente…magari al lume di candela, su un tetto, sotto alla luna, al nostro terzo matrimonio. Ma sai, un momento giusto non c’è mai. Quello giusto è quando lo senti, ovunque tu sia..quindi…lo dico adesso, forte come non l’ho mai sentito prima d’ora. Ti amo e questo non cambierà, non è cambiato nemmeno nel momento in cui non mi sono più riconosciuta".
[Sequel di Stockholm Syndrome].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Capitolo 7
Tokyo in red
 

 
Una cascata di capelli blu ridisegnava le onde marine sul cuscino. La pelle candida di Michiru era morbida come la neve fresca appena caduta sotto il tocco della sua amante. La sua schiena s’inarcò verso l’alto come la marea agitata dal vento; e il vento che la scuoteva tanto da farla tremare era Haruka. L’alito caldo e profumato della bionda, i suoi baci umidi su ogni centimetro di quel corpo giovane e perfetto che conosceva a memoria e di cui non si stancava mai di ripassarne i piccoli particolari erano una vera e propria tramontana.
Le pareti della stanza erano ancora intrise della loro passione, di quell’amore morbido e caldo che sa fare solo chi sa di appartenersi.
Michiru passò le dita affusolate tra i capelli color grano di Haruka liberando un altro piccolo gemito strozzato di piacere.
«Quando mi sposerai?» le domandò rauca all’orecchio, «non voglio più aspettare».
Michiru sorrise lasciandole un bacio sulla fronte accaldata della compagna.
Haruka aveva lo sguardo di chi pregava di non dover aspettare ancora, come se tutti i giorni passati dal momento in cui le aveva fatto la propria proposta, non fossero altro che lo scandire lento ed inesorabile dell’agonia che divide un malato terminale dal trapasso. E il suo male incurabile aveva un nome e lunghi capelli scuri, le era entrato dentro come un veleno. Setsuna, o meglio la sua morte, aveva fatto scattare qualcosa in lei.
Ogni notte si svegliava con l’eco dell’urlo straziato di Rei nelle orecchie, con le fiamme e gli spari di quella notte ancora impressi sulla retina cristallina e ad ogni risveglio aveva l’amara consapevolezza di non essere più la stessa.
«Non sapevo un dragone covasse così tanta fretta!» scherzò Michiru, lo fece in modo delicato poiché quello di sposarsi era un suo profondo desiderio.
«Succedono troppe cose, va tutto troppo in fretta» sospirò Haruka adagiandosi mollemente sul seno della sua dea del mare.
«Non tormentarti, Haru».
Haruka s’impegnò a darle retta eppure non riusciva più a cambiare idea.
«Organizza tutto tu. Alle ragazze come te piace fare questo tipo di cose, no?!».
Michiru soffocò una risatina.
«Perché a quelle come te non interessa?».
La bionda non aveva mai fantasticato sulle nozze, nemmeno da bambina. A lei non erano mai interessate le bambole e i vestitini, aveva sempre avuto l’indole del maschiaccio e non si era mai premurata di ritagliare dai giornali di moda abiti bianchi femminili o cose affini.
Haruka alzò leggermente il capo per guardarla.
«L’unica cosa per cui avrei da dire potrebbe essere l’auto o la moto in sella alla quale arriverò. Hai carta bianca per il resto!».
«La tua vena romantica è davvero insuperabile…» la prese in giro Michiru per poi stringerla ancora a sé, al sicuro, dove niente l’avrebbe potuta strappar via da lei.
 
 
***
 
 
Quanti giorni erano passati dall’ultima volta che aveva sentito il suo calore nel letto? Quella era la domanda a cui Rei non trovava risposta e alla quale pensava incessantemente. Aveva cercato con tutta se stessa di non lasciar andare il profumo di Setsuna, di ricordarlo e tenerselo addosso come se potesse far parte di lei per sempre. Il suo calore se n’era andato, la sua voce, la presenza fisica, ma fino a che sarebbe rimasto quello, allora, non tutto di Setsuna sarebbe stato perduto.
Rei sapeva che i ricordi potevano cadere facilmente nell’oblio e che un giorno quei tratti che aveva accarezzato e amato per mesi interi, si sarebbero fatti via via più sbiaditi fino a confondersi in qualcosa che non avrebbe più avuto le sue vere sembianze.
Tutto si dimentica, nemmeno le persone sono immuni a questo processo. E per Rei sarebbe stata l’ultima possibilità di averla con sé se fosse riuscita ad invertire quella che aveva le sembianze di una legge fisica e senza possibilità di cambiamento.
Nella penombra della stanza strinse a sé il maglione di Setsuna, quello che al lavoro non usava mai, ma portava sempre con sé perché era stato uno dei primi regali che Rei le aveva fatto.
Più si sforzava di trattenerla, più Rei provava dolore. Ma di lasciarla andare non se ne parlava e cadeva continuamente in quel maledetto circolo infernale. Se provava un po’ di sollievo nell’illudersi di averla lì, triplicava la sua sofferenza rendendosi conto che in realtà non c’erano più carne e ossa a cui aggrapparsi.
La ragazza soffocò un singhiozzo. Era stanca di sentire la sua voce rotta dal pianto eppure non riusciva a bloccarlo. Rei aveva la sensazione che qualcuno avesse manomesso i suoi rubinetti interiori e non ci fosse alcun modo di arginare quell’allagamento che prima o poi l’avrebbe fatta annegare. La gente non muore affogando solo nei fiumi o in mare, lo fa anche sé non riesce a governare le proprie maree e il suo personale maremoto di dispiaceri avrebbe affievolito ancor di più quella fiamma che aveva sempre arso in lei, quella forza che aveva fatto innamorare l’agente Meiō. Fu in questo che trovò la forza di alzarsi, il pensiero che da qualche parte Setsuna la stesse osservando scuotendo il capo delusa.
Rei prese un profondo respiro. Col dorso della mano asciugò le lacrime che le scivolavano ancora copiose sulle gote e si diresse in bagno.
Le prese quasi un colpo nel vedere il suo riflesso allo specchio. Il riflesso che conosceva sembrava davvero lontano da ciò che i suoi occhi avevano paura di soffermarsi a scrutare.
Si lavò il viso, premette con i polpastrelli contro la pelle come se dovesse liberarsi di uno strato invisibile di colla e cercò di riprendere il controllo di sé e della propria vita.
Respirò ancora una volta. Doveva farlo ad intervalli regolari per non ricadere nella disperazione.
Si pettinò e legò i lunghi capelli in una coda ordinata. La doccia però non la fece. Voleva tenersi ancora un po’ di quei ricordi addosso. E la parte più difficile fu aprire le ante dell’armadio e vedere che tutti i vestiti dell’altra erano ancora lì, nello stesso identico ordine, divisi per colore e con la medesima piegatura. Come se non fosse cambiato nulla, come se di lì a poco la porta avesse potuto aprirsi e farla entrare.
Rei ci sperò ma quando sentì i bulbi oculari pizzicare smise di farlo.
Si concesse l’uniforme, il colore rosso della passione doveva rimanere chiuso nell’armadio con gli effetti personali di chi aveva meritato il suo amore, poi uscì di casa.
Era Setsuna quella che guidava l’auto. Rei non ricordò nemmeno dove fossero finite le chiavi, così si diresse alla stazione metropolitana più vicina per raggiungere il luogo di lavoro.
Camminò in mezzo alla gente, evitando di avere qualsiasi minimo contatto. Lo sguardo piantato al suolo, perché in cielo l’unica cosa interessante che ora c’era da vedere era celata ai suoi occhi.
Il tempo sembrava essersi fermato, ma il mondo continuava ad andare avanti, Tokyo era in continuo movimento e lei non riusciva più a starle dietro.
In centrale le avevano dato due settimane di riposo, quello doveva essere il suo quarto giorno di esclusione dal mondo, ma Rei capì di non poterselo permettere. Doveva finire quello che Setsuna aveva cominciato, doveva arrivare a capo dell’enigma, trovare la regina rossa e fargliela pagare per vendicarla. Con quell’ obbiettivo a spronarla spalancò la porta della centrale. Un mare di teste si voltarono alla sua entrata. C’era chi rimase a labbra schiuse e chi cercò di tornare con gli occhi sul proprio lavoro per non lanciare occhiate indiscrete. I telefoni continuarono a squillare e anche quel posto per un attimo fu invaso dall’immobilità, come se la lentezza della vita che percepiva Rei potesse essere contagiosa.
La ragazza, a testa alta, camminò dritta verso l’ufficio che era stato di Setsuna e con uno schiocco di dita disse al ragazzo che l’aveva informata del Ricino di seguirla.
«Miss Hino, credevo che…».
«Credevi male. Dimmi, come ti chiami?» domandò lei continuando a marciare per il corridoio incurante degli sguardi sbigottiti che i colleghi le riservavano.
«Come?».
«Non so come chiamarti, dannazione, se non mi dici il tuo nome!».
Eccola la fiamma. Emise uno scintillio dentro di lei accendendole la voce.
«Sadao Chiba, miss Hino».
«E smettila di chiamarmi MISS!».
«S-si signora Hino».
Rei roteò gli occhi bloccandosi davanti alla porta e portando una mano sulla maniglia. Tentennò. Una parte di lei era pronta ad aprirla e a trovare reclinata sulla scrivania Setsuna con le mani nei capelli e il caffè ancora bollente a macchiare qualche pratica della pila infinita che conservava sul tavolo. L’altra parte di sé invece temeva il vuoto che doveva aspettarsi oltre quella soglia.
«Chiba-Kun. Non sono una vecchia signora. Agente Hino, andrà bene. O solo…Rei».
Il ragazzo scosse timidamente il capo in un cenno di assenso. Era davvero giovane, forse persino più di lei.
«Chiba-Kun ora siamo una squadra dobbiamo arrivare a capo di questa faccenda».
«P-perché io, se posso chiedere?».
Rei mostrò un’espressione accigliata.
«Credi di non esserne in grado?».
L’altro cercò invano di non balbettare e a disagio non ebbe il coraggio di puntare il suo sguardo in quello della ragazza.
«È che ci sono, almeno altri cinque novellini migliori di me, a-agente».
«Ti ho scelto perché gli ultimi giorni tu sei stato con lei più di me, più di chiunque altro forse. Te lo chiederò un’ultima volta…» prese fiato, «pensi di non esserne in grado?».
Il ragazzo apparì contagiato improvvisamente dall’ardore dell’altra. Gonfiò il petto, accennò un saluto militare e scandì a parole sicure «sarò all’altezza del compito!».
Rei fu tanto soddisfatta da riuscire ad accennare un leggero sorriso che però rivolse alla porta di fronte a sé.
Fece scattare la maniglia; il neon sempre acceso emise il suo consueto sfarfallio. E in quell’alternassi di buio e luce, socchiudendo appena gli occhi, tra le ciglia le scivolò piano la sagoma sfocata di Setsuna.
Le stava sorridendo ne era più che sicura.
 
 
***
 

«Questa è la nostra scaletta. Il nostro piano d’azione!» sottolineò con l’indice alzato Minako nella sua salopette a margherite.
Michiru ispezionò attentamente il foglio mentre Akira si ritrovò ad annaspare in mezzo a quell’elenco inchiostrato di punti e informazioni infinite.
«Io cosa centro? Non sono una damigella» disse con tono lamentoso alla propria ragazza. Sapeva che nessuno poteva averla vinta contro una donna, men che meno se quella in questione era Minako in procinto di organizzare un matrimonio.
«Non sei una damigella ma sei il testimone dello sposo-sposa».
«Suona strano».
«Non dire “strano” potrebbero offendersi le spose» lo riprese la bionda con tono grave.
«Scusa Michiru, non volevo essere offensivo ma…».
«Nessuna offesa Akira!». Michiru liberò una risata dalle labbra lucide dal gloss.
«Perché non hai scelto tua sorella per il compito?» le domandò in un sussurro e con lo sguardo di uno prossimo alla sedia elettrica.
«Verrà anche lei, ma non può aiutarmi a pieno. È sempre in ospedale…e poi Minako è una che ci sa fare con queste cose e…».
«Su, non perdiamo tempo. Al punto numero uno, come potete vedere c’è l’abito della sposa!» li interruppe Minako con una punta di follia, degno di una maniaca del controllo, negli occhi.
«Io non m’intendo di…».
«Akira, amore, prima che tu dica qualcosa di molto sbagliato…TU, ti occuperai di quello di Haruka».
«Ah». Il ragazzo si grattò la nuca interdetto e tentò di mordersi la lingua per non far perdere la pazienza alla sua fidanzata. Minako poteva essere un angelo quanto una pazza schizzata se in mancanza di zuccheri le si faceva perdere la pazienza, soprattutto in situazioni che necessitavano cura per i particolari come per un matrimonio.
«Qual è il problema adesso?» lo interrogò un’ultima volta portando le mani ai fianchi.
«Ehm…ecco…Haruka ora non è disponibile per, per il vestito».
«E perché mai, tesoro?» sottolineò il nomignolo con un enfasi quasi minacciosa, per poi compiere un paio di passi più vicini a lui.
Akira non aveva timore delle sparatorie o dei malviventi, ma nutriva un puro terrore per lo sguardo inquisitore femminile. Quello dal quale non si può scappare e che ti caverà anche i tuoi più oscuri segreti di bocca.
Haruka gli aveva detto di mentire, lui doveva essere un buon amico e coprirle le spalle, ma quando era il momento del confronto con Minako le difese cadevano e la parola data veniva meno.
«Horimono» si fece scappare in un sibilo.
«CHE COSA?!». Questa volta il tono acuto venne emesso dalle labbra di Michiru. Non era solita perdere la calma, ma forse, per una sposa quella era una cosa più grave del previsto o almeno fu quello che passò per la testa di Akira, poco disposta a trovare soluzioni differenti a quella che era una tortura legalizzata nei suoi confronti. Nessun uomo al mondo sarebbe potuto sopravvivere all’ira di una sposa e a quella della sua fidata damigella e anche Haruka se avesse continuato ad assolvere ai suoi doveri da Oyabun del clan non l’avrebbe passata liscia.
 
***
 

Sadao e Rei rimasero immersi nel silenzio della stanza per una buona mezz’ora. Entrambi chini col naso su un ammasso di appunti che riportavano la scrittura di Setsuna e una pratica scritta al computer. Dovevano ripercorrere ogni minimo particolare, entrare nella testa di Setsuna per battere la stessa pista che avrebbe seguito lei. Se c’era una cosa di cui Rei aveva la certezza era che l’intuito di Setsuna per i casi come quello era infallibile.
«Ho bisogno di sapere se lei ti ha detto qualcosa che non ha fatto in tempo a scrivere…» quelle parole si fecero pesanti come massi e Rei dovette deglutire più di una volta per permettersi di digerirle. Quel non ha fatto in tempo le ricordava che la vita a disposizione di Setsuna era finita esattamente come la sabbia all’interno di una clessidra impossibile da ribaltare nuovamente.
Sadao ci pensò su portandosi un dito al mento e sistemandosi meglio contro lo sportello dell’armadietto riportante documenti e pratiche archiviate.
«Si stava concentrando sulle culture di Ricino presenti in città. Lo so perché mi ricordo la conversazione che abbiamo avuto quando le ho portato le analisi della scientifica».
L’ultimo compito che Setsuna aveva dato a Rei da assolvere. Forse quell’ultimo punto, l’ultima loro telefonata era esattamente quello da cui ripartire.
Rei annuì, ispezionò tra i fogli scritti a mano un’altra serie di elementi e quando voltò pagina qualcosa le cadde sulle ginocchia.
Era una sua fotografia, risaliva più o meno ai tempi della scuola perché portava ancora indosso l’uniforme. Setsuna doveva averla staccata di soppiatto da uno dei suoi album di foto.
L’angolo destro delle labbra di Sadao si alzò leggermente verso l’alto.
«Quando era sola la teneva sempre sulla scrivania, anche a notte tarda. La riponeva solo prima di tornare a casa…lo faceva davvero con cura».
Le guance di Rei s’imporporarono appena ma non poté ribattere imbarazzata che il comandante fece il suo ingresso nell’ufficio.
«Hino, che ci fai qui?» domandò stralunato, mentre un brusio continuo proveniva dal corridoio.
«Non ho bisogno del mio periodo di riposo, signore. Sono tornata al lavoro» si apprestò a rispondere nascondendo la foto in una tasca dei pantaloni.
«Hino, ammiro il tuo darti da fare ma…» sembrò dover cercare le parole e si schiarì la voce come quando doveva dare una notizia poco piacevole. «Sei assolta dall’incarico».
«Cosa?!» le mani di Rei si strinsero in due pugni. Uno poggiato sulle ginocchia, l’altro fermo sulla superficie ricoperta di documenti intento a non tremare per la rabbia.
«Sei troppo coinvolta in questa faccenda».
«Signore» Rei si alzò con sguardo deciso e voce ferma. «Ho seguito il caso sin dall’inizio con l’agente Meiō. Sono stata su tutte le scene del crimine, ho visto-».
«Non costringermi a ritirarti la pistola e il distintivo. Il tuo aiuto sono sicuro sia stato davvero prezioso, ma non andrà perso. Il detective Jadeite apprezzerà sicuramente il tuo lavoro e riuscirà a venirne a capo. Questo è tutto».
Il crepitio di fiamme si fece prepotente in Rei, era la rabbia a scoppiettarle dallo stomaco e ad irradiarle calore in tutto il corpo.
Il suo superiore abbandonò la stanza riservando un gesto di saluto al nuovo arrivato.
Gli occhi scuri di Rei entrarono in collisione con le sue iridi chiare. Erano di un celeste quasi accecante. I capelli biondi le ricordarono quelli di Haruka e lei desiderò averla accanto perché sarebbe stata un’alleata preziosa, Setsuna l’aveva predetto e sembrava esserne davvero sicura in punto di morte.
«Mi dispiace per la tua perdita. Mi hanno detto eri molto legata alla tua partner». Il ragazzo allungò una mano verso di lei, ma la stretta non venne ricambiata.
«Andiamo Sadao» disse in tono piatto scansando la figura del biondo.
«Buona fortuna col mio preziosissimo contributo».
 
 
***
 
 
Haruka entrò nello studio del tatuatore tradizionale. Sapeva che per essere credibile come Oyabun avrebbe dovuto fare cose poco piacevoli, ma in segno di fedeltà alla propria ikka. Quello era il primo passo da fare. Dovette combattere col senso di nausea nel pensare di tatuarsi qualcosa che l’avrebbe marchiata come uno di quelli che senza pietà avevano fatto fuori Setsuna. Un horimono sarebbe stato per sempre. Un maledizione sulla propria pelle che l’avrebbe messa al pari di Daisuke, di chi aveva fatto fuori e di quei confratelli che avrebbe tradito. Ma quello oltre che un’etichetta sarebbe stato anche uno scudo, una protezione per Michiru. Combattere per chi si ama non è mai abbastanza e Haruka avrebbe affrontato anche questo.
Un vecchio dall’aria gracile e le braccia piene di demoni neri l’accolse. Le fece cenno con una mano di entrare.
«Non più di tre ore» sentenziò, scostando una tenda per farla passare attraverso uno stretto corridoio riportante diverse schiene interamente tatuate nel corso del tempo.
Haruka lo sapeva bene. Non si trattava di un normale tatuaggio, il dolore al quale si veniva sottoposti era troppo intenso per tanto le sedute non potevano durare più di tre ore.
Gli occhi cobalto si posarono su una ad una di quelle immagini, per alcuni di quei disegni c’erano voluti dieci anni di lavoro e chissà a quale delinquente appartenevano quelle parti del corpo.
La bionda trattenne il respiro. Nessuno era a conoscenza della sua identità lì dentro, ma il tatuatore si sarebbe certamente accorto che lei non era esattamente un uomo.
«Di qua».
L’uomo la guidò sino alla quinta porta e la fece accomodare.
«Sai cosa vuoi farti tatuare?».
Haruka pensò al dragone sul braccio di Akira, al simbolo della loro casata.
«Si, un dragone».
Il vecchio fece un cenno di assenso col capo e le passò il libro contenente i diversi tipi di drago che si eseguivano nel suo centro.
Prese un pezzo di bambù e vi incastrò una serie di piccolissimi aghi.
«Vado a chiamare mio figlio, tu decidi e spogliati».
Haruka sospirò. Si guardò allo specchio presente davanti a sé e s’impose di rimanere calma. Sbottonò la propria camicia e gettò un’occhiata attraverso la tenda di madreperla che la divideva da uno stanzino comunicante.
Una cascata di lunghi capelli rossi pettinati in una treccia pendeva dal lettino e sulla pelle diafana di quella che pareva una giovane donna, svettava su un fianco una corona rossa.
Haruka strizzò gli occhi. Aveva già visto qualcosa di molto simile eppure non riusciva a creare una connessione stabile con quel ricordo.
Si sforzò di pensare, col presentimento si trattasse di qualcosa di estremamente importante e in quel momento il cellulare suonò.
«Cazzo» sibilò nel vedere il numero di Rei.
Prese la chiamata grugnendo sottovoce un «Non è propriamente il momento né il luogo adatto».
«Siamo fuori dal caso. Ci hanno rimpiazzato».
«Come? Tutte e due?».
Per un momento non seppe come prendere la notizia. Meno contatti con la polizia non le avrebbero fatto male essendo ormai un’infiltrata.
«Non lo so, parlo di me. Accidenti, non so un bel niente di te. Ma senti…Setsuna si fidava, ok? Quindi devi aiutarmi».
«Ah si? Devo?».
«Oh fanculo. Sei l’ultima persona con la quale vorrei parlare sulla faccia della terra e…».
«Quanti complimenti, non posso davvero non accettare allora» biascicò sarcastica portando una mano davanti alle labbra per mantenere più riservatezza possibile.
«Metteranno sotto chiave i documenti».
«Sveglia, Rei. Noi abbiamo una cosa che aveva anche Setsuna e di cui loro non sanno nulla…comincia da lì».
All’altro capo seguì un momento di silenzio, ma poi la voce di Rei si fece squillante come se l’illuminazione l’avesse accecata in pieno.
«Mimì».
Haruka sorrise debolmente e dovette chiudere la chiamata infilando maldestramente il telefono in tasca.
Un uomo rasato, alto come una montagna e un pizzetto nero pece entrò presentandosi come quello che avrebbe eseguito quell’opera d’arte sulla sua pelle.
La bionda deglutì. La coda dell’occhio scivolò nuovamente su quel fianco di pelle chiara macchiato di scarlatto.
Si sdraiò sul lettino e nel fissare il disegno un ricordo non la tradì. Il cadavere. Nel bel mezzo del suo horimono c’era lo stesso identico tatuaggio.
L’uomo borbottò una sorta di preghiera prima di cominciare ad incidere il dragone nel bel mezzo delle sue scapole.
Ad Haruka i primi fori apparirono come una serie di piccole pugnalate e nel bel mezzo di quell’agonia inchiostrata, con un fruscio leggero, lo sguardo della donna rossa incrociò il suo. Rotolò dentro quel cobalto lucido di lacrime trattenute per soffermarsi sulle sue labbra schiuse.
La sconosciuta le sorrise, un sorriso bello ma allo stesso tempo inquietante come quello che probabilmente appartiene alla morte se identificata con una bella donna.
Haruka non riuscì a ricambiare, tutti i suoi muscoli erano come paralizzati e le pupille nere puntate su quell’incurvatura che le era appena stata dedicata; una strana sensazione le attanagliò lo stomaco e per qualche oscuro motivo si sentì come se la donna rossa l’avesse riconosciuta.
 


Note dell'autrice:

Mie care Loganiane eccomi con un nuovo capitolo. 
Mi sono auto inquietata con questo finale, è mai possibile? Mi rendo conto che stare dietro a tutti gli indizi seminati nel corso della storia non è semplice (manco per me e spero di non perdere colpi e dimenticarmi le cose e scrivere boiate) figuriamoci se può esserlo per i poveri protagonisti della ff!
Bando alle ciance, so che il capitolo non è all'altezza del precendente. Intendiamoci, in "Say goodnight" abbiamo avuto azione, drammaticità e chi più ne ha più ne metta. Non posso però farli tutti così o stermino mezzo mondo e direi che già un grosso danno è stato più che sufficiente. Tuttavia spero possiate apprezzare anche questo...ditemi la vostra e soprattutto, cosa ne pensate dell'entrata in scena di Jadeite? (non ha un cognome questo cristiano?).
Un baciotto.

Kat
 
 
 
 
 
   
 
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